Editoriale

Itaca non è la mia patria

Non ho un luogo dove tornare, semmai un passato che è già storia e come tale finito per sempre

Umberto  Croppi

di Umberto  Croppi

ara Simonetta,

intervengo in questa saga in forma di una lettera rivolta a te, dal momento (non riesco a girarci intorno) che non trovo in essa nessun interesse e, come già Solinas, lo faccio soltanto perché non riesco a sottrarmi all’invito di un’amica vera. Esponendomi solo al rischio dell’incomprensione e a qualche insulto nella sezione dei commenti.

Del resto mi ritrovo, quasi in ogni parola nel bellissimo e lucido intervento di Stenio, che mi esenta dallo spendere molti degli argomenti che lui, in forma molto più brillante di quanto io potrei fare, ha già proposto.

Potrei dire altrettanto per l’accorato pezzo di Franco Cardini, se non mi dividesse da lui uno stato d’animo, la lieve nostalgia che in qualche modo trapela: io non credo che Itaca esista e ho un generale ribrezzo per la metafora.

Se ad una suggestione letteraria posso far ricorso, è un altra. L’ho utilizzata per un moto spontaneo in un mio non previsto intervento, durante la presentazione romana dell’omaggio che Manuel Grillo ha dedicato a suo padre, altro nostro grande amico, Pino. È la storia dei “Figli della mezzanotte” di Salman Rushdie, è la storia magica dei nati intorno alla mezzanotte del 14 agosto del ’47, momento della proclamazione dell’indipendenza dell’India. È la storia di una caso, quello che univa un manipolo di bambini, ognuno dotato di una qualità speciale e legati tra loro da una forza telepatica. Qualità, tutte, che si vanno affievolendo negli anni fino a scomparire e la storia di un gruppo si perde nelle storie di ognuno.

Ecco, ho sempre pensato, e l’ho sempre detto, che non credo esista una comunanza di valori, una vera visione del mondo a cui qualche metafisica ci abbia convocato; ancora quasi bambini, fummo uniti dal caso. Un padre fascista, un amico più grande, un libro trovato su una bancarella, una bandiera e la stupidità di quelli che, invece di aprirci le porte ad una pratica diversa, ci ributtavano costantemente dentro il recinto in cui ci eravamo cacciati. 

Nacquero amicizie, si selezionarono affinità (elettive?), si sviluppò la solidarietà di chi vive in stato d’assedio e sa di poter contare solo sui propri compagni, senza stare a sottilizzare sulla loro natura. Si stabilirono solidi rapporti intellettuali che portarono alcuni di noi condividere percorsi, a volte tortuosi, con incroci e divaricazione imprevisti, si marcarono fin da subito distanze incolmabili. 

Registro per altro che semmai mi fossi sentito appartenere ad un isola, ad una patria, quella non è mai stata la stessa di chi ha lanciato l’appello, io e Marcello siamo stati sempre su due emisferi diversi; tutto politico il mio e rivolto alla ricerca di nuovi approdi, tutto intellettuale il suo e dedicato allo stabilire i confini valoriali di una supposta tradizione culturale.

Era il 1980 (32 anni orsono), quando nel pubblicare gli atti del primo convegno della nuova destra anteponemmo al testo l’aforisma della Gaia scienza di Nietzsche , che qui riporto per intero: 

"Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave.

Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle - e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi.

Ebbene, navicella: guàrdati innanzi!

Ai tuoi fianchi c'è l'oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro

e trasognamento della bontà.

Ma verranno momenti in cui saprai ch'è infinito e non c'è niente di più spaventevole dell'infinito....

E non esiste più  terra alcuna".

Già allora avevamo cancellato ogni patria ideale alle nostre spalle.

Certo, la condizione in cui siamo stati costretti a sviluppare quel po’ di conoscenze che fanno parte del nostro bagaglio e a determinare il nostro modo di vedere le cose, fu per molti di noi una condizione felice. 

Ci ha consentito di avere una visione stereoscopica del mondo e sviluppare un senso critico che ad altri non era consentito, cullati da un pensiero dominante che li garantiva nelle certezze e nelle carriere. Si è rivelato, questo, un vantaggio (squisitamente intellettuale) nel momento in cui tutte le certezze venivano rimesse in discussione dalla storia, noi eravamo già pronti, noi conoscevamo il lessico della crisi che altri furono costretti ad imparare, con senso di smarrimento, a volte, col gusto della liberazione, in altri casi. 

Ma quando dico “noi” intendo un esiguo drappello di gente libera, che non ha mai pagato pegni e che si è ridislocata nel teatro delle idee, come meglio gli pareva, senza nessun bisogno di appartenenze rassicuranti, senza spirito di gruppo o, magari, di lobby. 

Così mi è capitato di condividere tratti di strada sul terreno della politica, con persone con cui non condividevo nessun “valore” o percorsi intellettuali con altri che praticavano le proprie idee in partiti diversi, anche molto distanti.

Se mai c’è stato un brandello di terra che ha visto un gruppo di ragazzi illudersi di costituire una comunità di vite e di intenti, questo ha rappresentato un frammento così breve e così lontano delle nostre esistenze che è quasi difficile ricordarsene e non trovo motivo al mondo che possa spingere qualcuno a ricostituirlo. Ci stava stretto perfino allora, razza di irrequieti che eravamo, sempre fuori posto, sempre in minoranza, presuntuosamente sempre altrove rispetto allo spazio in cui ci sentivamo costretti.

È buffo, ma lo ha già incidentalmente ricordato Stenio, che molti di coloro che in questi anni ci hanno fatto la morale, ci hanno richiamato alle origini, quelle avventure non le abbiano in realtà mai vissute, quei rischi non li abbiano corsi. 

Quelli, anche tra i nostri amici, che ci guardavano con un po’ di sospetto per un impegno politico (il nostro) che ci esponeva più del necessario, salvo poi imboccare la strada dell’impegno quando il treno da cui noi eravamo scesi, entrava trionfante in stazioni imbandierate. O quelli che non avevamo mai incontrato, acquattati nelle redazioni di giornali benpensanti e con la villa a Sabaudia, che si scoprivano maestri di pensiero, autodecorati eroi della guerra all’”egemonia culturale”. Un’egemonia (altro mito usato come alibi per millantate qualità frustrate) che noi invece noi avevamo affrontato, con cui ci eravamo confrontati, contribuendo alla sua crisi, determinando contaminazioni e superamenti.

Se poi l’Itaca cui si riferisce Veneziani è fissata ad un'altra data della storia, quella di An, per intenderci o del Pdl, allora io non so proprio che dire. È una storia che non mi appartiene, che non ho condiviso, che non mi riguarda. Trovo anzi che non abbia nemmeno punti di contatto con lontane origini, è una storia nuova, in cui qualcuno ha voluto, per consolazione o semplice opportunismo, vedere l’affermazione di ciò che invece era concluso, fingendo che fosse una finzione, un gioco tattico, per traghettare chissà quale visione del mondo: le cose sono quelle che sono, non quello che noi vorremmo e si misurano solo in base agli effetti che producono.

Ma veniamo a noi, a noi due intendo, noi ci conosciamo e ci frequentiamo da poco, da una decina d’anni, ci unisce, come ho detto e spero, un’amicizia, che è fatta anche di letture comuni e di biografie parallele, ma che non ha nessuna Itaca alle sue spalle, solo il confronto di due intelligenze (uso questa parola in senso tecnico, non mi sopravvaluto), il buon senso, la simpatia e a volte, ma non necessariamente, l’empatia.

Apprezzo lo sforzo che fai anche con questa tua creatura telematica. Alimentare l’approfondimento e il dibattito è sempre un lavoro utile e tu lo fai con dedizione e generosità. Ed al tuo appello ho risposto per dartene atto, ma come vedi è un terreno su cui mi muovo male, ho perfino difficoltà a capire di cosa stanno parlando alcuni degli intervenuti, alla ricerca di un’identità perduta, del tutto immaginaria, una confusa illusione che sempre emerge in tutti i bolsi e inconcludenti dibattiti sulla cosiddetta cultura di destra.

Insomma, per me la questione è questa: se qualcuno ha voglia di fare, di rinunciare ad un pezzetto della propria vita, dei propri affetti, delle proprie ambizioni, perfino delle proprie convinzioni, per praticare quella nobile e generosa arte che è la politica, lo può credibilmente fare solo occupandosi dell’oggi e del domani, senza pre-giudizi, e senza ritorni.

Ti ho detto all’inizio della mia diffidenza per le metafore, e io non sono nato a Itaca, sono nato in una clinica romana che non esiste più, battezzato da un prete che dimenticò di annotare il sacramento nei registri della parrocchia.

Tutto il resto è frutto del caso, impastato con la mia indole, i gusti che mi sono formato, le convinzioni che ho modificato col tempo, interagendo con l’ambiente e con quelle degli altri. Non ho nessuna patria a cui tornare, e nemmeno una in cui fermarmi, attratto sempre più dai confini, per attraversarli, come il marinaio di un’altra Itaca, quella di Lucio Dalla: “se ci fosse ancora mondo, sono pronto, dove andiamo?”

Con affetto e tanta stima


Umberto

A border is always a temptation. 

(James Cook, Giornali di bordo)

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    2 commenti per questo articolo

  • Inserito da Rubicante il 01/07/2012 09:34:11

    errata: più utili di presunzione corrige: più utili di una presunzione

  • Inserito da Rubicante il 01/07/2012 09:30:17

    Umberto ha, da quando so di lui, il mio tempo e la mia attenzione. Sono tanto d'accordo con lui da chiedermi a cosa mai possa servire dirlo. Niente itache nella mia vita, o meglio, alcune itache raggiunte, che si sono rivelate tutte abitate dai medesimi indigeni, più o meno sofisticati, dai quali speravo di allontanarmi. Se mai cerco di dire con parole mie il concetto al quale sono costretto a credere se prendo per buona la metafora "Itaca", direi "lingua italiana", la nostra splendida lingua che ancora, credo, può darci prove di potenza più utili di presunzione di parità.

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