Editoriale

Università telematiche e il pericolo della distopia orwelliana

Il presidente di Confindutria lancia l'allarme sulla scarsa qualità dei laureati in atenei telematici

Simonetta  Bartolini

di Simonetta  Bartolini

eggendo le legittime critiche che il presidente di Confindustria Emanuele Orsini aveva fatto alle università telematiche, avevo provato un moto di vera e sincera riconoscenza. Il mondo imprenditoriale lanciava un grido di allarme riguardo alla formazione universitaria invocando la necessità di eccellenza.

Leggendo poi l’intervento di Carlo Lottieri sul «Giornale» che dava voce alle rimostranze del mondo universitario telematico lo sconforto è tornato sovrano, anche se comprendo quanto esso sia dettato da una altrettanto legittima difesa d’ufficio.

Il discorso sull’università e sui mali che la affliggono sarebbe lungo e penoso, ma basta leggere il libro di Galli della Loggia, Berardelli e Perla, Università addio per avere un’idea di come metter mano al problema. Quindi procedo per punti rispetto alla difesa delle università telematiche fatta da Lottieri.

Giustamente si dice che le telematiche erano nate per offrire, a coloro già inseriti nel mondo del lavoro, la possibilità di compiere un percorso formativo superiore che magari permettesse di avere un avanzamento in carriera, o più frecce in faretra per migliorarsi. Intento lodevole e finanche benemerito. Ma guardiamo i numeri: nel 2024 l’11,5% degli studenti risulta iscritto ad un’università telematica con un incremento del 7% negli ultimi dieci anni. Sorge spontanea una domanda: in un decennio abbiamo avuto un numero così significativo di persone che avendo un lavoro volevano prendere una laura che non avevano? Può darsi, ma non ci sono dati che ci dicano quanti studenti lavoratori e quanti studenti liberi da impegni si iscrivano alle telematiche. Il sospetto è che molti studenti preferiscano l’iscrizione ad una telematica perché presenta notevoli vantaggi, fra i quali costi meno elevati, maggiore semplicità nel sostenere gli esami e risultati più certi. Insomma, si ha il sospetto che si preferisca la minima spesa (non solo in termini economici) e la massima resa (risultato quasi garantito). Che poi si trasformi in minima spesa minima resa (qualitativa) ormai sembra non interessi a nessuno, da qui l’allarme del Presidente di Confindustria.

Lottieri e i difensori d’ufficio delle università telematiche, affermano che “una delle ragioni della bassa produttività italiana risiede nel limitato numero di laureati”: curioso che il presidente di Confindustria non ci abbia fatto caso. È altresì curioso che, vista la lamentata penuria di laureati, ce ne siano tanti senza occupazione. Viene il sospetto che il mondo imprenditoriale abbia bisogno di quell’eccellenza invocata da Orsini ma definita da Lottieri “difesa dell’esistente”.

Appunto l’eccellenza. È vero che è difficile fare gerarchie di valore assoluto, anche se i dati dell’ANVUR riguardo agli atenei italiani relegano le università telematiche in posizioni non esattamente da primato (dati del Corsera del 2 aprile 2025 e più recentemente sulla «Stampa» il 21 luglio 2025).

Ma a prescindere da ciò la didattica basata su lezioni preregistrate difficilmente formerà un eccellente laureato. L’insegnamento universitario non è istruzione, ma formazione al sapere, acquisizione di strumenti atti a interpretare la complessità. E questo difficilmente potrà avvenire fornendo ai discenti un tutorial per maneggiare la bibliografia di un insegnamento.

Le lezioni on line sono di fatto audio-video-bignami accompagnati da slide (le uniche che lo studente finisce per studiare ignorando i libri di testo), il cui apprendimento spesso viene verificato attraverso test a crocette (comprensibile visto il rapporto docenti/studenti, 1 a 385).

Chi scrive insegna in un corso di studi tradizionale e in uno telematico e, stante i lievi numeri di quello telematico, può fare esami tradizionali. La differenza purtroppo si vede. Perché una lezione universitaria non è fatta solo di nozioni, riflessioni, approfondimenti preconfezionati (allora basterebbero i libri, potremmo abolire le lezioni e verificare la conoscenza della bibliografia). Una lezione universitaria è fatta anche di continuo confronto con la quotidianità, con il mondo che ci circonda, con la complessità con cui il sapere deve confrontarsi. È fatta di dialogo docente /discente è fatta di scambio continuo, e anche, sì diciamolo, di empatia.  È necessario adeguare la propria lezione agli studenti che ti trovi davanti senza per questo immiserirne la qualità ma certamente cercando una corrispondenza con chi ascolta.  

Non basta, e parlo per la materia che insegno, conoscere tutto su uno scrittore e sulla sua opera, se chi li ha studiati a lungo (e questo dovrebbe essere il ruolo del professore universitario) non porta, per esempio, lo studente a verificarne l’attualità e dunque la forza, l’importanza e la necessità di conoscerli con il continuo confronto con il mondo che ci circonda.

Per non parlare naturalmente dell’esiguità oraria di un corso telematico dove la necessità di ascolto e riascolto, oltre alla naturale caduta dell’attenzione molto più rapida di fronte a qualcosa di preregistrato, riduce di fatto il numero di ore dedicate a quell’insegnamento rispetto ad una lezione in presenza.

Sulla «Stampa» leggiamo che un burlone (non può essere altrimenti) addirittura si augura che anche nelle cosiddette scuole dell’obbligo si passi alla didattica su piattaforma.

Certo risolveremmo molti problemi economici perché con il sistema telematico l’insegnante sarà necessario solo la prima volta, quando dovrà registrare le lezioni, poi l’anno successivo con poche ore di assistenza (all’università si chiamano e-tivities) qualche interrogazione (rigorosamente con test a crocette) si potrà ridurre drasticamente il numero dei docenti e magari, per giustificare lo stipendio, visto che non faranno più lezione, impiegarli a sbrigare pratiche burocratiche (quelle tanto non mancano mai). Se ne gioverebbe anche l’edilizia scolastica che non si troverebbe più a fare i conti con tetti che fanno acqua (quando non crollano) o aule troppo fredde in inverno o troppo calde in estate. Ancora un magnifico risparmio!

Potrebbe accadere, ma il burlone di cui sopra non ci pensa perché appunto parlava per burla, che alleveremmo generazioni di zombie capaci solo di interloquire con un computer (altro che hikikomori!), ma di fronte alle magnifiche sorti e progressive per i laudatores della tecnologia e della cosiddetta intelligenza artificiale questo deve sembrare un lieve prezzo da pagare.

Nello stesso modo sarebbe simpatico capire come se la caverebbero le famiglie che demandano alla scuola la sorveglianza e la sistemazione logistica dei figli quando i genitori sono al lavoro. O come se la caverebbero quei tanti che vivono in abitazioni troppo piccole per gestire l’interazione studente computer. La pandemia ci ha insegnato quanti problemi sono sorti per le famiglie quando le scuole erano chiuse e le lezioni si svolgevano a distanza.

Per favore, non scherziamo, la scuola e l’università sono (o dovrebbero essere cose serie) e questa difesa delle nuove tecnologie da applicare indiscriminatamente in qualunque campo, compreso quello dove l’essere l’umano e la sua capacità fanno la differenza, è un vero e/orrore.

Immaginare generazioni di studenti (per ora universitari) formati davanti ad un computer assomiglia molto, troppo alla distopia del romanzo di Orwell – vi ricordate i teleschermi che guidavano la società?

Un totalitarismo tecnologico che annulla la libertà di essere umani.

 

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