Editoriale

Il Manifesto di Ventotene

L'utopia della federazione Europea

Italo Inglese

di Italo Inglese

Manifesto redatto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il contributo di Eugenio Colorni, allora confinati a Ventotene quali oppositori del regime fascista, è tornato ora in auge in relazione al dibattito sul piano del riarmo europeo. Il documento, ormai piuttosto datato, è stato riesumato da una sinistra a corto di idee e di proposte praticabili in particolare sui futuri assetti della UE. Con il solito isterismo che contraddistingue la polemica politica dei nostri giorni, la sinistra ha reagito alle critiche che sono state rivolte al documento come se questo avesse un carattere sacrale, che lo esclude da qualsiasi possibilità di giudizio sfavorevole: pretesa davvero insensata.

Se è vero, come è stato eccepito dai custodi del pensiero politicamente corretto, che il Manifesto va interpretato in relazione al contesto storico-politico in cui è stato prodotto, tuttavia, visto che viene evocato come documento ancora attuale – anzi sommamente attuale con riferimento alla presente congiuntura, al punto da poter costituire, per la sinistra, un modello per il progetto di un rinnovamento/rilancio della costruzione europea – è del tutto legittimo che esso sia valutato non soltanto dal punto di vista storico ma anche da quello della sua odierna effettività. E ciò non può implicare alcuna mancanza di rispetto nei confronti dei suoi estensori.

Il Manifesto pronostica «la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani» e quindi prefigura «una riorganizzazione federale dell’Europa», così cogliendo in anticipo il fenomeno che si sarebbe poi evidenziato come crisi dello Stato- nazione (fenomeno che, peraltro, riguarda segnatamente alcuni Paesi dell’Occidente; appare infatti arduo, e verosimilmente non corretto, asserire che tale crisi, pur in un mondo globalizzato, possa riguardare nazioni come la Cina, la Russia o gli Stati Uniti). Sennonché, la ricetta proposta - la Federazione europea -, già irrealistica all’indomani della fine del conflitto mondiale, appare tuttora irrealizzabile: è assai improbabile che Paesi come la Francia, la Germania o il Regno Unito (ammesso che intenda rientrare in una forma di unione europea), ma anche come l’Ungheria, siano disposti a rinunciare in toto alla loro sovranità a favore di una federazione. Più realistico è ipotizzare la costituzione di una confederazione in cui gli Stati manterrebbero gran parte delle loro competenze, devolvendo al governo confederale alcune decisioni in materia di politica estera, difesa comune (con l’impiego degli eserciti nazionali come oggi è previsto per la Nato), commercio internazionale, e applicando, per il resto, il principio di sussidiarietà, in base al quale le decisioni sono demandate prioritariamente al livello nazionale/regionale. Questa soluzione avrebbe il pregio di istituire una organizzazione capace di una politica unitaria su questioni fondamentali e, pertanto, senza svilire le peculiarità e identità nazionali, dotata di autorevolezza e rappresentatività sul piano internazionale.

È invece caratterizzata da un pragmatismo condivisibile l’affermazione contenuta nel documento circa «l’inutilità, anzi la dannosità di organismi come la Società delle Nazioni, che pretendono di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni»; affermazione che oggi può essere riferita all’Onu.

Il documento di Ventotene avanza inoltre alcune considerazioni che rivestono un carattere di persistente attualità in materia di meritocrazia nell’istruzione pubblica, critica dei «sindacati monopolistici» e una modesta proposta volta all’abolizione del Concordato, questioni complesse che esulano dai limiti della presente nota, essenzialmente dedicata agli aspetti del testo in esame concernenti il futuro dell’Europa.

Alla luce di una valutazione complessiva, il Manifesto esprime sostanzialmente i seguenti orientamenti: 1) un internazionalismo derivante dalla dottrina marxista e dalla utopia kantiana della pace perpetua, garantita da un governo mondiale. In questa prospettiva, pare che l’ipotizzata «Federazione europea» debba essere intesa come una prima fase nella direzione di una vagheggiata «unità politica dell’intero globo»; 2) una presa di posizione a favore di una «rivoluzione europea», che «dovrà essere socialista» al fine di sottrarre le classi lavoratrici al progressivo impoverimento; in questa direzione, pur prendendo le distanze dal «dispotismo burocratico» dei regimi comunisti, il Manifesto sostiene una incisiva limitazione in generale della proprietà privata e l’abolizione del diritto di successione; più in particolare, una forte contrazione della proprietà privata dei mezzi di produzione attraverso «nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti»; nei settori «non statizzati» è prevista l’estensione della proprietà delle aziende ai lavoratori; 3) il ripudio della metodologia democratica in quanto non funzionale al successo della rivoluzione; 4) la dittatura del partito rivoluzionario come propedeutica alla «nuova democrazia».

Sul piano economico, il documento palesemente denota una visione contraria all’economia di mercato e alla libera intrapresa. Esso sbaglia quando marxianamente prevede il progressivo impoverimento dei «proletari». In realtà, nel mondo occidentale capitalistico, pur tra madornali diseguaglianze, si è verificato, a partire dal secondo dopoguerra, l’avvento della «società dell’abbondanza», descritta da J.K. Galbraith negli anni Cinquanta, che si espande ora verso aree del mondo dove, fino a ieri, regnava il sottosviluppo.

Il liberismo è indubbiamente difettoso, ma l’alternativa non può essere il socialismo, sia pur dal volto umano, il quale, nelle sue varie forme, ha sempre fallito, con il paradossale risultato di aver peggiorato le condizioni tanto dei poveri quanto dei ricchi. Ciò nonostante, il socialismo continua a godere di buona fama perché - si dice -, al di là delle esperienze applicative, le sue intenzioni sono buone. Per motivi che non possono essere qui sviluppati, esso è invece non solo inefficiente sul piano pratico ma anche intrinsecamente, ontologicamente, perverso. L’ordine che esso vorrebbe instaurare è incompatibile con la natura umana e, solo modificando quest’ultima in nome di un astratto e opinabile razionalismo, può riuscire ad affermarsi.

Ma, dicevamo, anche il capitalismo è criticabile, soprattutto nelle forme che ha attualmente assunto, molto distanti dalle concezioni dei padri del liberismo, i quali assegnavano un ruolo importante allo Stato e all’ordinamento giuridico per contenere gli eccessi del libero mercato e colmarne le lacune. Tuttavia, lo ripetiamo, il problema è individuare una valida alternativa, la quale non può essere identificata nella decrescita «felice» o nell’illusorio ritorno a una mitica età dell’oro. La decrescita sarebbe possibile solo se imposta e comunque determinerebbe una riduzione della ricchezza complessiva, con conseguente riduzione anche delle risorse utilizzabili per la sanità, la ricerca, l’istruzione, la previdenza e l’assistenza. Al riguardo, il Manifesto non fornisce plausibili indicazioni, anzi ne fornisce di anacronistiche, ispirate alla pianificazione economica e al dirigismo statale che, in particolare in Italia, hanno generato un debito pubblico gigantesco e una deleteria mentalità assistenzialistica. È bello dichiarare di voler sollevare le sorti dei meno abbienti, ma poi occorre operare con soluzioni efficienti ed economicamente sostenibili perché il fine sia conseguito. L’economia non è una torta dalle dimensioni rigidamente definite. Se l’economia funziona, la torta cresce e diventa possibile distribuirne fette più consistenti. Perciò è esiziale mortificare la remunerazione dell’iniziativa privata, che si traduce in investimenti, occupazione non artificiale, aumento della ricchezza della nazione.

In definitiva, se si eccettua la parte relativa al federalismo europeo, il Manifesto non sembra offrire spunti per una politica del tempo presente che non voglia appiattirsi su un socialismo di vecchio stampo. Del resto, la sua fortuna è stata piuttosto scarsa. Non risulta che le sue proposte siano state accolte nella Costituzione repubblicana né nei Trattati europei. Paradossalmente la nostra Costituzione ha di fatto dimostrato maggiore disponibilità a recepire il principio della «funzione sociale della proprietà», già enunciato nella Carta del Carnaro (la costituzione dannunziana di Fiume), nonché alcuni retaggi del sistema corporativo e del fascismo “rosso” come la registrazione dei sindacati e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese che, non a caso, non hanno mai trovato attuazione.

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