Opera di Roma

Il ritorno di Mefistofele: dopo Cagliari, quel diavolo d'un Boito trionfa all'opera di Roma.

Si conclude oggi una edizione molto apprezzata sul piano della direzione d'orchestra, ma con molte contestazioni alla regia di Simon Stone

di Domenico Del Nero

Il ritorno di Mefistofele: dopo Cagliari, quel diavolo d'un Boito trionfa all'opera di Roma.

Finalmente una Boito renaissance? Se negli ultimi decenni il Mefistofele si era diradato dai palcoscenici italiani, anche se non da quelli internazionali, in questi ultimi due anni il capolavoro del musicista scapigliato è ritornato a far sentire la sua atmosfera angelica e diabolica anche nei nostri teatri: dopo la ripresa nello scorso anno della edizione della edizione coprodotta dai teatri di Lucca, Pisa e Rovigo presentata a Piacenza e a Modena con l’ottima direzione d’orchestra del Maestro Francesco Pasqualetti e la bella regia di Enrico Stinchelli,  quest’anno l’opera è approdata a Cagliari in una edizione apprezzata diretta da Lü Jia e con la regia di Juan Guillermo Nova; mentre si  concluderanno domani le recite del teatro dell’opera di Roma, l’appuntamento è poi ad Aprile alla Fenice di Venezia, con la direzione di Nicola Luisotti e la regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier. Tutti allestimenti diversi che si spera possano girare anche in altri teatri italiani e non; ma non finisce qui.  Il vero grande evento per gli appassionati del poeta-musicista veneto sarà però l’appuntamento, ancora a Cagliari, con il Nerone, rappresentato per la prima volta nel capoluogo sardo e assente ormai da molti anni dai palcoscenici italiani: dal 9 al 18 febbraio, ben 10 rappresentazioni, con la direzione di Francesco Cilluffo e la regia di Fabio Ceresa.

Non è pero solo una questione di “quantità”; sono in molti ormai ad apprezzare l’opera musicale di Boito, oggetto di profonda diffidenza, quando non di aperto disprezzo, da parte di non pochi critici e studiosi che l’hanno accusato di superficialità, velleitarismo o addirittura di non essere un autentico musicista, solo per citarne alcune tra le più sconcertanti e assurde accuse. Non solo negli ultimi anni la bibliografia boitiana si è notevolmente arricchita di notevoli contributi, ma direttori d’orchestra come Francesco Pasqualetti e Michele Mariotti, compositori come Marco Tutino o registi come Davide Livermore non si “vergognano” di apprezzare apertamente l’opera musicale di Boito e non dimentichiamo poi quel vero e proprio grande pioniere che è stato Riccardo Muti. Se poi c’è chi per il Mefistofele usa finalmente la parola capolavoro, chissà che non si arrivi a definire così anche il Nerone.

L’edizione messa in scena dal teatro dell’opera di Roma, che si concluderà martedì 5 dicembre, ha registrato un generale apprezzamento per la direzione d’orchestra e il coro (o meglio i cori), qualche riserva su alcuni interpreti e molte riserve sulla regia. La presente recensione si riferisce alla recita di domenica 3 dicembre e prenderà dunque in considerazione il secondo cast.

La direzione d’orchestra di Michele Mariotti è senza dubbio il grande punto di forza dello spettacolo. Mariotti dà della partitura boitiana una lettura che dire entusiasmante è dire poco, mettendone in risalto la straordinaria forza e complessità: a partire dal prologo in cielo, vero capolavoro nel capolavoro, in cui il poeta musicista sintetizza l’opera di Goethe con la “visione” dantesca; un prologo concepito come una sorta di sinfonia vocale-strumentale in quattro tempi, ed è proprio questa dimensione “sinfonica” che Mariotti esalta in modo particolare, realizzando soprattutto  nei cori quel perfetto connubio tra poesia e musica che fu uno dei più tormentati obiettivi boitiani. Ma non solo il prologo; le sinistre atmosfere del sabba infernale segnano momenti particolari come la  canzone del folletto, anticipata strumentalmente con straordinaria forza sinestetica; il momento altamente drammatico della follia di Margherita emerge nello strumentale con un pathos straordinario. Una lettura, splendidamente assecondato dall’ orchestra e dal coro dell’Opera di Roma, insieme al coro delle voci bianche – tutti eccellenti -  che oltre alla grande visione d’insieme esalta anche la cura del particolare, rivelando sfumature inconsuete di questa bellissima partitura. “Mefistofele è un’opera che parla di Dio, amore e utopie”, ha dichiarato il maestro. Ed è esattamente quello che abbiamo sentito in teatro, grazie alla musica “figuratrice dell’invisibile” che la sua bacchetta ha saputo evocare.

Per gli interpreti, la prova del secondo cast è nel complesso senz’altro positiva: Il Mefistofele di Jerzy Butryn non ha forse proprio la profondità che tradizionalmente si associa a questo ruolo (Samuel Ramey docet) ma è comunque gradevolmente scura e compatta e si muove con agilità e disinvoltura nei brani più impegnati come la canzone del fischio e Ecco il mondo. Buona anche la presenza scenica, discretamente ironica e beffarda come da copione.   Il tenore Anthony Ciaramitaro ha un discreto volume di voce e una buona dizione, ma è parso in alcuni momenti un po’ in difficoltà – come nel difficile passaggio dell’epilogo baluardo m’è il vangelo – ma nel complesso la prova è stata positiva. Nessuna riserva invece per Valeria Sepe, bravissima sia nel ruolo di Margherita che di Elena: una voce chiara, di un bel timbro nitido e considerevole perfetta negli acuti e nella coloratura, è stata una Margherita intensa e struggente e una Elena chiusa nel dolore del ricordo: “forma ideal purissima” nella dimensione del sogno.

Ed eccoci dunque alla regia di Simon Stone, attore, regista e sceneggiatore australiano vincitore dell'AACTA Award alla miglior sceneggiatura non originale, non nuovo alle regie operistiche (si ricordano la sua Traviata con Violetta come influencer a Parigi nel 2019, o Lucia di Lammermoor che diventa una oppiomane in un’area degradata degli States, a New York nel 2022 ) Contestata alla prima, la sua regia del Mefistofele ha senza ombra di dubbio sollevato più critiche che consensi, al punto di far pensare che il regista non amasse né l’opera né il suo autore: ha fatto scalpore un passo di una sua intervista (riportata sull’elegante libro – programma di sala) in cui dichiara che “Boito è illogico, caotico e pazzo”. Ma bisogna sempre guardarsi dalle decontestualizzazioni: Stone dice questo dopo aver dichiarato di aver amato Mefistofele fin dal primo ascolto aggiunge: “Mentre i capolavori di Verdi seguono sempre forme nitide e strutturate, Boito è illogico etc…”  Non è forse il modo migliore di dirlo, ma è una affermazione almeno in parte condivisibile e tutt’altro che spregiativa per Boito. E ancora “La chiave del Mefistofele è atemporale e profondamente cristiana. Italianissima nel suo cristianesimo. Descrivendo il bene e il male, Mefistofele ci parla di sconfinamenti tra i contrari.”

Osservazioni senza dubbio interessanti che ogni studioso di Boito potrebbe condividere, anche se con qualche precisazione. Ma Boito non era soltanto artista eccelso, ma anche uomo di teatro che per le sue opere si era calato demiurgicamente nel ruolo dell’antico tragediografo greco, che crea poesia, musica, coreografie e scenografie. Senza necessariamente dover ricalcare le sue indicazioni, chiunque affronta le sue opere dovrebbe quantomeno tenerne conto.

Il bianco come cifra dell’atemporalità? In realtà, le asettiche scene di Mel Page, autore anche dei costumi un poco scialbi, lasciano perplessi e soprattutto si fatica ad armonizzarle con il fluire magnetico e travolgente della musica. Non per nulla, per il Prologo Boito aveva previsto una nebulosa, decisamente meglio della gradinata con coro al balcone.   Ma prologo a parte, convincono poco diverse trovate: Mefistofele nel primo atto nelle vesti di un clown.  Si potrebbe obiettare che già Boito si prese la libertà di trasformare il cane di Goethe nella più inquietante figura del frate; ma se è indubbio che in Mefistofele vi sia un qualcosa di istrionico e beffardo, il personaggio di Stone somiglia francamente più all’It di Stephen King e non è proprio la stessa cosa.  Così come francamente incomprensibili risultano il giardino di Marta che diventa una piscina di palle multicolori, il Kitsch un po’ eccessivo del porco sgozzato e sanguinante del sabba infernale (con una staticità del coro davvero sconcertante)  e l’epilogo nell’ospizio con tanto di sedie a rotelle. Qualche buona intuizione non manca: il mondo che finisce bruciato dopo l’aria del Sabba, ma soprattutto quella che è forse la migliore realizzazione scenica, la prigione di Margherita: un ambiente nudo e spoglio con uno schermo su cui i rimorsi di Margherita vengono proiettati nella loro concretezza, ma tutto questo non è bastata e convincere il pubblico e non solo.

Comunque sia un bellissimo evento, sicuramente memorabile per l’esecuzione orchestrale, molto apprezzato anche in questa replica dal pubblico in sala, con particolari - e meritatissime- ovazioni per il direttore e i cori e i loro maestri, Ciro Visco e Alberto de Sanctis

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    2 commenti per questo articolo

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