Maggio Musicale Fiorentino

Falstaff, l’ultimo capolavoro di Verdi nell’ interpretazione di Daniele Gatti. Un ottimo fine di stagione per la parte operistica del festival fiorentino.

Se la regia di Sven-Eric Bechtolf ripresa da Stefania Grazioli e molto apprezzata è più o meno la stessa della scorsa edizione, la direzione e la compagnia di canto sono totalmente rinnovati; e promettono decisamente bene

di Domenico Del Nero

Falstaff, l’ultimo capolavoro di Verdi nell’ interpretazione di Daniele Gatti. Un ottimo fine di stagione per la parte operistica del festival fiorentino.

Ancora Falstaff? La riproposizione del glorioso titolo verdiano andato in scena nella scorsa stagione (novembre – dicembre 2021) ha suscitato qualche perplessità e fatto storcere qualche naso un po’ surciglioso. A parte il fatto che è un capolavoro talmente immenso che si rivede sempre con il massimo piacere, una cosa è assolutamente falsa: non si tratta della stessa edizione dell’anno scorso; e non solo perché in musica non esiste nulla a che sia uguale a qualcos’altro, ma soprattutto perché l’unica cosa parzialmente in comune è la regia, peraltro molto apprezzata: cambia il direttore e cambia quasi completamente il cast. E se è vero che lo scorso anno svettava la blasonatissima bacchetta di sir John Eliot Gardiner e il panciuto cavaliere era magistralmente impersonato da Nicola Alaimo, l’edizione di quest’anno vede sul podio Daniele Gatti, che dell’ultima opera verdiana ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, e cantanti di notevole spessore  che promettono di non far rimpiangere nemmeno una nota. L’opera debutterà sul palcoscenico della sala grande del teatro del Maggio Venerdì 16 giugno alle ore 19; altre tre le recite in programma: il 19 e 21 giugno alle ore 20 e il 23 giugno alle ore 18. Sul podio, alla guida dell’orchestra e del coro del Maggio il direttore principale Daniele Gatti; la regia dello spettacolo è di Sven-Eric Bechtolf ripresa da Stefania Grazioli. Costumi di Kevin Pollard, luci di Alex Brok riprese da Valerio Tiberi e video di Josh Higgason 

 

 Si tratta dunque di una edizione e di una lettura assolutamente nuovi, in particolare per Firenze dove il maestro Gatti non l’aveva ancora mai diretta. “Insieme a Die Meistersinger von Nürnberg di Wagner, Falstaff è una delle due opere che potrei dirigere davvero ogni giorno della mia vita. Un’opera quasi più da recitare che da cantare: una storia in musica dove i cantanti sono parte di un progetto dove l’orchestra prende un sopravvento come raramente visto nella storia del melodramma. Con Falstaff guardiamo, per assurdo, quasi più alla musicalità di Beethoven per quanto concerne la purezza e la ‘moralità’ sulla conduzione e il ritmo, talmente perfetti che sembrano un evolversi narrativo (e musicale) totalmente naturale e semplice. Nel corso dello sviluppo dell’opera l’orchestra interviene in modo costante, e non solo come semplice accompagnamento: quasi come se fosse un vero e proprio ‘membro in più’ del cast. Ogni stato d’animo dei cantanti, dall’allegria alla nostalgia, viene perfettamente messo in evidenza dall’orchestra, in misura decisamente maggiore rispetto alle opere verdiane precedenti. Falstaff è davvero un unicum, non c’è un’opera che possa aver fatto da ‘apripista’ così come non troveremo nulla di anche solo vagamente simile dopo; nessuno ha seguito questo tipo di struttura operistica o di evoluzione narrativa. Rispetto a quello che spesso si pensa, Falstaff non è un’opera comica: spesso ci troviamo in situazioni buffe, ma l’opera, da un certo punto di vista, è persino cinica.” Così il maestro Daniele Gatti, e già queste dichiarazioni dovrebbe accendere l’interesse sia dell’intenditore che del semplice ascoltatore. Perché Gatti non è solo un grandissimo interprete, ma è anche moto attento alle sfumature, a cogliere in una partitura tutti gli aspetti che una lettura più frettolosa rischia di obliterare. E chi ha avuto la grande occasione di assistere alle prove, può assicurare che ci sono tutte le premesse perché questo Falstaff rimanga memorabile nella storia del Maggio: una lettura che trascina, che evidenzia al massimo il ruolo dell’orchestra di cui parlava il maestro, tempi sempre giusti  e soprattutto attenzione agli impasti strumentali, ai colori  e ai “guizzi” che fanno di quest’opera un vero miracolo, che scaturisce dall’incontro e dalla collaborazione di due geni: il poeta – musicista Arrigo Boito, che con Falstaff scrive uno dei maggiori capolavori della librettistica italiana, e un compositore ormai ottantenne, eppure capace di creare con Falstaff quello che per alcuni (compreso chi scrive) è forse il suo massimo capolavoro.

E la straordinaria attenzione al particolare di Gatti coinvolge ovviamente anche le voci; il maestro guida i cantanti alla minima inflessione nell’intonazione stessa, quella che rivela il carattere e lo stato d’animo del personaggio. E il panciuto sir John trova una caratterizzazione molto promettente in Michael Volle, al suo debutto al Maggio, ma non nel ruolo del titolo: “Ogni volta che interpreto il ruolo di Falstaff sono sommerso dalla bellezza non solo della musica, ma di come essa riesca perfettamente a sposarsi con il personaggio ‘dipinto’ da Shakespeare prima e Arrigo Boito poi. Lavorare in questa produzione è davvero interessante ed è un piacere tornare a collaborare, in parte, con Sven-Eric Bechtolf; inoltre, tutto l’ensemble artistico è davvero grandioso, anche perché l’opera stessa lo richiede, essendo quasi ogni suo minuto permeata da parti corali che la rendono complessa ma profondamente appagante sia da ascoltare che da interpretare. Lavorare insieme al maestro Gatti, con il quale ho interpretato più produzioni dei Die Meistersinger von Nürnberg, è stata davvero una fortuna poiché ha delle idee chiare e precise su come dev’essere strutturata l’opera, dall’orchestrazione alla pronuncia al fraseggio”. E Volle promette di esser un interprete di tutto rispetto sia sul piano della recitazione che di quello vocale. Il resto del cast è costituito da Irina Lungu, anche lei  al suo debutto  sulle scene del Maggio, che  interpreta Alice Ford, una delle due comari che il panciuto protagonista proverà, con scarso successo, a sedurre contemporaneamente; Adriana Di Paola, da poco protagonista di The Rake’s Progress, andato in scena lo scorso marzo, interpreta Mrs. Quickly mentre Mrs. Meg Page, l’altra comare che Falstaff proverà a conquistare, è interpretata da Claudia HuckleMarkus Werba, da poco fra i protagonisti nel Don Giovanni, opera inaugurale dell’85°Festival del Maggio, interpreta Ford, il marito di Alice; Rosalia Cid, recentemente formatasi all’Accademia del Maggio è Nannetta, figlia di Alice e Ford e innamorata del giovane Fenton, interpretato da Matthew Swensen, anche lui di ritorno dopo le recite di The Rake’s Progress

Pistola e Bardolfo, i servi di Sir John Falstaff, sono rispettivamente interpretati da Tigran Martirossian Oronzo d’Urso, talento dell’Accademia del Maggio. 

Chiude l’ensemble vocale, come Dr.Cajus, Christian Collia, un altro dei protagonisti del The Rake’s Progress del marzo scorso. Un cast di tutto rispetto per uno spettacolo che si annuncia davvero da vedere e da degustare; e che ci ricorda, come ha giustamente rimarcato anche il maestro Gatti, che il Maggio non è solo quello che in questi ultimi giorni si legge sui giornali, che sembrano – secondo un antico malcostume dell’informazione italica – voler puntare il dito solo tutto ciò che è negativo (spesso e volentieri anche ingigantendolo); ma è anche è soprattutto un luogo dove si fa arte e cultura ad alti livelli, un patrimonio prezioso da custodire e tutelare, sanando certo ciò che va sanato, ma senza dimenticare il resto.

“Io vivo con l’immenso Sir John, col pancione, collo sfonda-letti, collo schianta-scranne, collo sfianca-mule, coll’otre di vin dolce, col burro vivente, fra le botti di Xeres e le allegrie di quella calda cucina dell’Osteria della Giarrettiera” (lettera a Giuseppe Verdi, 1889) . Arrigo Boito, proprio il sulfureo poeta e compositore scapigliato, che in quegli stessi anni stava distillando versi e note di neroniana perfidia (lavorando al suo secondo e ingiustamente dimenticato capolavoro Nerone) lascia perdere per un po’ diavoli e gnostici per concentrarsi sul canagliesco, furfantesco e simpaticissimo sir John Falstaff, il panciuto cavaliere creato da Shakespeare.  Personaggio che ha peraltro una ispirazione storica: Sir John Oldcastle, vissuto tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, amico del principe Harry, futuro re Enrico V, nelle campagne militari gallesi, tra il 1400 ed il 1403.

Dopo le prime rappresentazioni di Otello (1887) i dirigenti della Scala avevano manifestato a Verdi la speranza di rivederlo presto in teatro con una nuova opera: “Un’opera buffa”, aveva aggiunto il sindaco di Milano Gaetano Negri.

Auspicio o profezia? Sta di fatto che nel 1889 Boito, che con Otello aveva ormai trasformato l’antico sentimento di antipatia e rivalità nei confronti di Verdi in uno straordinario rapporto di amicizia e collaborazione, provò a proporgli lo schema di un Falstaff fin dal luglio del 1889. Dopo un iniziale entusiasmo, Verdi però tentennava: “Voi nel tracciare Falstaff avete pensato alla cifra enorme dei miei anni (il compositore ne aveva allora 76)? So che mi risponderete esagerando lo stato di mia salute (…) e se non reggessi alla fatica (…) E se non arrivassi a finir la musica?” La finirà benissimo e l’opera vedrà la prima, trionfale rappresentazione alla Scala nel febbraio 1893: quasi uno straordinario regalo per il suo ottantesimo compleanno.

Dubbi senz’altro legittimi, ma che fortunatamente Boito riuscì a spazzare via: “ Lo scrivere un’opera comica non credo che la affaticherebbe (…) lo scherzo e il riso della commedia esilarano la mente ed il corpo”. E Verdi entro senza dubbio nello spirito della cosa: “Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, forme ed è di cattivo umore, altre volte grida, corre salta, fa il diavolo a quattro … “

Immediata e sullo stesso tono la replica di Boito: ““lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa…vada tutto a soqquadro, ma la gran scena sarà fatta. Evviva! Dai, dai! Che Pandemonio!”

Il pancione diventa così il nome in codice della genesi di un capolavoro; e che capolavoro! Da sempre attento, sia nella creazione poetica che in quella musicale, al rapporto tra poesia e musica, a ricercare l’affinità e il legame profondo tra il verso e la nota, Boito compone dei versi che sembrano spesso contenere già in se stessi il proprio ritmo, la propria “anima” musicale. “Parla il tuo verso finché dall’accento giusto, parlato, esca il ritmo e l’intervallo musicale da sé” scrive Boito in un suo taccuino dei primi anni del Novecento, ma queste considerazioni, che egli faceva per il suo Nerone, possono valere benissimo anche per il Falstaff.  Ancor più straordinaria appare quindi al riguardo la sintonia tra i due artisti, ormai affratellati da un grande progetto comune. Il testo boitiano, costruito con un occhio di riguardo alle Gaie Comari ma senza trascurare gli altri drammi “falstaffiani” si regge tutto su un delicato equilibrio di temi e motivi, da quello comico a quello fiabesco (la scena della regina delle fate), con un idillio appena accennato (Fenton e Nannetta) e anche un tocco malinconico di medioevo al tramonto; con sir John si chiude un’epoca e il personaggio ne è ben consapevole (Va vecchio John per la tua via). Se ne accorse bene quella gran donna di teatro che fu Eleonora Duse, che, sia pure esagerando, scrisse a Boito “mi è parsa una cosa così malinconica quel Falstaff”. Il vecchio cavaliere, pur nel presentimento della sua fine, non si piega e riesce a sorridere anche di se stesso. La malinconia è forse momentanea, ma come giustamente evidenzia anche il maestro Gatti, sir John è un personaggio isolato e solo, con tocco tra il comico e il tragico e non un buffone adatto a suscitare ilarità.

Boito si muove molto abilmente tra i testi shakesperiani, perché Fastaff, se è protagonista delle Allegre comari di Windsor (che è la fonte principale, ma non unica, per Boito) compare anche nell’Enrico IV mentre nell’Enrico V è narrata la sua morte. Il poeta compie un vero e proprio lavoro di cesello e di “mosaicista”, lavorando sulla base dei testi originali. C’è tutto un nuovo equilibrio tra musica e letteratura: il testo, il famigerato “libretto” non deve avere più solo funzionalità drammaturgica, ma anche e una dignità poetica e letteraria che miri per l’appunto all’armonia, alla fusione tra parole e musica. Sperimentazioni, echi e richiami costellano una partitura davvero straordinaria: la “forma sonata” pseudo sinfonica che apre il primo atto, gli echi del gregoriano alla sua conclusione, l’uso quasi “parodico” di alcuni letimotive e naturalmente la grandiosa fuga finale Tutto nel mondo è burla, davvero un incredibile congedo dalla scena per chi aveva sempre cantato il dolore e la sofferenza

 

 

 

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    8 commenti per questo articolo

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