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Così diversi così simili

Il duello all’ultimo sangue tra Strapaese e Stracittà

Furono le due correnti egemoniche durante il fascismo nelle loro file i nomi più importanti della cultura italiana

di Ivan Buttignon

Il duello all’ultimo sangue tra Strapaese e Stracittà

Rivista Il Selvaggio

Definite sottoculture, controcultureaddirittura, “Strapaese” e “Stracittà” sono invece due Culture. E precisamente,le due Culture che detengono l’egemonia, culturale appunto, negli anni del Regime fascista. Gli scontri, durante i quali le divergenze sono esasperate e agitate come spauracchi, sono asperrimi. Estinto il brevissimo afflato futurista, che pure contribuisce ad attribuire dignità culturale al (primo) fascismo, restano da soli a combattere, stracittadini e strapaesani, un duello all’ultimo sangue. Come se fossero agli antipodi.

Ma agli antipodi, come vedremo, non sono.

A iniziare la diatriba è la rivista toscana “Il Selvaggio”, organo ufficiale del movimento intellettuale Strapaese, e che vede nell’omologo Stracittà il nemico numero uno e l’avversario più temibile.

Gli strapaesani anelano una civiltà cattolica (ma non papalina), rurale, campagnola, tradizionalista, popolaresca e antiurbana. E chiedono una cultura, ma soprattutto un’arte italianissima (anche se talvolta con qualche retrogusto localista) e fascistissima (secondo i canoni strapaesani di “Fascismo”).

Per gli strapaesani, gli avversari stracittadini sono personaggi che amano solo i grattacieli, la musica jazz, i cabaret, i negri e il cinema[1], mentre gli incriminati rispondono che nei volumi di “900” “[…]Non ci abbiamo trovato neanche un grattacielo. Neanche un giro di charleston. Niente negri. Molto più campagna che città. Ci domandiamo angosciosamente dov’è la propaganda ‘stracittadina’ contro cui si appuntano tanti strali”[2].

Come ricorda Enrico Falqui in una sua acuta riflessione[3], rispetto allo scontro sanguinario fra strapaesani e stracittadini, senza dubbio i secondi sono stati trascinati per i capelli dai primi. E una volta trascinati reagiscono.

Ecco allora che si formano le squadre e dalla parte strapaesana si schierano Maccari, Longanesi, Vecchietti, Contri, Volta, Malaparte, Soffici, Cardarelli, mentre da quella stracittadina ecco Bontempelli, Artieri, Napolitano, Spaini, Gallian, Aniante, Bizzarri, Diemoz. Ancora, le riviste che guardano a Strapaese sono “Il Selvaggio”, “L’Italiano”, “Assalto”, “La Conquista dello Stato”; quelle novecentesche “I Lupi”, “L’Interplanetario”, “2000”. I primi in difesa dell’ambiente, i secondi a difesa della fantasia. Retroguardia e avanguardia, se così possiamo definirli, rispettivamente.

In realtà, polemiche al vetriolo a parte, “Stracittà” e “Strapaese” non sono modelli puri. Né gruppi omogenei al loro interno.

Tra gli stracittadini troviamo letterati e artisti legati a tradizioni locali come il catanese Antonio Amiante, i napoletani Artieri e Cipriani, il calabrese Alvaro eccetera.

Tra gli strapaesani spiccano invece per raffinatezza Leo Longanesi, l’ex demiurgo stracittadino Curzio Malaparte e lo stesso capo indiscusso di “Strapaese” Mino Maccari, proveniente dal migliore surrealismo parigino[4].

O ancora, Adolfo Franci, strapaesano convintissimo, ritiene esagerata la veemenza con la quale i colleghi polemizzano con Stracittà, tanto che seccamente sbotta:

“Mi sembra che un tantino voi esageriate. Vi stimo troppo intelligenti per non vedere nel vostro risentimento polemico contro gli scrittori che chiameremo Novecentisti un’ombra di trucco. Oggi non si è “selvaggi” (cioè buoni collaboratori del foglio strapaesano di Maccari, intitolato appunto Il Selvaggio) …se non si appartiene almeno ai cannibali. E voi vi siete dati a fare i cannibali col gusto dell’uomo docile e dabbene che, se vuol guadagnarsi da vivere, fa il mostro nelle fiere. Tuttavia mi pare che esageriate… Rispetto, poi, a quel fanatico regionalismo che fa sentire il proprio peso in queste battaglie letterarie, vorrei dire che il regionalismo male inteso porta, totalmente, all’inaridimento della setta o alla consorteria. Spesso alla repubblica o all’accademia. I Toscani furono maestri di vita e di arte nel mondo quando, varcando i confini del proprio paese, portarono nel mondo non le ciance del villaggio ma le parole e le opere di una civiltà matura e liberale. Mentre ora c’è pericolo che si voglia fare di Strapaese un’accademia nella quale sia d’obbligo vestire e parlare in un certo modo e guai a chi traligna. Vi sono troppi segni in giro, e troppo vistosi, per non temerlo, codesto pericolo. Se dunque ha da esserci battaglia, sia una battaglia in grande stile e non una scaramuccia, una finta manovra, un duello con le spade di legno. E non di chiacchiere ma di opere. E che i generali vi dimostrino larghezza di vedute, sufficiente coscienza storica, ricchezza d’umanità e d’intelligenza. Altrimenti correte il rischio di finire alla fonda nelle acque stagnanti di un pantano. Né potrete replicare a dovere contro coloro che vi accuseranno di viltà perché avrete combattuto all’ombra del campanile, dietro le siepi del vostro orto. Bisogna che i vostri metodi e le vostre parole non puzzino lontano un miglio di consorteria, di cenacolino, di pettegole e sterile accademia. Altrimenti offrirete il destro agli avversari per dirvi che i Toscani sono un popolo di codini bruciacchiati, di gente che ama le chiacchiere e le teorie più che i fatti e le pratiche. E che, batti batti, lavora sempre pro domo sua”[5].

Stessa cosa, dall’altra parte della barricata, avviene con Enrico Rocca e Alberto Spaini, che considerano asettica la polemica fra Strapaese e Stracittà.

Secondo il novecentista Spaini, i termini generali dell’opposizione tra Selvaggi e Novecentisti non sono chiari. Lo scontro frontale, muscolare tra i due movimenti va piuttosto ricercata nella concezione letteraria per certi versi opposta[6].

Ma c’è di più. I due movimenti intellettuali sono entrambi strenui assertori della logica di “arte - azione”. Intendono cioè attribuire un ruolo demiurgico all’arte tanto da usarla come strumento per orientare l’azione politica del Regime e riportarlo alle sue origini rivoluzionarie[7].

Gli antagonisti Strapaese e Stracittà hanno persino alcune radici comuni. Per esempio la forte influenza di Dino Campana, che con il suo simbolismo visionario entusiasta sia gli uni che gli altri. Lo stracittadino Marcello Gallian dichiara più volte l’ascendente che Campana esercita nella sua produzione letteraria e soprattutto nel suo pensiero politico[8].

E a proposito delle opere di Gallian, ecco cosa ne pensa l’avversario formale Romano Bilenchi, come lui letterato di spessore ma strapaesano come pochi: “Vogliamo dire che i libri di Gallian, in particolar modo questo Soldato postumo e Comando di tappa uscito l’anno scorso, prima di essere arte sono documenti; documenti impetuosi e disordinati, forti e umani perché tale è la materia che vi si è voluta rappresentare. Ecco perché i personaggi scompaiono improvvisamente, ecco perché il racconto non ha mai una fine adeguata al gusto del lettore comune. Un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata, ma attesterà solo aspirazioni insoddisfatte o represse - a torto o a ragione non importa - amore, odio, e attesa”[9].

I motivi di dissenso sono più immaginari che reali. Stracittà mira a provincializzare la cultura italiana, valorizzando contestualmente i tratti fondanti della cultura autoctona. Strapaese insiste sulla tradizione e sui caratteri specificamente italiani (e locali) delle arti, ma non disdegna affatto le culture oltreconfine. Ne è un esempio Longanesi che su “L’Italiano” pubblica brani di Kafka, Hemingway e Lawrence ancora sconosciuti in Italia[10].

Eccoli, quindi, strapaesani e stracittadini, meno distanti di quanto sembri ed entrambi stretti attorno a una rivoluzione ancora tutta da fare...



[1]G. Ravegnani, Strapaese, Stracittà e generi affini, in “La Stampa”, 1 dicembre 1927, p. 3.

[2]S.O.S., in “I Lupi”, 20 gennaio 1928, p. 4.

[3]E. Falqui, Al tempo della gazzarra fra Strapaese e Stracittà per una cronistoria delle rivista “900”, in “La Fiera letteraria”, a. XVI, n. 29, 26 luglio 1959, p. 3.

[4]G. Artieri, Massimo Bontempelli e l'avventura novecentesca, in “L'Osservatore politico letterario”, a. XXIV, n. 11 (novembre 1978), pp. 39-52.

[5]E. Falqui, Il Futurismo. Il Novecentismo, Edizioni Radio Italia,  Torino, 1953, p. 92.

[6]P. Tavaracci, Il realismo magico di Bontempelli, in “Trimestre”, a. XIII, n. 2-3, 1980, pp. 217-237.

[7]P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, Milano, 2006, p. 98.

[8]Ibidem, p. 195.

[9]R. Bilenchi, Il soldato postumo, in “Il Popolo d’Italia”, 20 agosto 1935.

[10]A.M. Mandich, Una Rivista Italiana In Lingua Francese. Il “900” di Bontempelli (1926-1929), Editrice Libreria Goliardica, 1983, pp. 119-120.

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