Editoriale

La lenta agonia dello spettacolo dal vivo

Un altro settore lasciato a se stesso, che fatica a sopravvivere.

Italo Inglese

di Italo Inglese

spettacolo dal vivo è uno dei settori economici più trascurati in Italia, nonostante la sua funzione formativa e di promozione della cultura. In questo ambito più che in altri si evidenzia il divario tra lavoratori “protetti”, cioè assistiti dalle tutele che caratterizzano i rapporti stabili (dipendenti a tempo indeterminato di teatri e fondazioni lirico-sinfoniche) e lavoratori - artisti e tecnici - che invece conducono una vita professionale assai precaria. Tale divario è particolarmente stridente poiché i primi continuano a mantenere le prerogative più anacronistiche, tipiche del pubblico impiego, mentre i secondi sono praticamente in balìa della discrezionalità, se non dell’arbitrio, dei datori di lavoro. L’azione dei sindacati aprioristicamente a difesa dei “diritti acquisiti” dei lavoratori privilegiati non aiuta a risolvere il problema.

Si tratta di un settore che si regge in larga parte su sovvenzioni pubbliche: un mondo angusto, provinciale, molto permeabile all’ingerenza della politica e del sistema di potere instaurato dall’establishment di sinistra. Salvo alcune eccezioni, i dirigenti degli enti che operano nel settore sono privi di capacità manageriali e timorosi di assumersi responsabilità. Essi sono spesso espressi dai – o perlomeno graditi ai – sindacati, che formalmente costituiscono la loro controparte, ma con i quali in realtà condividono le decisioni in una sorta di retrivo consociativismo, dando luogo ad accordi sindacali ambigui ed elusivi, i cui costi ricadono sulle spalle di Pantalone e quindi della collettività. Per quanto in particolare riguarda la gestione del personale, il suddetto management si dimostra tanto più supponente quanto più inesperto ed è indotto dall’incompetenza ad affidarsi a consulenti che, anche con una certa arroganza, non si limitano a un’assistenza tecnico-giuridica, ma finiscono per dettare la linea politico-sindacale di istituzioni, come le fondazioni lirico-sinfoniche, le quali peraltro dovrebbero per legge avvalersi sul piano dei rapporti sindacali dell’assistenza dell’Aran (l’agenzia per la rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione). Invero, l’incompetenza talvolta non è limitata ai soli aspetti amministrativi: due anni fa al San Carlo di Napoli, al cospetto del re di Spagna e del presidente Mattarella, l’orchestra e il coro hanno eseguito per errore l’inno franchista (cioè la versione originaria dell’inno spagnolo, che, com’è noto, si suona oggi senza cantare il testo), suscitando grande imbarazzo tra le autorità presenti.

Le fondazioni – connotate da una ibrida natura che assomma in sé il peggio del pubblico e del privato - provengono da “decenni di gestione scellerata” (M. Campus, Come una sala scommesse, in “Il Sole 24 Ore”, Domenica 1° novembre 2020, p. XIII) e non pare radioso l’avvenire che si profila.

L’Agis, l’associazione più rappresentativa nel settore dal lato dei datori di lavoro, fondata nel 1945 da imprenditori illuminati come Italo Gemini, per motivi di bilancio si è ridimensionata. Ha abbandonato la storica sede romana di via di Villa Patrizi e si è trasferita in via del Gesù vicino ai palazzi della politica, dove svolge iniziative lobbistiche di piccolo cabotaggio. Inopinatamente si è affiliata alla principale associazione dei commercianti, la Confcommercio, abdicando alla funzione di negoziazione sindacale che è precipua di ogni simile organizzazione di categoria.

È diretta da un presidente dal passato glorioso, ma troppo anziano e appagato per poter perseguire una visione di ampio respiro, e da un “coordinatore” che vanta come titolo significativo del suo pregresso percorso professionale l’essere stato capo-segreteria di un assessore ai lavori pubblici del Lazio, il quale, appartenente all’Italia dei Valori di Di Pietro, ha avuto una carriera politica piuttosto burrascosa.

Entrambi, presidente e coordinatore, parlano un inglese rudimentale – il primo con accento ambrosiano – e non c’è da stupirsi che abbiano interrotto ogni contatto con la rappresentanza europea delle imprese dello spettacolo dal vivo (Pearle), pur molto attiva presso le istituzioni della UE. A ciò si riduce l’europeismo italico: reboante nella forma, evanescente nella sostanza.

Urge un cambio di paradigma che restituisca al settore il rango che gli spetta nella scena culturale della nazione. Le forze politiche estranee all’establishment vorranno finalmente giocare un ruolo in questa prospettiva?

 

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