Editoriale

La responsabilità intergenerazionale: nuova frontiera del politicamente corretto.

Quando la difesa dei diritti è un mero pretesto per chiudere la bocca agli altri.

Italo Inglese

di Italo Inglese

i ultimi anni una corrente di pensiero, connaturale alla sinistra, ha adottato un metodo particolarmente insidioso di lotta politica, in virtù del quale essa si appropria di valori indiscutibili e universali - come l’ambiente, la pace, i “diritti umani”, la tutela dei più deboli -, mettendo all’indice coloro che nella sinistra non si riconoscono o la avversano, poiché, non conformandosi alla dottrina progressista, si porrebbero automaticamente in una posizione incompatibile con quei valori.

Il presupposto su cui si basa tale meccanismo di demonizzazione dell’avversario - ovvero l’equazione: sinistra = pace, fratellanza, giustizia - è evidentemente capzioso e privo di fondamento. E ciò non solo perché la sinistra, laddove ha governato, non ha dato prova di saper realizzare quegli obiettivi, provocando, anzi, in alcuni casi grandi disastri, ma soprattutto perché gli ideali di cui trattasi non possono essere monopolio di una parte politica. Soltanto i malvagi e i folli potrebbero esprimersi contro la pace o a favore della distruzione dell’ambiente. Il punto è che, pur nell’unanime riconoscimento dell’importanza dei suddetti valori, le opinioni divergono per quanto riguarda il modo di perseguirli e la gerarchia delle priorità.

In altri termini, la presunzione della sinistra di essere depositaria della ricerca dei beni supremi implica che essa pretende di dettare le regole per il loro conseguimento. Ne deriva che, ad esempio, secondo questo orientamento, il fine dell’equità sociale dovrebbe essere perseguito attraverso misure dirigistiche e assistenzialistiche a discapito della responsabilità e del merito individuali e il fine della riduzione delle diseguaglianze attraverso l’aggravamento della già elevata pressione fiscale inevitabilmente a carico di quei ceti medi che già sono i principali contribuenti. La sinistra ancora non ha compreso che le politiche che mirano a rafforzare i deboli indebolendo i forti sono fallimentari.

Ultimamente, l’ideologia progressista si è fatta addirittura paladina del diritto alla felicità, mutuandolo dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, dove esso si inserisce e va interpretato nel contesto di una società competitiva, individualista e liberista, non assimilabile alla nostra, che generalmente mortifica il merito e l’iniziativa privata, caratterizzandosi per una perversa miscela di ingerenza dello Stato nell’economia ed elementi deteriori del liberismo. Al di fuori del contesto socio-giuridico americano, è assai dubbio il significato del concetto di felicità e della possibilità di teorizzare un diritto alla felicità, la quale è uno stato d’animo soggettivo e non si presta a una definizione valida per tutti. Solo il pensiero che tale definizione sia formulata e imposta dalla sinistra, mediante i suoi ben collaudati metodi propagandistici, fa venire la pelle d’oca. Lo Stato dovrebbe invece preoccuparsi di porre il cittadino in condizione di sviluppare la propria personalità (come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione) e di adempiere i propri doveri.

È emblematico della tendenza in questione il ricorso sempre più frequente al concetto della “responsabilità intergenerazionale”, che trae origine dal diritto internazionale, ove con tale espressione si intende il bilanciamento dello sviluppo economico con la salvaguardia delle esigenze delle generazioni non solo presenti ma anche future. Curiosamente, questa premura nei confronti dei posteri e per l’armonia intergenerazionale è coltivata e propalata come un mantra dagli epigoni dei giovani sovversivi che nel ’68 e anni seguenti vollero segnare una netta cesura tra la loro e le generazioni precedenti.  Costoro, peraltro - detto incidentalmente -, non sono affatto favorevoli alla riduzione delle imposte sulle successioni - misura che premierebbe il senso di responsabilità dei genitori verso i figli -, ma, al contrario, vorrebbero inasprirle.

Si tratta, anche in questo caso, di un pretesto, ben dissimulato sotto la coltre delle buone intenzioni, per mezzo del quale il “pensiero unico” mira a regolamentare e standardizzare la nostra personale esistenza, gettando onta su chi non si adegua ai suoi dettami, malgrado spesso si rivelino risibili. Scivolando su questa china, fino a che punto le ingerenze del nuovo moralismo si spingeranno nel condizionare scelte e comportamenti individuali?

Certo, la conservazione dell’ecosistema o il contenimento del debito pubblico sono obiettivi irrinunciabili, ma è paradossale e ipocrita che tali obiettivi siano magnificati da leader che hanno fatto tutta la loro carriera nel sistema assai difettoso che hanno contribuito a consolidare e ora, come se fossero esenti da responsabilità, biasimano i comportamenti della gente comune che a quel sistema si era uniformata. L’educazione, che un tempo veniva appresa in famiglia e a scuola, non può essere rimpiazzata dalla retorica di un nuovo Stato etico, privo di credibilità.

 


 

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