Editoriale

Crisi della democrazia e modello Cina; il gigante asiatico seduce ancora l'Occidente?

Meriterebbe un’analisi psicologica il diffuso sentimento masochistico di indulgenza ed empatia verso un regime imperialista e tuttora maoista

Italo Inglese

di Italo Inglese

' nota la frase di Churchill secondo cui la democrazia è la peggiore delle forme di governo, fatta eccezione per tutte le altre; il che equivale a dire: la democrazia è assai difettosa, ma gli altri sistemi politici lo sono ancora di più.

L’affermazione dello statista inglese è oggi messa in discussione in Occidente non dalle Destre parlamentari, che non sembrano nutrire alcun dubbio sul primato della sovranità popolare e anzi ne chiedono una più compiuta realizzazione, ma dai progressisti, sempre più insofferenti agli esiti della democrazia elettorale poiché spesso non conformi alle loro aspettative.

Oggi la Cina è di gran moda. Meriterebbe un’analisi psicologica il diffuso sentimento masochistico di indulgenza ed empatia verso un regime imperialista e tuttora maoista e totalitario come quello cinese, che insidia il nostro benessere materiale e persino quello fisico, visto che il covid 19, come tanti altri virus precedenti, è giunto a noi partendo da lì. Tale atteggiamento sembra fondarsi sulla presunzione che una nuova era di magnifiche sorti e progressive stia iniziando, in cui la Cina rivestirà il ruolo di superpotenza egemone. Almeno per i chierici sempre pronti al tradimento, potrebbe trattarsi non di masochismo ma di opportunismo, cioè del tentativo di salire sul carro del vincitore, analogamente a quanto avvenne negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso quando esponenti dell’alta borghesia e del capitalismo non ebbero remore a esprimere le proprie simpatie per l’Unione sovietica e l’ideologia collettivistica allora rampante. Ma questa è una visione miope, che si basa sulla momentanea contingenza e potrebbe essere smentita da sviluppi oggi imprevedibili. Chi la professa compie lo stesso errore di quei manager che non sanno guardare al di là di un bilancio di previsione semestrale.

Un esempio di questa tendenza è il libro Il modello Cina (Luiss University Press, 2019) del sociologo canadese Daniel A. Bell, il quale, esaltando il sistema cinese incentrato sulla selezione meritocratica del personale politico e dei funzionari pubblici, pone in dubbio che il suffragio universale sia il modo meno peggiore di scegliere leader che mettano in atto buone politiche. È singolare che tale apologia del principio meritocratico – invero piuttosto negletto nel nostro Paese – provenga da un intellettuale di sinistra, cioè di una parte politica tradizionalmente poco sensibile alla gratificazione del merito individuale. Evidentemente l’ammirazione per la Cina, regime comunista a partito unico, ha indotto l’autore a derogare eccezionalmente alla linea di pensiero egualitarista.

In cosa consiste il “modello Cina”? Esso è imperniato sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle qualità personali – intellettuali, sociali e morali – nei procedimenti di scelta dei leader; meccanismi non elettorali che, per i livelli più alti di governo, prevedono il superamento di esami talmente selettivi che, “nel sistema cinese, una persona con l’esperienza pre-presidenziale di Barak Obama non sarebbe neanche il manager di una piccola contea” (D. A. Bell, op. cit., p. 221).

In realtà, il sistema degli esami per il reclutamento dei funzionari non è un’invenzione dell’attuale regime ma ha antichissime origini. Trovò applicazione nell’impero cinese per oltre duemila anni e fu particolarmente affinato durante l’epoca della dinastia Song (960-1279). Esso, ispirato alla concezione elitaria della classe politica propria del confucianesimo, appare in sintonia con l’idea di Platone secondo cui il governo dovrebbe essere demandato a una minoranza di esperti e sapienti.

È opinabile la tesi di Bell secondo la quale l’attuale successo economico cinese sarebbe dovuto all’efficienza del sistema meritocratico. È incontestabile che negli ultimi trent’anni l’oligarchia politica dominante, dopo i precedenti disastri – il “Grande balzo in avanti” di Mao provocò una carestia che fece decine di milioni di vittime – abbia ottenuto risultati eccezionali in termini di crescita economica e conseguente riduzione della povertà. Senonché, più verosimilmente, tale successo è stato determinato dal peculiare sistema di capitalismo statale – un sistema di libero mercato sotto l’ombrello di uno Stato autoritario a un solo partito – che, come rileva lo stesso Bell, costituisce “una combinazione di libertà economica e oppressione politica” (ivi, p. 213). Ma, soprattutto, l’ascesa di Pechino è stata generata dalla globalizzazione e dall’accordo tra Cina e paesi capitalisti, che ha consentito, da un lato, al gigante asiatico di vendere le proprie merci a prezzi ipercompetitivi nei mercati occidentali e, dall’altro, agli industriali americani e degli altri paesi dell’Occidente di delocalizzare la produzione in Cina, traendo profitto dalla disponibilità di lavoro a basso costo. Da ciò discende, secondo alcuni commentatori, la “natura parassitaria” dell’espansione economica cinese (v. A che serve la democrazia?, “Limes” 2/2012, p. 18), che deve quindi ascriversi alle condizioni di vantaggio concorrenziale concesse alla Cina e non al sistema meritocratico da essa adottato né all’ideale di armonia e al paternalismo di ispirazione confuciana. I famosi Detti di Confucio, alquanto sopravvalutati in Occidente, non sono altro che una collezione di massime di buon senso.

Alla crescita economica cinese non ha finora corrisposto uno sviluppo altrettanto marcato in senso democratico. Mentre permangono alcune ataviche anomalie (corruzione diffusa, immenso divario tra ricchi e poveri, clientelismo nella selezione del management delle imprese pubbliche, forti limitazioni delle libertà individuali, manipolazione dell’informazione e repressione del dissenso), appare scarsa la legittimazione democratica della tecnocrazia al potere e incerta la funzionalità dell’imperfetto sistema meritocratico: la ricerca del bene comune, disgiunta dalla dialettica democratica, può essere riservata a un’élite di sapienti? Il politico non dovrebbe essere un decisore piuttosto che un sapiente? Chi determina, e in base a quali criteri, i meccanismi di selezione della classe politica? È giusto escludere dalle decisioni sul bene comune la pubblica opinione, o limitare il suffragio universale, sulla base dell’assunto secondo cui gli elettori sarebbero irrazionali e moralmente incapaci di esprimersi su tali questioni? In nome di cosa decretare – chiede Alain de Benoist – che una maggioranza giudica “bene” in alcuni casi e “male” in altri? (Democrazia, il problema, Pagine 2016, p. 101).

La democrazia elettorale non è certo esente da difetti e, in questo senso, il libro di Bell evidenzia alcuni aspetti critici, peraltro ben noti: la dittatura del numero e della mediocrità (la “tirannide della maggioranza”), l’instabilità connessa al sistema dei partiti, l’eccessiva influenza dei gruppi di interesse sul processo politico, i frequenti conflitti sociali. In particolare, Alain de Benoist ha stigmatizzato la dimensione totalitaria della democrazia liberale, quale “forma di oligarchia politico-mediatica e finanziaria” (ivi, p. 37).

Tuttavia, non si vede come la miscela di politica autoritaria e prosperità capitalistica, tipica del modello cinese, possa essere trapiantata nei sistemi occidentali, i quali dovrebbero invece tornare a fondarsi sul senso di appartenenza a una nazione unita da valori comuni, da una storia e da un destino.

 

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