Editoriale

QUELLO CHE NON SANNO, QUELLO CHE NON DICONO

Considerazioni a latere su pandemia e dintorni

Franco Cardini

di Franco Cardini

o male, questa storia finirà: qualcuno sostiene che si vede già la luce del tunnel, o forse spera che sia così perché non ne può più. “Andrà tutto bene”, sentiamo dire e vediamo scritto dappertutto. Certo: andrà tutto bene per chi ne uscirà, senza dubbio tanti. E poi, in fondo, “pandemia” si dice: ma le avete mai considerate un istante sul serio, le cifre dei morti nelle passate pandemie, anche solo quelle della “spagnola” di un secolo fa? Quelle si portavano via una fetta immensa della popolazione del mondo: se si facessero le proporzioni con freddo spirito computistico, dovremmo dire che oggi una pandemia come quella che interessò il macrocontinente eurafrasiaticomediterraneo fra 1346 e 1352 dovrebbe portarsi via, in proporzione, dai tre ai quattro miliardi di persone. Siamo lontanucci.


Però ci sono anche altre cose da dire. Le prospettive del futuro, ad esempio. “Andrà tutto bene”: per ora, per questa volta. Sfangheremo anche il “contagio di ritorno”: sia pure, ammettiamolo, è molto probabile. Ma quale vera speranza abbiamo?
Ecco. Il punto è tutto qui. Ai tempi di messer Giovanni Boccaccio, o a quelli di Renzo e di Lucia, si moriva come mosche e si crepava malissimo, in luridi lazzaretti oppure stesi per terra. Oddio, pare che a tanti sia andata o stia andando anche oggi proprio così, come a quei disgraziati sull’asfalto di un parking all’aperto, nella libera e civile America guidata da illuminati politici che per anni si sono fatti beffe di quell’anticaglia dello stato sociale. È comunque vero che a molti, almeno nel “nostro Occidente”, è andata e sta andando meglio. Ma quel che al tempo del Boccaccio e di Renzo e Lucia la gente aveva e che oggi non c’è più – almeno come valore: anche, sissignori, come laicissimo valore civico – è la speranza. Quella che viene di pari passo con la fede che difatti, come diceva Dante, è “sustanza di cose sperate”. Non è detto che il Coronavirus sia il babau; forse, magari, è solo una vecchia e gentile amica che ci sfiora e ci sussurra in un orecchio: guarda che la tua non è paura, la tua è disperazione. Sai che a un certo punto tutto finisce, e puoi essere stato chiunque e aver avuto qualunque cosa ma da lì non si scappa, e la società nella quale hai vissuto negli ultimi decenni ti ha frodato appunto perché ti ha tolto il mantello della fede e il cappotto della speranza e ti ha lasciato addosso soltanto lo straccio della disperazione.
Ma se la disperazione è una disgrazia, allora vale il proverbio che le disgrazie non arrivano mai sole. Lei si è portata dietro un’amica fedele, la solitudine. E abbiamo scoperto di essere soli perché abbiamo voluto esserlo, perché abbiamo fatto di tutto per diventarlo sempre di più. Non soli della solitudine della sfortuna, della malattia, dell’infelicità: quelle sono forme di povertà involontaria. Soli di una povertà volontaria che non è quella dei santi e degli asceti, che diventa bellissima: ma di quella squallida caricatura di essa che è la povertà della superbia, del disprezzo, dell’egoismo, dell’indifferenza. Quell’indifferenza che papa Bergoglio non si stanca mai di denunziare: ed è per quello che sono in tanti ad avercela con lui.
Eppure, almeno in questo, forse scopriremo che il Coronavirus ci sarà servito: quanto meno ad alcuni di noi. Può darsi che usciremo da questo tunnel un po’ meno incuranti degli altri, un po’ più coscienti che la vita non è fatta solo di diritti ma che a ogni diritto corrisponde un dovere. E allora impareremo meglio a guardarci attorno.
Quel giorno, finalmente, c’indigneremo con quegli irresponsabili che sui giornali, sui blog e alla TV ci vanno ripetendo che per esempio in Africa il Coronavirus ha fatto “mille morti”: In che spazio di tempo? In quale area? Rilevati in che modo, con quale attendibilità?
Facciamo una prova. Io ve la propongo così, perché non saprei a chi chiedere sperando in una rapida ed esauriente risposta: ma può darsi che qualcuno sappia come formulare la domanda efficacemente e correttamente, in modo che risulti inevitabile e obbligatorio il rispondere. È un puro esempio. In Africa agiscono parecchie corporations multinazionali: migliaia di persone tra Europa, Canada, Australia, Giappone, paesi arabi eccetera le debbono proventi valutabili in miliardi di dollari; e adesso ci sono anche i cinesi. Per quale somma si sono impegnati i loro dirigenti per soccorrere le vittime di Coronavirus nel continente africano, per pochissime che siano a sentir certi commentatori? Quante installazioni di ricerca e di assistenza hanno finanziato e sostenuto? L’Organizzazione delle Nazioni Unite è senza dubbio in possesso di dati al riguardo: vuole mettercene a parte? È una questione di trasparenza, di correttezza nell’informazione.

Il punto invece purtroppo è che su quel che è accaduto e sta accadendo in gran parte dell’Asia e quasi del tutto in Africa e in America latina non sappiamo quasi nulla, e forse chi sa qualcosa per un motivo o per l’altro tace. Quando comincerà a parlare, allora ci accorgeremo forse che nella pandemia ci siamo davvero, eccome.


Da "Minima cardiniana"; per gentile concessione dell'autore.

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