Un episodio ignobile

Lettera aperta a Gene Gnocchi, a proposito di Claretta Petacci

Non so, signor Ghiozzi, se questa lettera capiterà mai tra le sue mani. Lo spero, ma ci credo poco. Se così fosse, la legga e ci rifletta

di Graziano Davoli

Lettera aperta a Gene Gnocchi, a proposito di Claretta Petacci

Gentile signor Eugenio Ghiozzi,

mi perdoni se non la chiamo con il suo nome d'arte ma la faccenda è seria e con la dovuta serietà ritengo che vada trattata. Io non seguo "diMartedì" e forse non faccio poi così male, ciò non mi ha impedito di venire a conoscenza della battuta di cattivo gusto fatta durante la sua copertina.

Credo che lei possa facilmente dedurre che mi riferisco alla foto, postata da Giorgia Meloni, del maiale che si aggira tra i cassonetti di una Roma ridotta ad una banlieu dall'amministrazione a cinque stelle. Un suino appartenente al clan Casamonica. Un suino al quale, dopo averne dedotto il genere femminile, ha deciso di dare il nome di Claretta Petacci.

Non mi stupiscono le femministe alla amatriciana che popolano questo disgraziato paese e il loro silenzio. Esse, d’altronde, sono abituate a tormentare i nostri timpani solo quando vi è da gettare fango su qualche produttore o regista al quale, dopo essersi concessa con grande gioia, una qualche attricetta, che al privilegio di essere figlia d’arte deve tutta la sua fama, in preda ai rimorsi di coscienza decide di imputare dieci, cento, mille stupri e sevizie. Allora le si vedono starnazzare per le cerimonie hollywoodiane vestite a lutto e pubblicare sui social network messaggi di solidarietà così simili tra loro e così banali da sembrar fatti con lo stampino. Ma tacciono subito quando in Iran, durante una rivolta, una donna decide di togliersi quel pezzo di stoffa che ne imprigiona il corpo sfidando le leggi liberticide di una scellerata teocrazia, venendo per questo arrestata. E tacciono quando viene offesa la memoria di una donna salita sul patibolo per scelta e senza meritarlo.

L’antifascismo all’italiana, che di per sé è carnevalesco e assurdo, non c’entra nulla. Qui c’entrano il decoro ed il buongusto e quell’etica cavalleresca, oramai roba da hidalgos lo riconosco, che ci impone di portare rispetto e devozione davanti al nostro avversario e a maggior ragione, davanti al suo cadavere. Ora lei non aveva neanche più la remora di un cadavere davanti al quale mostrarsi devoto e rispettoso, dal momento che il corpo di Claretta Petacci riposa da quasi settantadue anni, dopo oltraggi e peripezie, al Cimitero Comunale Monumentale Campo Verano di Roma. Nonostante tutto questo, le è comunque riuscito venir meno a questi doveri morali di rispetto, devozione e pietà umana che distinguono un Galantuomo da un villano, categoria che impesta da orami troppo tempo questo paese e alla quale lei appartiene di diritto.

La sua bocca che, come quella di molti italiani in questi ultimi tempi, pare esercitata nell’inutile e noiosa disciplina di fare polemica con i morti e di serbare rancore a costoro rancore e bile, ha riportato ancora una volta in televisione quella mentalità da “macelleria messicana”, evocata da un uomo di nobili sentimenti come Ferruccio Parri. Uno dei padri di questa repubblichetta fondata sulla vigliaccheria e la codardia, dove si sputa sul cadavere quando oramai esso è sepolto da almeno una trentina d’anni, si fa qualche linguaccia quando esso viene appena calato nel sepolcro e prima, anche se ha appena varcato la soglia dell’obitorio, ci si morde la lingua.

Ferruccio Parri che ebbe a definire macelleria messicana, per l’appunto, l’immondo spettacolo che venne offerto a Piazzale Loreto dei corpi di Benito Mussolini, Achille Starace e appunto Claretta Petacci, appesi a testa in giù sulla pensilina di un distributore della benzina e oltraggiati dalla folla, in uno dei tipici episodi di giustizia di piazza tipicamente italiani. Qui il corpo della Petacci veniva denudato e le sue vergogne esposte a pubblico ludibrio, sul suo corpo nudo, malamente coperto dalla gonna fissata con una spilla da balia: la folla aveva sputato e orinato, fino a che l’intervento dei pompieri non l’aveva dispersa.

Claretta Petacci che con il ventennio fascista, l’esperienza repubblichina e tutto quello che questi momenti della storia italiana hanno comportato, non aveva nulla a che fare. La sua unica colpa era stata quella di amare di un amore profondo e viscerale Benito Mussolini e forse, di averne compreso la personalità enigmatica e contradditoria. E in nome di questo amore, l’aver scelto di morire accanto all’uomo da lei amato, pur potendo scegliere di salvarsi.

Non so, signor Ghiozzi, se questa lettera capiterà mai tra le sue mani. Lo spero, ma ci credo poco. Se così fosse, la legga e ci rifletta. Perché per far satira sui vizi altrui bisogna prima essere certi che i nostri siano delle pagliuzze e non delle travi al cospetto di questi. Fare satira su l’affermazione estemporanea e a sfondo razziale del candidato alla presidenza della Lombardia Attilio Fontana diviene inutile, insensato ed ipocrita se poi le riesce impossibile adempiere a quell’obbligo di creanza che è dovuto ai defunti.

Con rispetto, perché credo di non doverle niente altro

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