Editoriale

L'Italia e i mondiali. Cause remote e motivi attuali che chiedono una rifondazione radicale (non solo nel calcio)

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

ogni evento di questi anni frenetici, anche l’esclusione della nazionale italiana di calcio dai mondiali, dopo fiumi di commenti, invettive, proteste e suggerimenti che hanno inondato i media, finirà presto nel dimenticatoio. E come sempre accade, in questi fiumi c’è molto di vero e perfino qualcosa di serio, e molto di fasullo. Di più, c’è la rappresentazione di tanta parte del costume italiano: per esempio, l’attaccamento alle poltrone, perfino dopo una sconfitta importante; per esempio, la tendenza a soffermarsi sull’episodio e a non andare oltre le cause “vicine” del suo determinarsi, ignorando quelle più “lontane”; il vezzo di sentirsi comunità soltanto in occasione di eventi sportivi, per poi rimettere le bandiere nel cassetto appena spentasi l’eco di quegli eventi, e così via.

Quando parliamo di cause remote, ci riferiamo alla scuola, sia a quella che somministra istruzione di carattere generale, sia a quelle che impartiscono le specifiche lezioni, nel caso, di calcio. Ormai, la scuola si sente più vocata a preparare lo studente per il mondo del lavoro che a formarlo come cittadino: non a caso, la “buona scuola” prevede l’alternanza “scuola-lavoro” (ancora tutta da decifrare e sperimentare) e non impone più l’educazione civica e, con essa, non s’insegna il senso dell’appartenenza e quel subordinare il proprio interesse a quello della comunità, da quella familiare a quella nazionale.

Quanto a quelle calcistiche, fanno proprio il verbo di moda, che – nei casi migliori! - privilegia la velocità, la furbizia, la tenuta atletica, qualche abbozzo di tattica, a discapito dei “fondamentali” e, comunque, della tecnica (non a caso, oggi sono mosche bianche i calciatori in grado di saltare l’uomo, con un dribbling essenziale, o di fare un cross basso dalla linea di fondo).

Vi è poi, nel disastro della nostra nazionale di calcio, la questione degli stranieri. Troppi, si dice da più parti, e si sbandiera uno dei motti “forti” della Lega: prima gli italiani! La questione si ricollega a quella delle scuole e – come si dice in un brutto gergo, che richiama situazioni zoologiche – dunque dei “vivai”, ma anche al punto dolente dell’immigrazione. E’ nota l’abitudine di troppe società calcistiche di spedire osservatori soprattutto in Africa, per comprare, a pochi soldi, ragazzini che a malapena hanno calcato qualche polveroso campetto improvvisato, magari con porte senza reti, per poi rivenderli con allettanti profitti. Questa vera e propria tratta, che ricalca, sia pure con risvolti meno tragici, quella attuata fra campi di concentramento e barconi, riversa sul mercato italiano giocatorini sui quali lucrare importanti sopravvenienze attive e abbandona, non si sa a quale sorte, la maggioranza di quelli bocciati. In questa nostra Italia, si lamenta sempre l’assenza di adeguati controlli, dalle Banche all’accoglienza dei migranti, ma poi si fa poco per rimediare.

Indubbiamente, il problema delle appartenenze esiste e in parte esisteva anche in epoche in cui l’emigrazione era soprattutto nostra, se è vero che, come si è fatto ancor oggi nei casi di Eder, El Sharawi e Jorginho, si doveva ricorrere a oriundi – veri o presunti – per rinsanguare rappresentative nazionali di tecnica e classe inadeguate (per inciso, proprio quelle nazionali zeppe di oriundi, da Montuori a Ghiggia, da Sivori a Schiaffino, conseguirono risultati deludenti). Ma non si tratta solo di patriottismo farlocco. La verità è che nel calcio, con la sentenza Bosman, si è aperta la porta – o dovremmo dire: la falla? – sul nuovo mondo, fatto di capitali ingenti, di mediazioni rapaci, di calciatori – e allenatori - voraci, indipendentemente da meriti e qualità, di trucchi di bilanci, di rischi di fallimento, di strapotere delle televisioni e del mondo della pubblicità, e chi più ne ha più ne metta. Dopo di allora, il calcio ha smesso di essere il passatempo della domenica pomeriggio, ed è diventato uno dei più importanti business mondiali (ecco perché si usano termini che sono apparsi a molti fuori tono ed esagerati, come catastrofe, apocalisse, disastro).

Così come si è sancita la libera circolazione della manodopera, tanto da non poter impedire l’impiego di “prestatori d’opera” comunitari, ad esempio, si è aperta la porta, in linea con il parallelo processo di mondializzazione, a ingenti capitali stranieri, non di rado di oscura provenienza. Fondi americani, petrolieri russi, emiri arabi, multinazionali cinesi hanno sconvolto tutti gli equilibri di quel settore, inflazionando risorse e bilanci, condizionando calendari e normative, inquinando i codici di comportamento, ormai finalizzati unicamente al successo. Della sana competizione di campanile, sono rimaste pie illusioni di tifosi ingenui e coreografie di cartapesta e, per restare al calcio delle città, sono scomparsi i campioni-bandiera, per lasciare il posto ai professionisti (qualcuno dice: ai mercenari).

La nostra disfatta calcistica è figlia di tutto questo, e difficilmente limitandosi a rimuovere un allenatore, e perfino la dirigenza del settore (dove peraltro, in palese conflitto d’interessi, vengono cumulate le cariche di Presidente della Federazione e di Commissario della Lega…), si riuscirà a risalire la china. Intanto, ci lasciamo alle spalle due immagini simboliche: quella di De Rossi che commette un sacrosanto atto d’insubordinazione, rifiutando di scendere in campo e indicando il compagno di squadra Insigne come più idoneo a tentare la strada della vittoria, e quella del capitano Buffon, in lacrime per l’esclusione della nazionale dalle finali mondiali. E non diteci che si tratta dell’immagine di un paese capace solo di piagnistei: una volta, anche i re piangevano.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da ghorio il 16/11/2017 16:11:29

    D'accordo su quanto scritto da del Ninno, ma uno dei difetti italici è stato ed è quello di guardare al mondo del calcio come qualcosa di patriottico. In realtà, la Patri , l'orgoglio di essere italiani è ben altra cosa. Nel mondo del calcio girano troppi soldi con giocatori viziati e dirigenti che ignorano le regole b dello sport, come competizione. pensano solo agli affari. Poi ci sono di mezzo le tv, in primis quelle a pagamento che ci fanno sorbire il calcio in ogni ora. Nella vicenda delle partite con la Svezia l'analisi da fare è quella di prendere atto che il nostro calcio non è stato capace di battere una squadra modesta, anche se siamo la nazione con tre giornali sportivi, una volta erano quattro, e le pagine sportive furoreggiano nei giornali di opinione, perfino di informarci sulle fidanzata dei calciatori, sulle mogli e i figli. Quanto lo sport era sana competizione, delle fidanzate , delle mogli e dei figli non veniva riferito niente. Sui grandi giornali si sono letti 2pianti e desolazione perché, dopo 60 anni l'Italia non partecipa ad un mondiale. Verrebbe da dire e scrivere a "chi se ne frega". Perfino si piange sulle diminuzione delle scommesse. Davvero in questa vicenda abbiamo toccato il fondo.

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