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L'altra metà del genio

Costanza Piccolomini l'amante bellissima di Bernini (Gian Lorenzo e Luigi)

Appartenente alla nobile famiglia senese era andata in sposa ad uno scultore di media bravura, Bonarelli, la sua vita romanzesca

di Francesca Allegri

Costanza Piccolomini l'amante bellissima di Bernini (Gian Lorenzo e Luigi)

Costanza Bonarelli Piccolomini ritratta da Gian Lorenzo Bernini

Bella, anzi più che bella: sensuale con i capelli leggermente scomposti, il primo bottone della camicia slacciato; questa è l’immagine che di lei ha lasciato il suo amante: Gian Lorenzo Bernini. Molti sono i busti femminili da lui scolpiti, in genere si tratta di dame di alto lignaggio maestose e brutte, immortali solo per lo scalpello sublime che le ritrasse, sempre su committenza. Bernini si faceva pagare bene, giustamente.

Il ritratto di Costanza, invece, non fu né commissionato né tanto meno pagato: era il volto della donna amata che lo scultore voleva sempre con sé e infatti la ritrae in un momento di intimità; niente abiti sfarzosi, niente posa, opera singolare e per l’epoca scandalosa. Nel 1638 Costanza ha 22 anni e da quattro è sposata, mentre lo scultore ne ha trentotto.

La storia fra i due fu tormentata: drammatica per chi la visse, ridicola per chi non ne fu coinvolto, come quasi tutte le storie di gelosia e tradimento. Testimone la madre di Gian Lorenzo, Angelica Galante, che ce ne informa in una lettera piena di patos.

Costanza era la moglie di Matteo Bonarelli o Bonacelli, scultore lucchese trapiantato a Roma e collaboratore di Bernini alla fabbrica di San Pietro. Così si conoscono i due e nasce un grande amore, almeno da parte dello scultore; di Costanza, invece, non sappiamo. Sappiamo, però, che la liaison va avanti per qualche tempo, poi l’uomo si insospettisce e si apposta vicino alla casa di Vicolo Scanderbeg dove abita Costanza ed ecco che una mattina ne esce un altro uomo che non è il marito; si tratta di Luigi, fratello dello stesso Bernini e di lui collaboratore.

Scoppia lo scandalo, secondo la lettera della madre, Gian Lorenzo si arma di una spada, rincorre il malcapitato Luigi fino alla chiesa di S. Maria Maggiore, qui gli rompe alcune costole a suon di mazzate e la storia sarebbe potuta finire in un fratricidio se non fossero intervenute alcune persone a sottrarglielo di sotto. Ma la vicenda non si conclude qui, Gian Lorenzo, non pago di aver quasi ucciso il fratello, assolda uno dei suoi servi: deve fingere di portare in dono a Costanza del vino e, una volta introdottosi in casa, sfregiarla, deturpandole per sempre la faccia, quella faccia bellissima che ancora ammiriamo. Lo sfregio era un trattamento spesso riservato alle prostitute, un’onta terribile perché rimaneva indelebile e tremendamente visibile per sempre.

La madre dei due scultori scrive allora quella lettera, di cui accennavamo, a Francesco Barberini, cardinale nipote di papa Urbano VIII allora regnante, pregandolo di allontanare Gian Lorenzo; la missiva, piuttosto stereotipata, sembra dettata ad uno scrivano di mestiere perché probabilmente Angelica non sapeva, come molte donne dell’epoca, scrivere, ma è ugualmente commovente nel presentare una madre così afflitta per lo scontro fra due dei suoi figli. Immaginiamo, al contrario, che tutta Roma abbia riso di questa storia piccante che coinvolgeva uno degli uomini più famosi della città.

Le cose poi si accomodarono così: il servo fu esiliato, Bernini fu multato per 3000 scudi che mai pagò, infine ebbe l’assoluzione papale e Luigi dovette riparare a Bologna dove rimase per qualche tempo, richiamato poi a Roma dal Papa rispose che sarebbe tornato solo se il fratello fosse stato d’accordo; si vede che le mazzate lo avevano reso cauto.

E Costanza? Costanza venne rinchiusa nel Monastero di Casa Pia dove venivano condotte le donne di cattivo comportamento, da qui dopo qualche mese scriverà una lettera sconfortata al Governatore di Roma Giovanbattista Spada chiedendo di essere rimandata a casa dal marito: non ha più denaro, è malata e vive della carità delle altre detenute. E dal marito tornerà dopo poco. La sua lettera comunque, forse grammaticalmente meno corretta di quella della madre del Bernini, è tuttavia completamente farina del suo sacco perché Costanza sa scrivere e, al di là della sua avvenenza, è una donna singolare.

Importante il suo cognome di nascita: Piccolomini, il sigillo apposto anni più tardi dal notaio sul suo testamento porta lo stemma di questa nobile famiglia senese e, ancora dallo stemma nel quale si nota un’aquila accanto ad altri simboli, si deduce come Costanza apparteneva proprio al ramo del più noto esponente della famiglia: Enea Silvio che nel 1458 era stato uno dei papi più significativi del Rinascimento; uomo di lettere e amante delle arti a lui si deve, fra l’altro, la riorganizzazione urbanistica di Corsignano, che proprio da lui prenderà il suo nuovo nome, divenendo Pienza. Il ramo di Costanza doveva essere molto impoverito e decaduto, nei documenti il padre viene definito staffiere e della madre non sappiamo nulla, sebbene conosciamo il nome della sua matrigna e dei suoi fratellastri. Da Viterbo si erano trasferiti a Roma in un quartiere popolare e non dovevano certo essere abbienti se a Costanza viene concessa una dote di 45 scudi dalla Compagnia di san Rocco ; quello di dotare le ragazze nubili da parte di compagnie religiose era un atto assai frequente, in questo modo le si avviava ad un onesto matrimonio, evitando, il più delle volte, che si dessero, per mancanza di denaro, alla prostituzione.

E Costanza, come abbiamo accennato, contrasse matrimonio con Matteo, di qualche anno più anziano di lei. Matteo, una figura che rimane nell’ombra e che è arduo definire. Non è facile capire un uomo che riaccoglie in casa la moglie e vive con lei come se niente fosse accaduto dopo uno scandalo simile che aveva coinvolto non uno, ma addirittura due uomini e per di più fratelli e per di più suoi colleghi e amici. Ma questo è quanto, Matteo convivrà con Costanza fino alla morte e apparentemente di buon accordo; non avranno eredi, ma terranno per molto tempo in casa loro, quasi come un figlio adottivo, Marcantonio figlio di una sorella di Costanza; una famiglia normale apparentemente.

Se non riusciamo, però, a definire che tipo di personalità fosse quella del Bonarelli, sappiamo invece assai bene quali fossero le sue attività; scultore non spregevole aveva lavorato per alcune delle famiglie più in vista di Roma: i Barberini, gli Orsini, i Massimi, i Pamphili; era in ottimi rapporti con artisti come Diego Velasquez e, attraverso di lui, con il re di Spagna Filippo IV che gli aveva commissionato alcuni lavori fra cui dei leoni come supporto per un tavolo adesso al Prado. Al Prado anche altre due opere di Matteo: un ermafrodito dormiente e una Venere con conchiglia. Ma Bonarelli aveva soprattutto un intuito assai fine per l’arte contemporanea e via via nel tempo cominciò a comprare opere che acquistarono sempre più valore, ricordiamo, ad esempio, un dei lavori più famosi di Poussin: La peste di Ashdot opera che adesso si trova a Louvre. Bonarelli non aveva voluto venderla al cardinal Mazzarino, ma più tardi Costanza la venderà al Richelieu. Piano piano i documenti di archivio mostrano un Bonarelli sempre più abbiente, quando si sposa non doveva essere ricco, ma poi col tempo diventa un punto di riferimento per gli stranieri che giungono a Roma anche a caccia di opere d’arte da acquistare.

Matteo è bravo, compra la casa di Vicolo Scanderbeg, dove già abitava con la moglie in affitto, e la trasforma in una vera propria galleria d’arte. Muore nel 1654 e lascia alla diletta moglie tutto quello che possiede. Costanza adesso è una vedova benestante; sola, padrona di se stessa continua con profitto il commercio del marito, in molti documenti viene definita Costanza scultora, non certo perché scolpisse di persona le opere che vendeva, ma perché continuava a vivere circondata dai capolavori che commerciava.

Con il passare del tempo vediamo, però, che gli acquisti di Costanza cambiano, in un’epoca in cui era uso comune per le persone della classe media non possedere più di due o tre abiti, Costanza compra continuamente oggetti di abbigliamento: stoffe, vestiti, collari e poi ancora gioielli, collane, pendenti e mobili. In una donna così avveduta non si tratta di amore per il lusso, o non soltanto di amore per il lusso, probabilmente la Piccolomini, così ama farsi chiamare dopo la morte del marito, si rende conto che il mercato dell’arte è assai fluttuante: i prezzi variano e le opere quindi non sono sempre un investimento sicuro, Costanza fa allora, forse solo per istinto, quello che fa, anche ai giorni nostri, qualunque buon investitore: diversifica, diminuendo così i rischi. Non vuol azzardare di perdere la piccola, ma importante fortuna che ha messo insieme con il marito perché adeso ha una responsabilità in più, circa un anno dopo la morte di Matteo le nasce una figlia: Olimpia Caterina che non può, per ovvi motivi temporali, essere figlia legittima.

Chi sia il padre rimane oscuro, anche se alcuni indizi possono suggerirlo con una certa precisione. Nel suo testamento Costanza nomina due religiosi di alto grado, Cesare Rasponi e Domenico Salvetti, come esecutori testamentari e come tutori di Olimpia Caterina, in realtà dei due solamente il Salvetti si curerà della ragazzina dopo la morte della madre; sarà lui che, dopo un primo periodo di assestamento che la bambina, ormai orfana, trascorre in casa propria con una servente e una zia, la collocherà in uno dei collegi più esclusivi di Roma, un collegio dove si formavano le fanciulle della buona società. Qui Olimpia Caterina avrà, per l’epoca, un’ottima educazione e ogni possibile agio: le verrà donato un pappagallo come animale di affezione e, oltre alle materie di studio essenziali, prenderà anche lezioni di musica, in particolare di arpa. In seguito si sposerà bene una prima volta e poi, rimasta vedova, ugualmente bene una seconda volta, se pure senza avere figli da nessuno dei due mariti.

Dopo il fatto di sangue anche Bernini mise, come si suol dire, la testa a partito, si sposò; il Papa gli dette in moglie quella che era definita la più bella ragazza di Roma, Caterina Tezio, figlia di un avvocato non ricco. Sembra che il loro sia stato un buon matrimonio, insieme ebbero molti figli, viaggiarono fino alla corte del re di Francia e condussero vita agiata. Naturalmente Caterina pretese che il busto di Costanza, l’amante bellissima, fosse subito tolto di casa e così di mano in mano passò alla ricca collezione medicea. Adesso lo si può ammirare al Museo del Bargello di Firenze. Costanza morì a 48 anni, a lei era toccato in sorte di attraversare la vita di alcuni dei maggiori artisti del secolo diciassettesimo.

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