L’attività pittorica

Senso della solitudine dell'uomo in Mario Sironi

L’avvicinamento di Sironi ai futuristi, fu dettato da un vivo desiderio dì rinnovamento, da un bisogno di rottura con una pittura ufficiale e accademica

di Leyla  da Brest

Senso della solitudine dell'uomo in Mario Sironi

Mario Sironi, Autoritratto

Ricostruire gli inizi dell’attività pittorica dì Mario Sironi e le tappe della sua formazione, non è del tutto semplice.

Artista personalissimo, seguì per brevi lassi di tempo questa o quella corrente sue contemporanee, per porsi subito in una originalità di espressione e di contenuto che ne fa uno dei nostri maggiori Maestri a livello internazionale. Dopo una parentesi futurista, Mario Sironi aderì, nell’immediato dopoguerra, alla reazione classicista che si determinò, forse, per un bisogno catartico dopo gli orrori di quel conflitto che fu, invece, esaltato dai Futuristi, reazione che si strutturò in quel gruppo del Novecento che agglomerò quegli artisti rappresentanti oggi i più bei nomi dell’Arte italiana.

Fu senz’altro il bisogno di una visione artistica ed esistenziale ispirata a moduli di classica compostezza, che portò al verificarsi di questo movimento; l’assenso di Sironi ad esso segnò pertanto così la fine della sua pur breve appartenenza al movimento Futurista. Cesura, fra Sironi ed i Futuristi, inevitabile anche alla luce del confronto delle due opposte Weltanschauung: infatti la solidità, la plasticità, il corposo e quasi tattile senso del volume così peculiari in Sironi e già presente all’epoca della sua frequentazione futurista, sono qualcosa di ben diverso, anzi addirittura antitetico dalla dynamis, dalla fluidità, dal prometico tentativo futurista di rappresentare il movimento, il continuo divenire.

L’avvicinamento di Sironi ai futuristi, fu dettato, come appare chiaro dalle precedenti considerazioni, da un vivo desiderio dì rinnovamento, da un bisogno di rottura con una pittura ufficiale e accademica che risentiva ancora di modi  tardo-manciniani, ed era ancora impregnata di un epigonismo ottocentesco. 

La modernità di Sironi, il suo bisogno di porsi in una dimensione nuova e svecchiata dell’Arte, la necessità di una cesura con un mondo piccolo borghese che rischiava di divenire paralizzante ed asfittico si manifestano anche nella strutturazione dell’anticonformista concetto dell’unicità dell’arte; dal punto di vista teoretico questa posizione filosofica si traduce in quella attività abbracciante un vasto raggio di espressioni artistiche: la scenografia – realizzò alcune importanti scenografie per il Maggio Fiorentino, la Fenice di Venezia, la Scala di Milano – l’espressione pubblicitaria, e infine nell’attività creativa riguardante i cartoni per mosaico che furono realizzati presso la Bottega del Mosaico di Ravenna e collocati poi al Palazzo di Giustizia di Milano. Da un’angolazione più squisitamente tecnica, la posizione filosofica si tradusse in ricerche e sperimentazioni di nuove tecniche, di nuovi impasti, sino a quella esperienza polimaterica che mutò dai cubisti e che evidenzia la disponibilità di Sironi a nuove espressioni, nuovi mezzi senza pregiudiziali chiusure o limitazioni. Non si deve però vedere Sironi come un dissacratore dell’Arte tradizionale; anzi: egli restò sempre saldamente ancorato ad una fondamentale onestà di ricerca, che si espresse in una onestà di mezzi, di sensazioni, di espressioni, in breve: di contenuto e forma.

Così osservando l’arco della sua attività che va dal giovanile “Autoritratto” e dal “Ritratto della Madre che cuce” sino alle opere portate a termine in quel 1961 che vide la sua morte, si chiarifica un iter interessante e vario, una inesausta ricerca espressiva che non  solamente fine a se stessa ma che risponde alla fondamentale necessità di sviluppo spirituale, ad uno sforzo di autochiarificazione, e si fa modo di agire e reagire nei confronti di una realtà che non e mai, o quasi mai, accettabile. L’evoluzione dell’iter spirituale sironiano ha immediati macroscopici influssi sul cromatismo: dai primi dipinti giovanili dove sono presenti luminescenze manciniane o perduranze di tecniche luministiche affini all’ultimo divisionismo lombardo, la tavolozza di Sironi si incupisce; i toni si fanno più freddi e drammatici ed il pathos di questa pittura nettamente si differenzia dal superficiale ottimismo futurista per approdare ad un pessimismo disincantato e cupo, ad un senso tragico della sorte dell’uomo moderno.

Gradatamente, quasi attraverso le tappe di un’illuminazione  interiore – alla quale non furono estranee le personali vicissitudini dell’Artista – si fa strada in Sironi una visione realistica e cruda della realtà (sempre però, permeata di una sottile malinconica poesia) una dolente appassionata critica che diviene disperata protesta contro quella che già allora, quando i segni della demonia delle macchine e di un dissennato progressismo erano appena evidenti, si  presentava come un’epoca oscura di cieco materialismo, dove  l’uomo inscatolato e compresso negli ossessivi agglomerati urbani non ha che l’alternativa di soffrire consapevolmente – se è giunto ad un grado di sviluppo spirituale che glielo consenta  oppure di vivere la sua sofferenza in maniera oscura, nevrotica, ma non per questo mano grave e dolorosa, lasciandosi trascinare ottusamente, scaduto al ruolo di oggetto, di massa opaca,  di cosa, di semplice numero.

E’ quindi una posizione di Rivolta quella che Sironi assume nella sua opera: rivolta contro le stagnanti piaghe di un perbenismo ipocrita, di una mentalità limitata e meschina, ma anche contro l’alienazione che questo sistema, impostato sulla legge della produttività e dell’economia, impone all’individuo, alienandolo e disincantandolo da quelle che sono le sue vere radici, i suoi veri contatti.

Le ricerche tecniche più anticonformistiche divengono quindi mezzi per infrangere un’atmosfera stagnante, illusoriamente affogante nell’opaco godimento di un apparente benessere materiale. Non si tratta però di una contestazione di estrazione marxista, ma è unicamente la ribellione di uno Spirito nobile e libero contro tutto ciò che svilisce, sminuisce e coarta la natura reale dell’uomo.

Il senso tragico dell’esistenza (quasi di estrazione kierkegaardiana), il dolore per il destino dell’uomo, lacerato da mille conflitti interiori e immesso in un mondo divenutogli ostile, trapela dalla squallida grigio rossastra atmosfera di dipinti come “Il Bevitore” (1929) dove l’assente immobilità del personaggio suggerisce quella dolorosa non accettazione della realtà che si traduce nei più in un’oscura pulsione verso evasioni imprecise. Evasioni che possono trovarsi nell’alcool (il tema del Bevitore torna spesso in altre opere successive, sempre con il medesimo titolo) ma possono essere cercati in qualsiasi direzione che illusoriamente prometta un allentamento alla stretta di questa angoscia esistenziale: la contestazione distruttiva e dissennata, il bisogno irrazionale di mutamento, l’esaltazione del sesso, al limite, la droga. Il senso del tragico si rivela nella rappresentazione delle città, delle  squallide anonime periferie, delle fabbriche e degli stabilimenti industriali; il tutto pervaso dall’acuto senso di malinconia e da quella visione di rassegnata e tuttavia virile accettazione che caratterizzano la sua filosofia  personale. Il dramma di Sironi, che molti hanno voluto opportunisticamente interpretare in un’ottica marxista è invece il dramma dell’uomo in quanto tale e non della lotta di classe; è dramma che porta le sue radici molto più indietro nel tempo, che passa attraverso Schopenauer, Kierkegaard e arriva ai mistici cristiani e pre-cristiani a Socrate, Platone e oltre: dramma di una caduta, tanto più grave adesso in. quanto l’uomo non riesce più a trovare la propria redenzione, il proprio riscatto con un salto qualitativo verso una trascendenza ormai impossibile in un mondo in cui si è voluto satanicamente capire, spiegare scientificamente e risolvere ideologicamente tutto.

Il cristallizzarsi della sua pittura in forme statiche, plasticamente immobili nasce da un bisogno di stabilità, di “centralità”, di contro ad un mondo troppo rapidamente in divenire, disancorato, instabile, incerto. Questo bisogno di stabilità, si unisce in Sironi anche ad un impulso a recuperare una certa parte della realtà: ma si tratta di recupero sul piano di un realismo trascendentale che spinge a superare la strettoia della quotidianità per portarsi in una dimensione assoluta.

L’Artista non ha ceduto a compiacimenti verso elusioni formali  ma ha preferito per una inderogabile necessità caratteriale, una presa di coscienza tanto più scomoda in quanto crudamente lucida. La pena di vivere che Egli affronta, senza edulcoramenti compiacenti o attese di aiuti carismatici, il dolore per l’eterno dramma umano, necessario per poter arrivare all’illuminazione interiore, al riscatto, alla scoperta ed alla conciliazione delle due nature. Velata di stoica accettazione, non è visione né debole né rinunciataria: dalla tavolozza sofferta di Sironi, in quella sua tonalità plumbeo-rossastra che è la corrispondente vibratorio-cromatica di un’asprezza materica e interiore, scaturisce un messaggio solare: è in questa accettazione di sé infatti, nella responsabilizzazione dell’uomo di fronte a se stesso che risiede non soltanto la grandezza dell’Artista, ma soprattutto la nobiltà dell’Uomo.

Un’“Opera al Nero” dunque dove già traluce l’oro.                                   

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