Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Giampiero Rubei
Come ben sanno quelli che gli sono stati davvero amici, Giampiero Rubei amava raccontare un aneddoto (che poi aneddoto non è, ma pura tradizione orale) circa la nascita dell’Alexander Platz (il mitico locale jazz di via Ostia a Roma, da cui sono passati tutti i grandi del jazz italiano degli ultimi trent’anni, da Di Battista a Gatto, da Danilo Rea a Enrico Pieranunzi e molti grandi di quello internazionale, da Chet Baker a Chick Corea e Michael Petrucciani).
L’allora Segretario del MSI, Giorgio Almirante, aveva chiesto a Giampiero - che era un autorevole esponente del partito nella Capitale – di organizzare un circolo culturale nel cuore della città e Rubei era saltato fuori con lo scantinato di via Ostia e l’idea di creare il primo jazz club d’Italia, mutuando una fortunata formula anglosassone.
Almirante inorridì, spiegando a Rubei che quello che aveva in mente lui era una sorta di Circolo degli Scacchi e non certo un locale fumoso ed equivoco in cui si facesse musica afroamericana.
Rubei – che era Rubei – se ne fregò altamente e perseguì per conto proprio quella intuizione, destinata a dimostrarsi per decenni un’idea vincente, sia tramite il successo indiscusso del locale, oggi noto a livello internazionale, sia attraverso fortunatissimi spin off quali il Festival Jazz di Villa Celimontana - diventato un’icona dell’Estate Romana – e il Jazz Festival di Montalcino.
Ho voluto ricordare questo aneddoto, tanto caro a Giampiero, perché secondo me racconta in modo esemplare l’uomo Rubei: un ribelle geniale, un uomo profondamente libero, un uomo di cultura e di azione nello stesso tempo, secondo un modello antropologico che dal secondo dopoguerra in avanti in Italia non si è più visto.
Un uomo soprattutto – e ci tengo in maniera particolare a sottolinearlo – che a differenza di tanti altri ha saputo dimostrarsi imprenditore, organizzatore culturale e di spettacolo, interlocutore di artisti e intellettuali, uomo d’avanguardia, senza mai tradire se stesso, la propria storia, il proprio passato che – per Giampiero – è stato sempre identico al presente.
Per affermarsi e perseguire il suo trentennale successo personale, Giampiero Rubei non ha avuto bisogno di smarrirsi in labirinti intellettuali e onanismi accademici, sputando nel piatto in cui per tanto tempo aveva mangiato; non ha dovuto avventurarsi in improbabili Imrama fra verdi, forcaioli, nuovi e vecchi marxisti; non ha dovuto fare ostentazione di qualunquismo come qualche resistibile spacciatore di canzonette.
No, Giampiero Rubei è sempre serenamente, limpidamente, inequivocabilmente rimasto un “fascista senza Mussolini” (per mutuare il fortunato titolo di un libro di Giuseppe Parlato), anzi un fascista malgrado Mussolini: uno di quelli che avevano capito per tempo e da tempo che c’è più fascismo in “Carta da Visita” di Ezra Pound che in tutti i discorsi e gli scritti del Duce; più viatico rivoluzionario nel “Processo alla Borghesia” di Sulis e Berto Ricci che nell’intero “Capitale” di Marx.
E questa consapevolezza in Giampiero si è sempre trasformata non solo in una straordinaria carica vitale, ma anche in quella capacità di ironia e di autoironia che ne ha fatto un uomo “esemplare” proprio nel senso in cui Eliade usava questo aggettivo a proposito del Sacro.
Il mondo con e senza Giampiero Rubei non è lo stesso.
L’ho capito davvero solo giovedì, quando la notizia della sua morte mi ha fulminato al telefono.
Che stupido sono.
Chissà se il cuore grande di Giampiero mi perdonerà ancora una volta.
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