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Era piuttosto spesso e rotondo all’intradosso

Dalle disavventure d’un modellista le strutture flottanti

Con la balsa sbrecciata del velivolo e quella ancora intatta degli steli e delle assicelle che avevo in sovrappiù mi venne l’idea di costruire dei modelli statici di nessuna pretesa aerodinamica ma di promettente estetica

di Piccolo da Chioggia

Dalle disavventure d’un modellista le strutture flottanti

Horten

All’aeromodellismo inteso nel senso usuale ho dedicato solo qualche ora pratica e molte ore in lettura. Attratto dalle belle linee del velivolo aliante ne avevo ispezionato un modello, costruito in legno secondo il modo antico, con i longheroni, le centine di profilo, la ricopertura in carta irrigidita dalla mistura di colla e acqua. Compravo i lunghi steli e le assi di balsa, la colla e la carta, e mi mettevo all’opera in un modo tanto dissennato quanto inefficace. Non avevo un piano di costruzione e però credevo con la pietosa illusione del dilettante che qualche nozione di aerodinamica avrebbe supplito a tale carenza. Riuscivo a costruire un’ala senza diedro e la ricoprivo con la sua bella velina bianca. Il profilo lo avevo disegnato sommariamente. 

Era piuttosto spesso e rotondo all’intradosso, come lo è una goccia d’acqua, e questo mi avrebbe potuto promettere solo virtù di volo molto modeste, che comunque vennero del tutto disattese.  L’aeromodello era rudimentale e mal costruito; e nessun volo fu possibile. Con la volontà radicata di costruire un modello che volasse bene ritentavo la sorte e, ancora senza aver un piano preciso e solo con vaghe idee, squadernando con il coltello il primo aliante per trarne gli steli ora ridotti e le sagome in balsa da riusare, mi gettavo nell’impresa ancor più irragionevole di costruire un modello senza coda, un’ala volante a freccia come quelle dei fratelli Horten. A questo nuovo aliante era risparmiata la ricopertura in carta dell’ala, tanto mi fu chiaro, purtroppo a struttura già quasi compiuta, che mai avrebbe potuto volare. 

Con la balsa sbrecciata del velivolo e quella ancora intatta degli steli e delle assicelle che avevo in sovrappiù mi venne l’idea di costruire dei modelli statici di nessuna pretesa aerodinamica ma di promettente estetica, dei lari ad ali estese montati su di una colonna radicata sull’asse di balsa. I semplici esemplari con la carta flessa che avevo costruito dal volumetto Möwen im Fluge e di cui ho raccontato a proposito dei pali cultuali, mi promettevano la sicura riuscita dell’intento. In breve avevo pronti diversi diorami plastici con il loro bravo stormo di lari in volo, tesi in un’unica rotta e situati su varie quote come in una nube di ali che trascorre l’aria. Ma altrettanto in breve esaurivo tutte le possibilità della rigida geometria di tali composizioni. Non riesco proprio a ricostruire nel ricordo dove e come mi sia balenata l’idea delle composizioni successive, pure se la prima di queste strutture la conservo e fa bella mostra di sé. 

Posso solo dire che ad un certo punto immaginavo di assemblare tre primi steli di varie stature secondo una struttura a tetraedro irregolare i cui spigoli elevati dalla base, dopo essersi uniti in un nodo, proseguissero divergendo verso l’alto. Su questa struttura elementare saldavo senza più ordine apparente gli steli successivi dando forma ad una sorta di quercia il cui tozzo tronco adombrato nella piramide del tetraedro si diramava coll’ausilio di travicelle di appoggio e irrobustimento in tre rami. Terminati ognuno da un bel gabbiano ad ali spiegate in volo. Materiale semplicissimo come colla e legno di balsa, strumenti elementari quali coltello e null’altro, se non una matita per tracciare le sagome dei lari e ritagliarle. Corposi volumi e bottiglie quali appoggi per aiutare la fragilissime strutture a saldarsi una volta incollate ramo per ramo. Nascevano così, e ne ho costruite un bel numero con tutti i ritagli della balsa che avevo accumulato per un futuro e mai costruito aeromodello, le strutture alcune delle quali, immaginate in una scala assai maggiore e nel loro panorama ideale, campeggiano in alcuni degli scarabocchi lagunari qui apparsi. 

Cui ho dato il nome tecnico di installazioni flottanti. Ai lari ho a volte sostituito siluette di falconi caratteristici per la lunga coda. In ogni caso creature acrobatiche e non use al solo maestoso volteggio delle aquile. Per il succedersi nel tempo è possibile che un ausilio, un barlume d’idea di queste strutture mi sia venuta in seguito alla prima volta che ho intravisto le capanne del litorale di Adria descritte in un capitolo precedente ma non riesco, e me ne rammarico, a ricostruire esattamente dove, e in base a quale immagine vista o rammentata mi sia balenata l’intuizione per la prima di queste strane architetture di aste affastellate senza un apparente ordine. E non posso escludere una retroattività delle impressioni le quali si usano poi, una volta maturate e non più primeve, come mantelli con i quali coprire anche fatti avvenuti che ne sono del tutto indipendenti. Se ora devo palesare a me stesso una teoria che mi permetta di ricostruire questa invenzione, ricorro per semplicità a queste capanne sparse sull’arenile atestino. 

La prossimità del mare, i lari in volo continuo, i pini retrostanti le cui chiome balenano in verde cupo oltre le dune non molto elevate concordano in modo perfetto alla fantasia di averle transitate in strane architetture ancorate in piattaforme di legno flottanti su specchi acquatici lagunari o lacustri. 


  

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