Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Una scena de La professione della signora Warren
L’indiscreto fascino della buona società …. E la carica velenosa di ipocrisia che la caratterizza. Poche epoche come quella vittoriana sono state un perfetto e perverso condensato di perbenismo di facciata e marciume abilmente dissimulato: ma proprio in quel periodo ci sono stati grandi autori che, ciascuno a suo modo, hanno messo il dito su varie piaghe, togliendo i guanti bianchi che abilmente le occultavano.
Uno di questi è senza dubbio l’irlandese George Bernard Shaw, personalità complessa e poliedrica di pungente critico musicale, sferzante drammaturgo, scrittore e pensatore, dotato tra l’altro di una straordinaria longevità (1856-1950) e di uno spirito straordinariamente sarcastico: peccato solo che lo abbia impiegato anche per difendere lo stalinismo.
Da martedì scorso il teatro fiorentino della Pergola mette in scena una delle sue “commedie sgradevoli”: La professione della signora Warren, scritta nel 1893 ma a lungo pesantemente ostracizzata proprio per le sue tematiche scabrose, soprattutto per quel periodo perbenista e puritano. La regia di Giancarlo Sepe, che ha curato anche la traduzione e l’adattamento del testo, si rivela per la verità …. gradevolissima, ma senza nulla togliere alla attualissima carica urticante del testo. Una regia che senza smanie “metafisiche” cala l’opera teatrale nel suo preciso contesto: le scene e i costumi di Carlo de Marino presentano interni domestici, con la giovane Vivie che dorme in un giaciglio fatto di libri e con abiti modesti e per nulla appariscenti, esattamente l’opposto della madre, la signora Warren che indossa abiti di una eleganza sin troppo sgargiante, che avrebbe fatto inorridire Oscar Wilde e che rivelano la sua vera natura di donna “poco perbene” al servizio di una società che però si serve di lei e delle sue attività come di un servizio di cui non si può né si deve parlare, ma di cui non si può fare a meno. Oggetti dunque ben precisi come sedie, libri e scrivanie che però assumono anche una valenza simbolica, come a suggerire il ripetersi inesausto di certe situazioni e di certi squallori. In fondo, nessuno dei personaggi è veramente “positivo”: neppure la giovane Vivie, la cui “morale” ha in fondo un qualcosa di angusto e di meschino, non meno della sfrontatezza della madre che può, se non altro, avere la circostanza attenuante (ma che non la assolve) delle sue misere condizioni.
La compagnia di attori si presenta abbastanza compatta, forse a tratti un po’ statica e non sempre brillantissima ma comunque efficace e convincente. L’eccezione è naturalmente Giuliana Lojodice, che ha dato corpo a una “signora” Warren perfetta in tutte le sue sfumature: sfrontata, tigre ancora pericolosa e persino seducente malgrado gli anni, di un cinismo a tratti ributtante e in alcuni momenti umana e sincera nel suo dolore di madre incompresa, ma incapace anche di comprendere che quello che la figlia non può perdonarle non è tanto il fatto di essere una ex prostituta, ma di sfruttare adesso la miseria altrui per i propri guadagni, facendosi tenutaria di bordelli di lusso più o meno mascherati: “professione” che condivide con il cinico e nauseabondo baronetto Sir George Croft, che “ovviamente” si è limitato a finanziare l’impresa e ne ricava lauti guadagni, e in virtù di questo si crede in diritto di poter chiedere a Vivie di sposarlo. Anche il Croft di Giuseppe Pambieri è stato all’altezza di un attore di lungo corso e di grande esperienza.
““Si scontrano la generazione del Capitalismo che appartiene alla Signora Warren – dichiara la Lojodice – e la generazione dei giovani nuovi, che non vogliono piegare la testa e cedere alle leggi del Capitalismo. La forza della Signora Warren che difende a spada tratta il suo operato davanti alla figlia è data dall’evidenza di un carattere che non si assoggetta a un’idea di femminilità oppressa dalla mascolinità: la Signora Warren è una femminista ante litteram.”
L’impressione finale che resta nello spettatore è che nel dramma manchi un personaggio realmente “positivo”, anche se le simpatie dell’autore vanno probabilmente a Vivie, il cui messaggio importante è che i sentimenti non si possono comprare, nemmeno – anzi, tantomeno - l’affetto di un figlio. Ma anche la signora Warren, con il suo anticonformismo, la sua grinta e la sua voglia di non farsi schiacciare da una società che era veramente maschilista strappa in fondo un moto di simpatia se non di ammirazione, grazie soprattutto alla Lojodice. Il gioco delle luci di Gerardo Buzzanca ha contribuito a creare una atmosfera piacevolmente dark; adeguato il commento musicale a cura di Harmonia Team.
Decisamente da vedere e apprezzare, come ha fatto il pubblico delle prime recite.
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