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Arthur Rimbaud

J'inventais la coluleur des voyelles

Unendo le due fantasie, quella di Arthur Rimbaud e quella del Meinert a questo punto si fonda una curiosa anche se non completa teoria suscettibile di belle applicazioni nell’arte astratta o nelle tavole parolibere dei futuristi

di Piccolo da Chioggia

J'inventais la coluleur des voyelles

Arthur Rimbaud nei “Délires” che albergano la sua opera “une saison en enfer” ad un passo scrive: “j’inventais la couleur des voyelles”, ovvero, inventai il colore delle vocali: la A in nero, la E in bianco, la I rossa, la O celeste e la U verde flavo.  Una interpretazione della visione del poeta francese in accordo con la teoria del Meinert sull’aspetto figurativo delle vocali maiuscole romane, riassunta in un capitolo precedente, sembra plausibile in forme non troppo complesse e traballanti solo per la I, la O, la U. Il segno I inteso come asse ovvero l’“in sé” di ogni cosa, “das Eigene” è comprensibile in rosso se immaginiamo questo “in sé” come un “fuoco” interno della cosa. E qui può agire in estensione e da lontano tanto l’idea antica d’una origine di tutte le cose dall’elemento fuoco, quanto il magnifico monito rintracciabile in una pagina del mistico Meister Eckhart quando questi invita l’”anima nobilis” a riattizzare “in sé” il “fuoco” primigenio. Se ci arrestiamo all’idea del connubio o dei rapporti del sangue il colore rosso va da sé. La O in celeste ancora non è illogica, dato che per il Meinert la O dice luminosità, e ad essa si può associare il cielo diurno, ben ravvisato dal Dyaus rigvedico. La U come segno del suolo ha nel verde flavo il colore che si approssima alla prima intuizione che si può avere d’una pianura in un’alba primaverile: una distesa verde d’erba sotto il cielo. In tal senso al suolo si associa la proverbiale aggraziata modestia dei fili d’erba da esso generati. 

Comprendere la fervida fantasia del poeta francese nel caso della A e della E richiede in effetti un certo vigore immaginativo del lettore che qui deve farsi egli pure autore. Assumiamo come indicato dalla teoria del Meinert che il segno A manifesti vastità ed altitudini, e però questo in somma misura, non quindi le cime gelate d’un Himalaya ma oltre ancora. Eccoci in volo entro la volta celeste, ma lontani, distanti, dove la volta non ha più il riverbero che le viene irradiato dal sole che incide i suoi strali di luce sul pianeta. Siamo dunque in una volta notturna, nera ed accesa dai punti luminosi degli astri. Per il segno E, dell’astrazione, del non esteso nello spazio possiamo immaginare una figura, un suono inespressi ma presenti, ovvero immersi, nel nostro pensiero cosciente. Un nulla bianco dunque.

Unendo le due fantasie, quella di Arthur Rimbaud e quella del Meinert a questo punto si fonda una curiosa anche se non completa teoria suscettibile di belle applicazioni nell’arte astratta o nelle tavole parolibere dei futuristi.

Poscritto

Circa i grandi scrittori che disegnano, argomento d’un capitolo precedente, avevo ricordato uno strano e curioso acquerello di mano di Goethe nel quale il nome Amalia si traduceva in una specie architettura nella quale le lettere divenivano gli elementi d’una costruzione che somigliava a certe rovine di acquedotti dispersi nella selvaggia campagna romana. Da questo bel quadretto ho tratto l’avvio per scarabocchiare le vocali maiuscole latine in guisa di elementi scolpiti ed abbandonati nella medesima campagna. Immaginando un marmo rosso o più modesti mattoni per la colonna che raffigura la I, marmo verdolino per una U a braccia tese, pietra celestina o forse, con fantasia meno alata, cemento coperto d’intonaco blu per una O, lavagna nera per un’A abbracciata dall’astratta E in candida pietra. L’albero veglia dando un poco d’ombra alla coppia delle inseparabili EA.   

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