Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Un Falstaff che strappa applausi, ma non convince del tutto. Un tutto esaurito che apre il cuore, pubblico in buona parte giovane, grande entusiasmo e affetto per Zubin Mehta che non è solo un grande direttore, ma anche in un certo senso l’immagine stessa del Maggio Musicale Fiorentino. Tutte cose davvero belle, che fanno sperare in un vero rilancio di questa grande istituzione culturale e sono sicuramente il riscontro di un buon lavoro di immagine e di marketing. Peccato che il vecchio pancione non fosse proprio al massimo della forma, nonostante l’ indubbia bravura del protagonista Ambrogio Maestri, che ben si può definire ormai il “Falstaff per eccellenza”: bel timbro di voce, ottimi fraseggi, piena padronanza di tutti i registri, oltre a una interpretazione misurata ma efficace.
Ma se questo è un indubbio punto di forza della spettacolo, non mancano le criticità; a partire soprattutto dalla regia, che ci mostra un Falstaff “al rallentatore”, privo di quella vis comica che Boito e Verdi avevano evocato con tanta maestria. Scenografia spoglia ed essenziale, una sorta di scatola costituita da teli dall’aria sciupata, arredi squallidi, spazi dilatati, lentezza esasperante soprattutto in scene che dovrebbe essere vivaci e animate (come la spassosissima “caccia al pancione” dell’ultima parte del secondo atto): l’impressione è quella di una regia costruita per un teatro molto più piccolo di quello di Firenze e adattata assai male e non servono a vivacizzarla i velocipedi e le macchine a vapore ottocentesche che ogni tanto fanno capolino in scena. Gli stessi cantanti sono apparsi in alcuni momenti spaesati e a disagio. Anche le scene di Tiziano Santi e i costumi di Maurizio Millenotti non brillavano certo per vivacità o originalità, con la parziale eccezione dell’ultimo atto. Un Ronconi insomma che più che scandalizzare o colpire, come a volte in passato ha saputo fare, addormenta.
Il regista aveva detto di voler fare un’opera “da camera” e di voler evidenziare l’aspetto malinconico del vecchio cavaliere. Ma la malinconia è una tentazione, un cedimento momentaneo a cui però sir John non soccombe, e comunque è ben difficile prenderla a leitmotive dell’opera. L’averlo fatto ha trasformato la risata artistica di due grandi autori in un singulto, introducendo un elemento che dovrebbe essere del tutto estraneo: la noia. Così nella prima scena, i due vispi ribaldi Bardolfo e Pistola si trasformano in due squallidi relitti umani, che non si capisce bene come possano prendere così argutamente in giro il pedante e borioso dottor Caius; mentre Falstaff sembra più un personaggio da casa di riposo che da osterie e ribalderie varie.
Questa lentezza e farraginosità ha forse condizionato anche la direzione d’orchestra, con un Zubin Mehta non in forma smagliante come al solito e come era stato nella edizione del 2006, decisamente imparagonabile a questa. Forse influenzato dalla regia, Mehta sembra voler riproporre una lettura ispirata a una nostalgia “neoclassica” stile Rosenkavalier , come fu quella di Karajan. Molto però va perso in brillantezza e in vivacità, e in alcuni momenti sembra persino di scorgere qualche scollatura tra palcoscenico e golfo mistico. Non mancano comunque i momenti in cui direttore, orchestra e coro (che peraltro in quest’opera non ha un grande rilievo) danno il meglio di sé, soprattutto nell’ultimo atto e nell’esecuzione della fuga buffa finale tutto nel mondo è burla, eseguita davvero a regola d’arte.
Decoroso nel complesso il resto della compagnia di canto, anche se Maestri resta senza dubbio un fuoriclasse.
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