La leggenda del Grande Inquisitore

Una Leggenda che accende il pubblico … E la riflessione

La regia di Pietro Babina, ben coadiuvata dagli effetti video di Miguel D’errico è essenziale e molto basta su effetti di luce – ombra, sul contrasto di parole – chiave quale fede e libertà

di Domenico Del Nero

Una Leggenda che accende il pubblico … E la riflessione

Una scena da "Il Grande Inquisitore"

Non è sicuramente uno spettacolo facile; anzi, all’inizio persino irritante. La leggenda del Grande Inquisitore,  dramma tratto dal quinto capitolo dei Fratelli Karamazov di Dosdoevskij, ha conquistato ieri sera  il pubblico fiorentino del teatro della Pergola, sicuramente grazie alla grande bravura di Orsini che si conferma un grande  mattatore della scena … ma  se gli applausi sono scrosciati senza riserve, qualche perplessità  non è mancata all’uscita di un “atto unico” durato circa un’ora e mezzo e i cui primi venti minuti circa si sono svolti … in silenzio,  in una camera spoglia, illuminata freddamente dal neon, occupata solo da un alto tavolo ospedaliero – se non da obitorio -  con qualche rumore di scena, una luce che si spegneva di colpo e si riaccendeva, una sorta di conflitto mimato fra due attori e una scritta al neon – Fede – che incombeva sul proscenio. Le prime battute, anche se nessuno ha osato dichiararlo, sono state accolte con un sospiro di sollievo.

Poi finalmente si comincia a comprendere: siamo difronte a un personaggio (Ivan Karamazov, ma potrebbe per certi aspetti essere chiunque, ormai fuori dal tempo e dal suo stesso romanzo) insidiato, tentato e combattuto da un demone, molto ben impersonato da un mefistofelico Leonardo Capuano, che gli ricorda i suoi sensi di colpa, il suo disprezzo per l’umanità, la sua indifferenza per i mali del mondo: un demone che potrebbe essere benissimo un alter ego.

Ne viene fuori una sorta di commistione tra Dosdoevskij, Freud e Pirandello: insomma uno spaccato di Novecento  (ma anche di ventunesimo secolo) che va a scavare e riproporre un eterno conflitto: quello tra necessità e libertà, con quest’ultima che si rivela un dono troppo grande e troppo difficile da accettare per un’umanità che sembra sempre più incline a preferire  le catene, purché … ben oliate.

Come dichiara lo stesso Orsini, del romanzo russo, da lui tra l’altro magistralmente interpretato in un film del 1969, c’è soltanto lo spunto iniziale, quello in cui Ivan Karamazov racconta al fratello la trama di un racconto da lui inventato ma mai effettivamente scritto,  la Leggenda del Grande inquisitore,  che immagina che Cristo, venuto sulla terra, sia duramente apostrofato da un grande inquisitore che gli chiede cosa sia venuto a fare: dal momento che gli uomini non hanno bisogno di libertà, quella di Cristo è una vera e propria …azione di disturbo. E  Il problema centrale, secondo Orsini  è quello se l’uomo sia o meno in grado di gestire la propria libertà: per l’attore, ancora oggi l’umanità  non è in grado e si affida  costantemente a “qualcun altro”, che siano  partiti o qualsiasi altra istituzione.


Il testo del grande scrittore russo  diventa così uno spunto per fare uno spettacolo assolutamente “non tradizionale” , attualizzando appunto paure, fantasmi e orrori ma portandoli in una dimensione fuori da un tempo, un luogo e un riferimento storico preciso.

La regia di Pietro Babina, ben coadiuvata dagli effetti video di Miguel D’errico è essenziale e molto basta su effetti di luce – ombra, sul contrasto di parole – chiave quale fede e libertà; una regia che non concede nulla all’ornamento e non permette all’occhio di rilassarsi, ma che non manca certo di efficacia e riesce anzi, dopo un primo periodo di smarrimento, ad accendere e tenere alta la tensione  nello spettatore.  Ma non ci sono dubbi di come lo spettacolo si regga sulla maestria di Orsini, ben coadiuvato da Capuano.  Se nella prima parte dello spettacolo il grande attore riesce dar vita a un personaggio allucinato e straziante, prigioniero di un incubo in cui si identifica la sua stessa vita, l’ultima parte, il monologo del Grande Inquisitore ironicamente (ma non troppo) incorniciato in una Ted Conference, è un vero capolavoro di mefistofelica diabolicità:  il giudizio universale viene rovesciato e il diavolo processa e condanna al rogo  Gesù reo di voler rendere l’uomo libero, cosa di cui l’uomo in realtà non ha nessun bisogno. 

Non per nulla erano state in precedenza richiamate le parole di Mefistofele: il diavolo si definisce “una parte vivente di quella forza che pensa il male ma fa il bene. Un totale rovesciamento di campo, dunque; e il non prevalebunt?  Ma non possiamo chiedere troppo anche a uno spettacolo sicuramente d’alto livello e di grande, forse a tratti persino troppa complessità, ma che resta comunque tutto da vedere sia per l’eccezionale abilità di Orsini sia per gli interrogativi che pone e che sono, purtroppo sempre attuali.  Fa senz’altro bene uscire da teatro con un sorriso, ma è ancora più utile venirne fuori facendosi qualche domanda che di solito si preferisce comodamente ignorare.



Repliche fino a domenica (feriale ore 20,45, festivo 15,45)

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