Ritratto di una generazione muta: ROMANZO

Andavamo a letto dopo Carosello

Capitolo II. Un uomo e la sua scatola. II. Dimesso da me stesso

di Giovanni F.  Accolla

Andavamo a letto dopo Carosello

Ora la sera torno a casa e cucino, invariabilmente. Niente manicaretti o pretese d’alta cucina, intendiamoci; preparo pasti semplici, al limite del frugale. Sto solo molto attento alla qualità degli alimenti principali: olio d’oliva extra‑vergine, uova freschissime di giornata, gli ortaggi, poi, tutti provenienti dal mio orto e i formaggi, opera del mio vicino, un pastore igrugnito, ma dagl’occhi gentili.

Mi sono ritirato in questa casa di campagna che lo scorso anno mi ha lasciato in eredità mio nonno. In città non ho più niente: non possiedo più un lavoro, non ho più amici con cui poter parlare del tempo passato, non ho neanche amori da dimenticare. Mi sono dimenticato di tutto anche della memoria: vivo nell’istante e gratto le giornate minuto per minuto. Contemplo la vita come fosse un enigma inestricabile, un arcano che non è possibile svelare. Non sono felice, non sono qui per cercare una possibilità, una variante esistenziale, ma non sono neanche infelice. E forse ho trovato quel che desideravo: sono il più vicino possibile al nulla, alla mia più intima essenza. Mangio e do da mangiare ai gatti, li guardo e attraverso lo sguardo divengo ciò che vedo, miagolo perfino.

Qui non ho certamente smesso di essere il fallito che sono, ma almeno, essermi licenziato da il mio essere sociale - giornalista fallito, marito fallito, padre fallito - mi ha tenuto lontano dalla bestia più feroce che può attanagliare un uomo, il fatalismo. Perché quando contempli le tue rovine, non credi più a nulla, e a furia di non credere, si diviene fatalisti. Si danno significati trascendenti e rivelatori a fatti essenzialmente casuali, banali e, in realtà, totalmente inutili nella loro essenza: se succede questo vuol dire quello, per finire col fare discorsi insulsi o con l’avere atteggiamenti da gagà di provincia, come quel buffo camminare solo su piastrelle nere o solo su bianche, portare al collo talismani benedetti da improbabili santoni… ci si beve il cervello, insomma, in un sorso di estetica d’accatto. E amen. A che serve non credere, o meglio dire di non credere, se alla fine, si finisce col credere a tutto?

È difficile digerire il fatto che questo è quello, nient’altro che quello. Che, tutto sommato, ogni soggetto è complementare all’oggetto che gli sta dinnanzi e noi, incapaci di conoscere ogni genere di conoscenza, siamo cose tra le cose. Privi di sostanza gli strumenti di bordo: la stessa rappresentazione, lo comprese già Parmenide, in fondo non neanche tale, ma una semplice relazione. Una volta tu sei soggetto, in un’altra ti accorgi d’essere diventato oggetto e così via. L’ultima quiete rimane nella contemplazione. Ho reciso, quindi, i miei impulsi di appropriazione, vivo del mio sguardo e mi perdo nella forza che dalle cose ricevo. Questa energia non mi procura felicità, come ho già detto, ma mi dona un certo benessere. Ciò che non riesco a digerire, però, ciò che rende le mie notti insonni, le mie ore sbriciolate in infiniti secondi, è il fatto che ho dovuto fallire come essere sociale, come uomo tra gli uomini per arrivare a questo pur minimo agio mentale.

Se avessi creduto in Dio, mi chiedo, l’arabesco angoscioso che m’è parsa la vita, sarebbe potuto divenire una cattedrale di luce? Avrei potuto tollerare la mia sconfitta con maggiore rassegnazione? E ora che esisto in una resistenza del tutto biologica, che resisto al dolore voltando lo sguardo al mio dolere, se credessi in Dio, appunto, riuscirei a trovare uno straccio di morale all’infinita pervicacia del dolore? Nell’abisso sta la verità, dicevano i greci, ma nessuno di noi tanto allenato all’apnea, Il buio mi divora, e buona notte.

Nella stanza sento una falena sbattere sulle pareti, sui mobili. Le sue paure mi danno angoscia. L’insetto cerca un’uscita, ed anch’io la cerco.


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