Cultura »

Gli oscuri pittori con gli occhi a mandorla

Cartoline a colori, panorami nipponici e acquerugiole

Un poco come gli ultimi navigli che inalberavano ancora delle sparute vele raramente o quasi mai spiegate al vento perché erano mossi dalle poderose macchine a vapore o a nafta

di Piccolo da Chioggia

Cartoline a colori, panorami nipponici e acquerugiole

Konisberga

Ci si imbatte a volte in vetuste cartoline di paesaggi pittoreschi o di viste architettoniche che non nascono come fotografie sulla pellicola sensibile ai colori ma erano in origine immagini in bianco e nero, tinte poi artificialmente. Vi sono persino esperti che quando le ritrovano negli archivi delle famiglie o nei lasciti di qualche celebrità o quando, a volte, sono scivolate via da un libro, ove avevano svolto per lunghi anni, al posto del fiore o del quadrifoglio, l’ufficio di segnare una pagina, le classificano con il meticoloso spirito del collezionista.

In realtà, osservando con cura molte di tali cartoline colorate, se si può rilevarne un aspetto puerile nel gusto, spesso non se ne può che lodare la fattura, o per essere più precisi, l’intenzione di essa. E se non è facile immaginare le splendide viste in bianco e nero di Parigi di Atget, o le altrettanto belle fotografie dello studio Alinari che sulla Enciclopedia Italiana documentano luogo per luogo i capolavori della nostra architettura, acquerellate da un Carneade dei pennelli, dato che un eventuale osservatore di buon gusto ne verrebbe mosso al sorriso, è avvenuto, al contrario, che di fotografie dalla prospettiva usuale e dal semplice intento descrittivo generazioni di pratici pennellatori abbiano affinato una sensibilità e dato vita ad una effettiva forma d’arte minore. Tanto vale di ricordare che queste fotografie, buone solo a descrivere viste panoramiche con cura pignola, hanno dato modo di introdurre nella nostra lingua la locuzione piuttosto burlesca di “stile cartolina” transitatasi a denotare l’opera di certi pittori di modestissimo talento. 

Quest’arte non sembra essere, in fondo, troppo lontana da quella che si pratica acquerellando i disegni d’architettura: si osserva a che modello del passato conformarsi, si presta la massima cura al cielo che costituisce, occupando molta della superficie della tavola, un elemento principe della resa cromatica, ci si documenta sui materiali della costruzione cercando di tenere toni pallidi nel pennellare in modo da non soffocare il tratto del disegno. Per le fotografie da acquarellare sono minime le variazioni del criterio estetico appena riassunto in modo succinto. Più articolata è al contrario la tecnica effettiva, dato che occorre agire direttamente sui clichées da dare poi alle stampe in grande serie. Se ciò che è l’effetto di tali operazioni ha un qualcosa che nel gusto può apparire puerile non per questo possiamo escludere che si tratti d’una forma d’arte pure se minore.

Un caso molto sui generis di quest’arte è rappresentato però dall’opera di bravi pittori nipponici. In seguito alla famosa imposizione della marina nordamericana che nel 1853 con delle navi a vapore irte di cannoni entrava in un porto giapponese, nel Giappone che si apriva all’occidente, oltre alle ferrovie ed alle tecniche di quel secolo entravano pure i primi studi di fotografi. I primi erano di stranieri ai quali seguivano nel tempo, come naturale, i locali che avessero appreso l’arte. In Europa e in special modo in Francia iniziarono ad arrivare a fine ottocento delle fotografie per le raccolte e dipoi per le riviste che documentavano vita, città e paesaggi nipponici. E si notarono per la squisita delicata sensibilità le fotografie colorate a mano dei paesaggi illuminati dai ciliegi in fiore, costellati da tetti di pagode dal legno imbrunito dal tempo che si levavano sopra le cime degli alberi sotto la mole imponente dell’immancabile Fuji. O delle distese di baie e insenature con le vele dei navigli che scivolavano sulle acque tese a specchio per riverberare i colori del tramonto o dell’alba. Questi pittori dipingevano le foto seguendo il magistero cromatico del principe dei paesaggisti nipponici, Hiroshige, il cui nome con quello dell’indiavolato Hokusai e quello di Utamaro dà la triade dei sommi dell’arte figurativa nipponica. Ho potuto vedere riproduzioni di queste foto giapponesi di paesaggio su di un grosso volume dedicato proprio a Hiroshige e davvero ne sono rimasto incantato. 

Il fatto che in margine all’opera del grande maestro si apponesse un capitolo documentario su quest’arte derivata e, se si vuole, di transito perché a cavallo di fotografia e pittura, testimonia credo del valore riconosciuto a questi oscuri pittori di lastre fotografiche. Spesso erano allievi di scuola consapevoli che un’epoca, quella appunto delle stampe dei grandi, si stava chiudendo e ciò non avrebbe permesso loro di vivere semplicemente dipingendo secondo il modo del passato e quindi si improvvisarono pennellatori di foto per potersi guadagnare la sopravvivenza senza dover rinunciare all’esercizio della pittura, loro pratica congeniale.

La differenza qualitativa dell’opera di questi oscuri pittori nipponici con le nostre cartoline ottocentesche e novecentesche tinte a mano è, credo di poter dire senza esagerare, molto forte se non addirittura abissale. Può essere che ingenuamente io effettui un confronto obliando che i termini da comparare dovrebbero essere del medesimo livello perché si possano cogliere variazioni più sottili e quindi più preziose che non le crasse differenze che immediate si manifestano all’occhio. Ma purtroppo ho nella memoria solo detti termini e non mi sono ancora imbattuto in fotografie tinte a mano di paesaggi o architetture che possano essere per esempio dell’eleganza delle immagini degli Alinari o di Atget. Dunque per le nostre cartoline e foto dipinte è questione di graziose viste paesaggistiche e architettoniche, cui si può facilmente attribuire l’aggettivo di pittoresche, per le fotografie nipponiche dipinte vi è piuttosto l’impressione che in margine ad un mondo che sta per oscurarsi, il Giappone feudale che vede l’ingresso della meccanica e dell’occidente, l’occhio di chi prima ritrae e poi di chi tinge, voglia documentare e riassumere un tempo che si chiude. 

L’osservazione sembra a dir il vero fin troppo elementare ma se questa implica che da una parte, in occidente, l’occhio che fotografa voglia solo ritrarre e  diffondere una bella vista, un bel panorama del quale si percepiscono come naturali le mutazioni d’intorno dovute al procedere dei tempi, come l’ingresso della tramvia o l’arrivo dell’automobile, mentre in Giappone sia palese l’intento di fissare l’epoca che fu e condensarla addirittura nei suoi delicati colori per futura memoria o per omaggio, si vede come le considerazioni che possono nascere non si arrestano a fatti elementari.

Plausibilmente, con queste fotografie tinte a mano gli oscuri pennellatori nipponici hanno voluto consapevolmente comunicare una sorta di loro serena nostalgia. Assente nelle foto e cartoline dipinte della medesima epoca in Europa. Presente però ora in chi le possa rivedere stampate in qualche volume di raccolta o sull’internet. Sembra quasi essere accaduto questo: le nostre cartoline tinte a mano volevano a suo tempo documentare la grazia o il pittoresco di questo o quel paesaggio o architettura, ma oggi a rivederle suscitano nostalgia. Assente invero dalle intenzioni di chi aveva messo mano ai pennelli. 


Poscritto 

Non nego che le cartoline a colori tinte a mano mi incuriosiscano e nei casi più belli mi dilettino. Ammiro come opera d’arte il lavoro dei maestri nipponici di cui ho detto sopra ma non resto insensibile anche alla gaia teoria delle nostre viste pittoresche che spesso sfociano nella réclame da luogo termale. E ho voluto mettere alla prova la mia pratica di disegnatore e scarabocchiatore. Su di un volumetto che ho ricevuto delle architetture di Heinrich Tessenow, la cui carta non è patinata ergo non lucida, ed è costellato di belle fotografie degli anni venti e trenta ho voluto effettuare degli esperimenti di acquerugiole. 

Ad acquarello applicavo un velo tenue e se possibile tenuissimo di colore. Per le murature bruno con punte di giallo per schiarire, le piante in verde e con del giallo se il loro fondo sulla foto è troppo nero. Rosso e bruno per i tetti, un misto di bruno e nero per gli asfalti. Ho usato sempre un pennello molto sottile perché senza troppo esagerare nella cura dei dettagli non si deve comunque tralasciare un poca di precisione nei contorni. Ho verificato che non è necessario coprire tutti i particolari come finestre o lampioni ai quali il grigio della foto basta. Il cielo lo si tinge per ultimo, buon gusto, attenzione e pratica aiutano, con i toni del celeste più carico in alto per dare quota e chiaro in basso per dare profondità. La foto si può dire conduca da sé la nostra mano ed è difficile sbagliare. Per dare delle variazioni realistiche e belle al cielo si può applicare del rosa tenuissimo in basso o del giallo altrettanto tenue sempre in basso dove l’atmosfera sfiora i tetti o le cime arboree. 

Devo dire che le mie acquerugiole mi danno ancora diletto: il volumetto, la cui carta è quasi ingiallita, sembra ora davvero un bell’esemplare a stampa d’epoca anni trenta pur essendo non poi così anziano. L’acquerugiola, molto tenue non ha mai trapassato la carta e quindi la parte retro delle pagine con foto non ne ha sofferto. Messo in pressione, dal volume è sparita ogni goffratura della carta prima bagnata. Come si vede pochi sono i colori necessari, blu, giallo, verde, rosso, bruno, rosa e bianco. 


Poscritto secondo

Una storia della rappresentazione figurativa si avvia all’incirca dalle primordiali pitture rupestri delle grotte di Lascaux e prosegue per stadi attraverso tutta la pittura e il disegno e sembra quasi vedere un termine intorno al 1839, quando in Francia si inventò la fotografia. In quel momento la rappresentazione usciva dalla mano dell’artefice che fino ad allora si era servita di utensili elementari quali lapis, pennello e colore per inoltrarsi nel dominio tecnico dell’ottica e della chimica. Vi fu chi paventò la morte della pittura, che non avvenne, così come non morì il teatro all’avvento del cinematografo. Ma un cambiamento in senso lato avveniva: la rappresentazione figurativa diveniva con la foto apparentemente più oggettiva dato che in essa la mano del disegnatore e poi dell’incisore non interveniva più direttamente sul segno come era avvenuto per millenni. 

Se si prosegue ancora ci accorgiamo che uno stadio ulteriore, che è poi l’ultimo di questa storia, lo si ha con l’introduzione, comune intorno al 1937, della pellicola a colori per la camera fotografica. A questo punto la rappresentazione è frutto d’una complicata e ingegnosa collezione di tecniche, ottica e meccanica di finissima precisione e chimica. Il disegnatore e pittore si ritrae del tutto e la sua mano si riduce a puntare con l’occhio un obiettivo e con il dito a scattare l’immagine. Le ulteriori evoluzioni elettroniche della camera fotografica con lo schermo sono da un punto di vista di millenni le variazioni minori d’uno stadio già concluso con la pellicola a colori. Possiamo dire che le cartoline tinte a mano di cui sopra rappresentino l’estrema nostalgia e l’ultimissimo tocco della mano che crea ma pure interpreta ciò che vede entro un quadro, la foto, già tracciato dall’oggettività ottica e chimica. 

Un poco come gli ultimi navigli che inalberavano ancora delle sparute vele raramente o quasi mai spiegate al vento perché erano mossi dalle poderose macchine a vapore o a nafta. Le vele servivano più a dare il quadro rassicurante d’una memoria passata che non di vero ausilio di navigazione qualora le macchine fossero andate in avaria. Idem per le cartoline: esse vogliono dare un’idea, appunto “pittoresca”, del paesaggio o delle architetture. Lievemente diverso il caso nipponico delle foto tinte: per la loro bellezza siamo di fronte al crearsi di un’arte autonoma, ispirata dalle visioni di Hiroshige e imitativa di esse. Connubio di obiettività dovuta ad una macchina e tocco poetico della mano esperta che non si sente sopraffatta da quella. Un avviso pratico: con un minimo di occhio attento e pure senza lente chiunque riesce a riconoscere nelle vecchie foto o cartoline che appaiono sui volumi o sull’internet se queste sono impressionate su pellicola a colori o tinte a mano. Le prime non mostrano mai sbavature né hanno quel caratteristico manto di colore senza trasparenza che si usa nelle seconde per smorzare le macchie troppo nere di zone d’ombra o di intrecci di fronde negli alberi.


Poscritto ultimo

Il detto latino repetita juvant si prolunga nel germanico Űbung macht den Meister, “l’esercizio fa il maestro”. Li applico alla lettera e dopo la coloritura delle architetture di Tessenow voglio vedere se mi si conferma il bell’effetto della fotografia acquerellata. Ho trovato nella minuscola biblioteca della stamberga un fascicolo dalla copertina sbrecciata, e però irto di antiche fotografie che paiono essere l’esemplificazione perfetta dell’aggettivo pittoresco. Rappresentano i luoghi d’obbligo da visitare, le viste più classiche dello sperso municipio medievale di Gavinana Pistoiese, un paesino aggrappato su di una costa ridente dell’Appennino che dopo il passo dell’Oppio digrada lungo la Val di Lima per affiancarsi al Serchio e scendere verso la pianura di Lucca. 

Piazza Ferrucci, Gavinana Pse

Le immagini della vetusta pieve in pietra grigia, della casa patrizia detta palazzo Achilli, il panorama dei tetti vegliati dal campanile in vista della valle del Limestre, le casupole del castello e il metato mi danno l’estro di esercitare le acquerugiole colorate. Il crine e le setole dei due pennelli transitano ora le tinte sul panorama della montagna pistoiese dopo essersi indugiati sulla severa architettura della Neue Wache incorniciata dai tigli della Unter den Linden berlinese. Vale di rammentare che l’edificio del corpo di guardia disegnato dallo Schinkel era stato all’interno riadattato magistralmente dal Tessenow nel 1930 per farne un monumento ai caduti della prima guerra mondiale. Scorrendo il velo tenue del bruno rugginoso sui tetti del ridente municipio montano, sono obliate, con le atmosfere storiche della capitale sulla Sprea, anche le patate volute da Federico il Grande  per nutrire i poveri sudditi provati dalle lunghe guerre e la fantasia si volta ora ai fasti della sfortunata ed eroica ultima battaglia del Ferrucci e alle castagne che, come le patate prussiane, hanno nutrito i bravi sudditi di questi rilievi di confine della repubblica fiorentina e dipoi del granducato asburgico e lorenese. 

Gavinana pare sia, tra l’altro, il luogo d’origine dei necci, le delicatissime e dolci focacce preparate con farina di castagne, sale e acqua, che vengono farcite di ricotta e poi arrotolate come cannòli. Dei bliny appenninici che come quelli russi adombrano per forma e tinte un’offerta al Sole. Dei circoli d’un bel bruno rosato i necci e gialli bruniti i bliny, per questa diversità di colore paiono entrambi volersi spartire le ore nelle quali eseguire il ghiotto rito solare. Ma qui mi arresto e torno all’argomento: il secondo esito delle acquerugiole colorate è stato davvero superiore all’attesa e l’antiquato fascicolo pistoiese colle sue ampie fotografie, adesso policrome, aumenta a due la collezione di stampe dilettevoli della stamberga.



Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.