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Apollinea drammaticità

Il quadro con il quadrato nero di Kasimir Malevič

Arthur Schopenhauer, nella sua filosofia, pone l’arte quale una delle possibilità date all’intuizione per avere una risposta, sia pure solo implicita, alle domande: che cos’è il mondo? e cos’è la vita?

di Piccolo da Chioggia

Il quadro con il quadrato nero di Kasimir Malevič

Non è inutile guardare il famoso quadro con il quadrato nero di Kasimir Malevič da un punto di vista inusuale. Ed è quanto mi auguravo in uno scritto precedente apparso su questa rivista. Procedo per frammenti secondo un modo dovuto alla mia formazione sul campo, dato che la mia intuizione si àncora, più che alle suggestioni provenienti dallo studio, al fatto del contemplare il quadro ed alla conseguente indagine, effettuata il più a freddo possibile, delle impressioni che ricevo da quest’opera pittorica e le correlazioni che, da essa suscitate, mi pare di intravedere. Così descrivo il quadro nella sua immediata parvenza: il quadrato nero campeggia centrale sulla tela, di forma quadra anch’essa e tinta in un bianco assoluto ed elementare. La figura tetragona è ampia e lascia, al bianco, un margine, che dirò anche cornice o corona, ridotto ad un ottavo circa del lato intero del quadro. Di qui si ha che tale lato, lungo ottanta centimetri, risulta pari a un lato del quadrato nero aggiunto d’un quarto dello stesso. La figura nera è tracciata con cura attenta della posizione e della regolarità del disegno, che traspaiono pure se non si dovesse aggiungere che traccia e pennellate di colore sono dovute solo alla mano di Malevič e senza che vi sia stato l’uso di squadre o righe. Il dipinto mostra così, per sua costruzione, tre coppie di contrari che allo stesso tempo risultano complementari e costituiscono l’unità del quadro: i primi termini delle coppie sono bianco, concavo, in margine ai quali si associano nero, convesso, centrale. Il nero si oppone al bianco, ciò che è in margine a quanto è centrale, il concavo al convesso. O, se si legge all’inverso, il bianco è opposto al nero e via di seguito.

Una prima constatazione può essere la seguente: il quadro ha una parvenza di apollinea drammaticità e suscita impressioni che vedono l’arte astratta farsi complemento di enti o concetti tratti dalla filosofia. La drammaticità si palesa nel quadro per l’aspetto denso di insondabili presagi che si immaginano racchiusi nel quadrato nero. Questo però è raccolto entro la cornice del candore che ne pone in risalto la forma pura. Se agli insondabili presagi racchiusi nel nero tetragono associamo, come di fatto naturale, una sorta di Caos, ecco che quest’ultimo è del tutto assorbito nel color nero, e la parvenza finale che si presenta all’occhio dell’osservatore è quella di una composizione, sia pure severa e, volendo, inquieta ma, lo stesso, ordinata. Ciò che rende ragione del perché la drammaticità ch’essa può suggerire sia, in fondo, apollinea.

Se si rammenta che nella filosofia di Kant si arrivava ad un riassunto della realtà intelligibile nella dualità complementare di”parvenza”, in tedesco die Erscheinung, ovvero ciò che è visibile ed esistente, e “cosa in se”, in tedesco das Ding an sich, ovvero quel qualcosa di irraggiungibile, di inesprimibile, vera radice ultima e inafferrabile della parvenza, abbiamo che nel quadro del maestro russo si può vedere mirabilmente riassunta questa dualità di parvenza e cosa in sé che alberga ogni cosa che ci appare. Il segno che può rappresentare in generale la “parvenza”, ovvero ciò che a noi appare in forma ben definita sulla quale possiamo esercitare le nostre classificazioni sia dunque il quadrato nero, nitido nella sua assoluta semplicità. La bianca corona d’intorno allora non può che rappresentare l’inafferrabilità della “cosa in sé”, il nucleo insondabile della “parvenza”. Si può certo sorridere di questa sorta di applicazione della filosofia a dei segni pittorici ma in fondo non si è fatto altro che prendere in termini espliciti la massima di Jules Lagneau che avverte: la philosophie n’est autre chose que l’effort de l’esprit pour se rendre compte de l’évidence, ovvero “la filosofia è null’altro che lo sforzo dello spirito di rendersi conto dell’evidenza”. L’evidenza è qui rappresentata da un’opera d’arte non comune e non semplicemente figurativa.

Seppur elementare nella composizione il quadro di Malevič appare come un enigma che necessiti di una qualche fatica per chiarire l’interesse che esso da molto tempo suscita. D’altra parte questa fatica non contrasta con ciò che è statuito dalla tradizione classica: vi è un’armonia nel dipinto che arriva alla nostra intuizione, e questo fatto ci forza ad un riflettere conforme all’inesausto ammonimento di Quintiliano, docti artis rationem, indocti voluptatem intelligunt, “gli intelligenti dell’arte ne intendono il senno, gli indotti ne intendono il diletto. 

Arthur Schopenhauer, nella sua filosofia, pone l’arte quale una delle possibilità date all’intuizione per avere una risposta, sia pure solo implicita, alle domande: che cos’è il mondo? e cos’è la vita? Alla prima domanda il Germanico risponde che il mondo è volontà e rappresentazione, Wille e Vorstellung. Der Wille è la cieca volontà irrazionale ed insondabile che tutto muove, comprese le nostre vite, e che in tedesco assume genere maschile. La si può tradurre in forma poetica e aderente al genere del dettato tedesco come “il volere” o “il possente volere”, l’ente che conduce il cosmo e tutti gli esseri e che può, nel quadro, trovare il suo riverbero nel bianco, ovvero nel candore elementare dell’albeggio che circonda il quadrato nero. Se è strano che si identifichi nel candore della corona a margine una cieca volontà irrazionale si ponga allora tale quesito: è sicuro che questo Wille sia del tutto cieco? O, posto in altri termini, è sicuro che non vi sia un qualcosa in esso “volere” di immanente e al tempo stesso del tutto distaccato, un Supremo Controllore, come è nelle metafisiche indiane il saguna Brahma, l’entità immanente alla grande rappresentazione, ed il nirguna Brahma, l’ente al di là del cosmo manifesto, che a noi risulta insondabile, ma ciò solo per le ragioni inerenti al nostro limitato intelletto? 

Un Ente al quale il Tutto appare nella sua chiarità e al cospetto del quale le nostre imperfette attribuzioni di razionale ed irrazionale cedono. Al lume di questa considerazione non pare inappropriato vedere nella corona bianca una figurazione che adombri il Wille. E il quadrato nero può figurare la Vorstellung, che in tedesco è di genere femminile, la “rappresentazione” che riassume in un frammento tetragono l’apparire del mondo condotto dal fluire del Wille.  Quest’ultimo, in quanto “volontà” elementare si può pure identificare con l’apeiron, l’”illimitato” che destava l’inquietudine dell’antico Elleno.  La Vorstellung, o “rappresentazione” è anche la “forma”, il péras ellenico, ovvero ciò che ha i contorni nitidi, che è chiaramente delimitato, cui corrisponde l’elemento”apollineo” della filosofia di Nietzsche. In una qualsiasi opera d’arte è la potente e felice fusione dell’elementare ed illimitato più puro con la forma più chiara a determinarne l’esemplarità secondo l’ideale classico. L’ammirazione destata in chi contempla il quadro del quadrato nero non appare dunque priva di ragioni. L’”illimitato” appare qui nella candida cornice dove il guardo ha la sua fuga verso ciò che non ha termine: “l’infinito bianco suprematista permette al raggio della vista di procedere senza incontrare un limite”. Il quadrato nero è la “forma”, la figura dal contorno nitido, chiaramente delimitato. 

Vi è un’opera di filosofia dell’ellenista Carlo Diano che porta il titolo di “Forma ed evento”. In essa i due termini del titolo adombrano pure una possibile classificazione utile allo studio delle parvenze nell’arte. Associamo la bella composizione in diade ai segni visibili nel quadro: il quadrato nero è, nel quadro, la prima “forma” distinguibile, quasi l’eidòs degli Elleni. Esso tende a rappresentare tutto il quadro, e infatti lascia solo a residuo una sottile corona candida. Tuttavia per fare di una figura una “forma” vi è la necessità di un “evento” che lasci detta forma arrivare ovvero risaltare all’occhio dell’osservatore. La cornice candida nel bianco infinito suprematista diviene allora l’”evento”, l’id quod cuique evenit hic et nunc, che è come il lampo che d’un tratto nella notte, quando le nubi velano le stelle e tutto pare ravvolto nel mantello più cupo possibile, illumina sia pure per un istante brevissimo tutto un paesaggio. L’”evento” lo possiamo immaginare come il lampo mentale, quell’intuizione che ci permette di riconoscere nella sua integrità la “forma” o la “rappresentazione” di un tutto che altrimenti percepiamo incompleto e mai ben definito. La diade di Carlo Diano può articolarsi ulteriormente al cospetto del quadro con il quadrato nero: una vera forma, quando è vivente, crea degli esseri capaci di ammirarla quale loro evento. Se così non fosse, più che una forma essa sarebbe un simulacro inerte impossibilitato a generare ovvero a divenire a sua volta “evento”. Sono incline a credere che nell’istante in cui il quadro del quadrato nero desti effettivo interesse, reale contemplazione, pure se costretto nel suo museo o in effigie nelle pagine dei libri d’arte esso sia forma vivente. A ciò si riferisce plausibilmente e sia pure in termini generici Kasimir Malevič quando scrive: il quadrato è un vivo infante reale.  

Poscritto 

Avevo immaginato d’un tratto questa forma tetragona ad ornamento della vela d’una nave antica, la nave a due prore dei Rus’. In un rapido scarabocchio ne avevo dato figurazione prospettica in un paesaggio del tutto ispirato a quei dipinti del Roerich dove si rivive l’avventura dei Vareghi che sono all’origine della vetusta prima Rus’. Ora, rammento una sentenza del filosofo Jules Lagneau che statuisce: le corps est dans l’esprit. La volto così: “il corpo è immerso nello spirito”. Nello scarabocchio il quadrato nero mi appare come un’allegoria della sentenza del Francese.

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