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Una trama scheletrica di avvenimenti

Serve a qualcosa la poesia?

Ricordo una volta che mi sono trovato sul viale che da Bolgheri porta a San Guido...

di Piccolo da Chioggia

Serve a qualcosa la poesia?

Ricordo una volta che mi sono trovato sul viale che da Bolgheri porta a San Guido...

La poesia ha qualità di radicarsi nella nostra debole memoria in misura maggiore della prosa. Lungo le nottate sui libri prima d’un esame abbiamo faticato a collezionare capitoli di medicina, paragrafi e glosse del diritto, storie della letteratura e formule matematiche per accorgerci che, superato l’esame, conclusa l’interrogazione, molte delle cognizioni stivate nella memoria se ne erano sparite. Come quegli elementi materiali della fisica che per effetto del calore dallo stato solido sublimano allo stato aereo e scompaiono. Abbiamo letti, dei prosatori, i romanzi che ci hanno transitato con arte ammirabile entro le temperie a noi lontane della storia e in lande di altrove, Francia, isole Britanniche, Russia zarista, e dei quali possiamo rammentare la trama del racconto, le descrizioni di paesaggi ed ambienti, e le avventure così verosimili che ci pare d’averle vissute noi stessi. Ma chiaramente molte pagine di queste opere, una volta lette e pure rilette sublimano dalla nostra memoria lasciando dietro di sé, a ricordo, solo una trama scheletrica di avvenimenti.

 

Tempo addietro, erano gli anni del secondo dopoguerra in una Germania di rovine, venne posto il seguente quesito a Gottfried Benn: “soll die Dichtung das Leben bessern? ”, deve la poesia render migliore la vita?, al quale il poeta di “mondo dorico”, rispondeva alla radio di Colonia con una, a lui consueta, fine ironia. Il quesito vale ancora. Plausibile è che esso sia di quella sostanza che è perenne. In queste poche linee alcune riflessioni si aggiungono a quelle d’un lettore non precipitoso nello scorrere i caratteri della scrittura, che si sia indugiato immediatamente, letta la forma del quesito, e abbia avviato la sua riflessione individuale. Un lettore lento e ponderato dunque. Quello per il quale qui si scrive. La poesia per aver effetto durevole deve essere, più che letta, fissata nella memoria. Recitarla a voce in proprio aiuta in massimo grado perché il suono spesso è indelebile nel ricordo. Voci e musiche ne sono prova nell’esperienza quotidiana. In tal senso era più che giustificata la consuetudine della scuola elementare di un tempo di far imparare agli alunni le raffinate armonie linguistiche del Pascoli come l’avvio del poemetto dedicato alla sera

 

Il giorno fu pieno di lampi

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre gre di ranelle,

le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggera,

di giorno che lampi che scoppi,

che pace la sera.

 

Alternate con le rime semplici di Angiolo Silvio Novaro in questa impressione dell’alba vista dal ponente di Diano Marina 

 

quando al poggiuolo appaia                                                                                                    

l’aurora mattiniera

il gallo che su l’aja dormì la notte nera

si sveglia e canta   

 

Per la catena usuale dell’abitudine si rammenta il nome di Novaro ma lo si associa solo alle filastrocche. Pure se scampano all’oblìo molti suoi versi quali quelli della pioggerellina di marzo o il denso suo poemetto dedicato a Eugenio Montale

 

Si dice, Eugenio, che non hai saputo

guardare oltre la muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Per me quell'OLTRE tu l'hai percepito

l'hai collocato nel luogo sconosciuto

dove vapora la vita quale essenza.

Ora che vivi tra bionde trasparenze

il tuo messaggio sul futuro si è chiarito.

Non mostreremo più

agli azzurri specchianti del cielo

l'ansietà del volto giallino.

Vivremo un nuovo destino

come fiori impazziti di luce.

 

Ma al quesito se la poesia dunque deve render migliore la vita non è possibile qui dare lumi dato che si dovrebbe allora intendere ogni sfumatura dell’ironia già palesata da Benn nella sua risposta, e il compito non è semplice. Di sicuro si può dire che la poesia in qualche caso particolare propizia la salvezza da un abbattimento che può rivelarsi fatale e senza ritorno.

 

In un volumetto del professor Franco Volpi, dedicato alla filosofia piuttosto nebulosa del tedesco Heidegger, vi era, alla fine dei capitoli dell’opera, tutta una serie di note irte di dottissimi riferimenti: tra questi delle sentenze di filosofi francesi del XVII secolo come credo di rammentare e, in fondo, una cronaca che si è subito rivelata decisiva per la mia attenzione. Verso gli ultimi decenni del secolo passato il professor Volpi si mise in contatto con un suo collega germanico, tal professor Morsch o Mors, e qui forse sovrappongo un nome non nitido alla mia memoria con il nome chiarissimo del maggiore dei paracadutisti che ideò la strabiliante impresa di Campo Imperatore, il quale era stato un allievo del grande filosofo di “essere e tempo”, uno dei pochi ad entrare in una relativa confidenza con il maestro e a conquistarne la non facile stima. Il giovane studente di filosofia veniva travolto dal turbine della guerra e si trovava con la divisa d’un esercito che da invasore diviene travolto dai difensori in Russia. Venne preso prigioniero dai Sovietici, lungo l’ultimo anno della tragedia e inviato in un campo di raccolta. Nella cronaca il professor Volpi raccontava che il suo collega gli scrisse che a tenerlo in vita nella disperazione, nella solitudine, nel distacco, nella dura fatica quotidiana del prigioniero furono le poesie di Rilke recitate a memoria. Questo il punto che mi era rimasto nella mente e che è in effetti suggestivo e denso di possibili riflessioni. Essere tenuto in vita dal recitare a memoria le poesie di Rilke.

 

Sono ritornato or è poco nella biblioteca pubblica dove avevo distrattamente sfogliato il volumetto. Non ne rammentavo il titolo ma sapendo che trattava del filosofo che ha reso in teoria la nostra Geworfenheit, il nostro esser “gettati” incontro al fato, il bibliotecario non tardava a rendermelo in mano. Potevo così ritrovare il nome dell’allievo di Heidegger: era costui il professor Hermann Mörchen. Potevo anche fissare nella memoria il passo preciso nel quale Volpi riferisce le parole con le quali il collega germanico gli aveva trasmesso il senso di tutta una difficile esperienza: il suo caso individuale di lancio incontro agli agenti del fato.  Che qui ritrascrivo: “mi tennero in vita le poesie di Rilke che recitavo a memoria, e i biglietti che Heidegger mi scrisse.”

 

Rifletto sul senno immediato delle parole del soldato prigioniero e filosofo e mi si conferma il fatto che se la poesia non sappiamo in che modo o misura migliori la vita, certo la memoria precisa di essa, la sua musica, le sue immagini possono rivelarsi decisive lungo la nostra navigazione in acque assai procellose e infide. Mörchen nomina pure i biglietti del suo maestro. Sarebbe interessante qui poterli leggere o saper di più sul senso contenuto in essi. Non credo che la filosofia vi facesse capo inalberata sulle volute del lungo e spesso per me illeggibile e astruso periodare del grande di Freiburg. Forse non sono distante dal vero se ritengo che il geniale maestro vi allegasse piuttosto qualche sentenza mistica. Tratta dalle poesie di Hölderlin o maturata lungo le sue passeggiate negli holzwege, i sentieri in ombra dei boschi.

 

Ma ho voluto andar un poco a fondo pur con i modesti mezzi della mia stamberga rustica e su di una pagina dell’internet germanico riuscivo, con il nome di Mörchen a trovare da fonte tedesca la cronaca che qui di seguito riporto tradotta: durante la prigionia nel lager di Petrosawodsk sul lago Onega nella Carelia russa, fu per Mörchen un inaspettato colpo di fortuna l’aver trovato nella gavetta un mozzicone di matita di circa quattro centimetri di lunghezza, caduto verosimilmente ad un cuoco nella marmitta del rancio. Era possibile, nel campo, anche trovare della carta da pacchi e questa fu dal prigioniero ritagliata in un formato agibile. Ciò che la prima sera Hermann Mörchen scrisse dopo il duro lavoro furono 17 sonetti di Rainer Maria Rilke che egli sapeva a memoria. Sui fogli si accumularono poi i commentari a queste poesie che però si persero nel gran suolo russo proprio alla vigilia dell’essere rilasciati dalla prigionia durata dal 1945 al 1948. Mörchen, nato nell’aprile del 1906 pubblicò nel 1958 i “Sonetti ad Orfeo” di Rilke a premessa dei quali scriveva di aver sperimentato come attraverso singole poesie si potessero coniugare, nelle ore più impensabili d’un’esistenza, gli stati della più estrema tensione, Angespanntheit, con il più soave distacco, Gelöstheit. E si convinse di esser sopravvissuto solo perché potè trar vigore da queste poesie. Se non fosse che questo racconto viene da due fonti lontane nel tempo e nel luogo geografico, le quali nella sostanza si confermano mutuamente, si potrebbe pensare di aver letto una favola.

 

Poscritto

È un quesito da porsi. Quello di saper cosa fare nel caso ci si trovasse nella prigionia come il professor Mörchen. La poesia ha qui un valore effettivo nel tener desta la volontà. Un aiuto venne dato dalla buona sorte di rinvenire un mozzicone di lapis entro la gavetta, ma il più era la memoria, così sveglia al punto di ricordare verso per verso i sonetti del grande poeta austriaco. Non finiremo mai di ringraziare quei bravi anni di puerizia nei quali ci eravamo abituati ad imparare i poemetti a memoria e quelle letture che ci hanno così impressionato da lasciare lapidarie frasi intere che siamo in grado di rammentare e riscrivere. Una massima di Nicolas Gomez Davila cade, ancor più lapidaria, a proposito: i poemi non sono scritti perché li si legga, ma perché li si ricordi.

 

Trascrivo qui ora i versi di un sonetto incompiuto

 

Quanta messe di sogni e di ricordi

Gin, infido licor,

veggo nel breve cerchio

onde il mio gusto mordi.

 

Oh dolci selve di ginepri rare

a cui nel grigio ottobre fischiano i tordi

lungo il patrio selvaggio urlante mare.

 

Lo avevo letto in una favilla dannunziana scritta in morte del Carducci e suoi sono questi versi. Singolare davvero l’itinerario che ha portato questo frammento ad imprimersi nella mia memoria. Nella favilla D’Annunzio rammentava un episodio avvenuto tanti e tanti avanti al febbraio del 1907 nella sede del giornale romano che albergava la cronaca bisantina, la rubrica giornalistica condotta dal poeta di Primo Vere. Era quella l’occasione del primo incontro fra i due poeti, il vecchio can maremmano e il D’Annunzio ancora poco più che adolescente. Quest’ultimo racconta di come i versi fossero stati scritti a carboncino sulla parete di mano dello stesso Carducci. E aggiunge una propria immagine difficile ad obliarsi: i versi sfondavano la parete e oltre si apriva il panorama della spiaggia, mosso dalle onde, agitato dal vento.

Ricordo una volta che mi sono trovato sul viale che da Bolgheri porta a San Guido. Il tratto rettilineo sale lungo qualche chilometro ombreggiato dai cipressi in duplice filare e divide una campagna in leggero declivio costellata da alberi d’olivo disposti in bell’ordine. Il capolinea del viale è leggermente in alto rispetto all’ingresso che si ha provenendo dalla strada litoranea, la via Aurelia, cui scorre parallela la linea ferroviaria. Una pieve ed alcune case creano la località. I mattoni rossi dei piccoli edifici e della pieve si compongono al verde grigio e celeste delle foglie degli olivi che stanno d’intorno ed al giallo bruno del suolo di sterpaglie. Mi ero inoltrato proprio nel bosco di olivi prossimo alle case quando d’un tratto mi accorgevo, guardando ad occidente, quindi verso il litorale, delle lunghe catenarie di onde marine che si rincorrevano senza sosta increspandosi nel bianco della schiuma. Nel silenzio del tardo pomeriggio si udiva distintamente lo scroscio dei cavalloni. Posso dire di aver abbracciato in quell’istante, in una sola visione alcune delle più belle immagini dei poemi del Carducci. Lontano digradando con lo sguardo fra gli olivi il patrio selvaggio urlante mare, prossimo, sulla mia destra il duplice filare dei giganti alti e giovinetti, i cipressi, che scendeva rettilineo verso la via Aurelia. Questa visione composta si potrebbe dire quasi da un tema, il mare, e da una fuga, la teoria dei cipressi mi resta indelebile credo proprio in virtù della poesia che ne ha estratto l’essenza e la riassume in ogni istante che la si rammenti.

Ancora dunque mi rendo conto della potenza della poesia. Resta comunque sempre posto il quesito d’inizio di questo poscritto: cosa fare, come sopravvivere temprando la “volontà” nel caso ci si trovasse nelle condizioni della prigionia come successo al professor Mörchen? Questi aveva la buona sorte d’una memoria sveglia che gli aveva fatto rammentare e riscrivere i sonetti del Rilke. Ma se noi non li conosciamo? Quali altre poesie riscriveremo? Ne comporremo di nostre per sopravvivere? Il quesito non è di facile risposta.

Allego a queste linee il frammento d’un Minnesang del poeta medievale tedesco Heinrich von Morungen, uno dei migliori della schiera capitanata da Walther von der Vogelweide

mich entzündet ir vil lichter ougen schîn

same daz fiur den dürren zunder tuot

 

mi incendia la tanta luce dei vostri occhi

e fa come il fuoco che accende i legni asciutti

 

ho voltato semplicemente le impressioni e non certo tradotto fedelmente. Nel caso ci si trovasse nelle condizioni vissute dal professor Mörchen possono bastare anche semplici frammenti? Collezionandoli tutti non è detto che si scriva un lungo poema, abbiamo però una lunga teoria di immagini belle che possono aiutare la “volontà”, qui non più solo di vivere ma di sopravvivere.

 

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da ghorio il 09/07/2014 18:03:17

    Ho apprezzato particolarmente questo bell'articolo di Piccolo da Chioggia. Effettivamente la poesia si radica nella nostra memoria e molto più della prosa. Non conosco in modo approfondito la letteratura tedesca e le citazioni dell'autore mi colgono impreparato. Una cosa è certa: lo studio a memoria delle poesie che ha caratterizzato , per lunghi anni, la scuola italica , è stato sicuramente positivo, vale per i versi di Carducci, di Pascoli, di D'Annunzio o di Foscolo. Per quanto mi riguarda infatti mi esalto ogni volta che cito gli ultimi endecasillabe de "I Sepolchri" con la figura di Ettore immortalata "finchè il sole splenderà sulle sciagure umane".

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