Editoriale

Magris, l'Europa, e le ragioni di un fallimento

Geografia incerta, cultura comune, ma non solo, individualismo equivocato

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

n queste ore, l’Europa fa da protagonista sui media: era prevedibile. Fra i tanti interventi, tuttavia, ce n’è uno che mi induce a ritornare sull’argomento, ed è quello pubblicato come editoriale a firma di Claudio Magris sul “Corriere della Sera” di domenica 25. L’Autore s’interroga sulla natura dell’ ”entità Europa” e, in un lungo e argomentato articolo, si diffonde su tre aspetti – quello geografico, quello politico, quello culturale – che dovrebbero concorrere ad una soddisfacente definizione, sulla cui opportunità tutti possiamo convenire, a partire dalla parafrasi fatta da Magris di un’espressione di Sant’Agostino a proposito del tempo: “… quando non ci si chiede cosa sia, si sa cos’è, ma quando lo si domanda, non lo si sa più”.

Magris procede ponendo l’accento sulla cultura, comune pur nelle spiccate diversità, individuandone in particolare la componente peculiare, il cui filo rosso ravvisa nell’atavico rispetto per l’individuo. Su questo punto sento di esprimere il mio dissenso, e ci tornerò; intanto, non mi sembra fuor di luogo sottolineare che, fra le difficoltà che incontra il processo di unificazione, quella di natura geografica appare come la più trascurata. 

L’Europa come espressione geografica: va bene, ma quali ne sono i confini? L’Inghilterra ne fa parte? La Russia è di certo europea, fino agli Urali, ma la sua immensa parte asiatica, come va considerata? E la Turchia, anch’essa per gran parte asiatica, non è forse al centro di una “vexata quaestio” concernente la sua ammissione all’Unione Europea?

Come si vede, anche l’approccio che potrebbe sembrare il più semplice, quello naturalistico e fisico, comprende criticità dai non trascurabili risvolti politici e culturali, ancor prima che economici o monetari. 

Quanto alla politica, mentre condivido i rilievi critici di Claudio Magris circa la “frettolosità” dell’ammissione di alcuni Stati nell’Unione, non credo si possano sottovalutare le difficoltà che comunque si sarebbero incontrate e che ora, a mio avviso, sono, almeno nel breve-medio periodo, insormontabili. 

Qui non è il caso di avviare una cavalcata nel corso dei millenni della nostra storia comune; credo però si possano dare per accettati alcuni punti fondanti nella costruzione di uno Stato Federale, senza voler stilare una graduatoria d’importanza: intanto, una costante è costituita dall’uso di una lingua comune, che si sovrappone alla persistenza di una varietà di lingue e perfino di dialetti locali; altro pilastro dell’unità è costituito dall’adozione di codici anch’essi comuni, che, ancora una volta, si sovrappongono e si conciliano con le usanze locali; l’unità delle credenze religiose e dei culti – magari nella diversità delle confessioni – è stato un altro dei coefficienti unificanti, pur essendo spesso anche fattore di contrasti; ancora, anche se Magris non ne parla: i criteri di imposizione fiscale, un esercito comune, una diplomazia unica e univoca; infine, anche l’unificazione monetaria ha avuto un ruolo importante per l’edificazione di strutture politiche unitarie, non solo nella disciplina dei traffici, ma anche come elemento dal forte valore simbolico. 

Senza dimenticare che, quando si è trattato di governare tante diversità, è stato indispensabile assicurare un potere centrale forte e autorevole…

Basterà fare un raffronto, sia pure a volo d’uccello, con altre realtà federali della storia – gli Stati Uniti d’America, l’Impero romano e quello austro-ungarico, l’impero Ottomano, ad esempio – per capire quanto siamo lontani dal costituire un credibile soggetto politico; al punto da far assomigliare in maniera preoccupante a un’utopia la costruzione del “soggetto politico Europa” e, per tornare alle nostre “piccole cose”, da indurre un senso di frustrazione nel cittadino chiamato a votare per istituzioni comunitarie essenzialmente figlie – ad esser generosi – di una concezione riduttivamente monetaria dell’Europa.

E veniamo alla cultura.  Molto ci sarebbe da dire al riguardo, sul percorso ideale e di civiltà che Magris ci indica con il suo consueto stile forbito e nutrito di sana erudizione; ma qui mi preme soltanto sottolineare che l’individualismo, a mio parere, non nasce nella e dalla Polis greca, non prolifera  nella “res publica” di Roma e meno che mai si alimenta dei valori in auge nella Cristianità medievale. 

Magris, ci sembra, sottovaluta il ruolo – ideale ma anche “quotidiano” – dei corpi intermedi, ai quali i singoli subordinavano le loro esistenze, dalla Polis, appunto, alla Famiglia, dalla “res publica” alla corporazione di arti e mestieri alla Chiesa, nelle sue varie articolazioni e declinazioni.

L’individualismo come degenerazione del rispetto della persona, fino agli estremi dell’odierno anarco-capitalismo, giustamente condannati da Magris, nasce con le speculazioni filosofiche dei Lumi e si afferma con la cultura veicolata dalla Rivoluzione americana prima, francese poi.

Quanta subordinazione vi fosse poi dello Stato verso l’individuo nelle rivoluzione novecentesche – quella bolscevica, quella fascista, quella nazionalsocialista – e, più in generale, nell’avvento dell’uomo-massa, lascio giudicare al Lettore. 

E dispiace che l’Autore non abbia ricordato, nel citare il “Welfare State” come creazione dello spirito europeo, il ruolo decisivo svolto dal Fascismo in questo campo; così come dispiace che, nella giusta tutela e memoria del diritto naturale, Magris abbia citato due estremi, dalla “Antigone” di Sofocle alla “Disobbedienza civile” di Henry David Thoreau, senza spendere una parola per le speculazioni, in materia, di gesuiti come Francisco Suarez.

Tutto questo per ricordare come l’Europa sia una realtà che affonda nei nostri miti ancestrali e che, nel corso della sua lunghissima storia, ha partorito idee e figure dove spesso la parte “angelica” si è mescolata con quella “diabolica” e che quindi – come sempre – si tratta di scegliere il filo di Arianna (ce n’è più d’uno, davanti a noi!) per tentare di uscire dal travagliato labirinto nel quale ci siamo cacciati. Questa è la politica nel senso più nobile del termine, l’unico per il quale vale la pena di vivere e di combattere battaglie di civiltà.

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.