Editoriale

Riflessioni di una generazione che ha perso

Dissolta la destra radicale e moderata, un lento declino che per ora non vede la fine

Claudio Tedeschi

di Claudio Tedeschi

Direttore de «il Borghese»

a mia generazione, nata tra il 1945 ed il 1955, è figlia di una guerra perduta. Anzi due, quella militare e quella civile. Figlio di un «repubblichino», combattente della Decima Mas, e poi giornalista «schierato», sono cresciuto a pane e politica. Come me tanti altri ragazzi e ragazze. Negli anni ‘60, in molti si avvicinarono alle prime associazioni della destra politica, dal Raggruppamento giovanile studenti lavoratori al Fuan (studenti universitari), alla Giovane Italia (che raccoglieva le adesioni fra gli studenti delle medie). Ai primi degli anni '70, tutte queste realtà confluirono nel Fronte della Gioventù, organo ufficiale giovanile del Msi.

La destra italiana lavorava e studiava, in preparazione di quando «sarebbe toccato a noi». La vita delle sezioni era un ribollire di idee, ciclostilati, incontri, libri divorati sotto la «guida» dei maitres à penser di quel tempo. Lo spartiacque fu il '68, gli scontri all'Università di Roma e Milano, l'iniziale confluenza di idee e programmi tra una parte della gioventù «di destra» e quella «di sinistra». A fronte di questa collusione politica, si ha la presa di posizione del Msi, partito ormai integrato nella «repubblica parlamentare nata dalla resistenza». Michelini e Almirante ordineranno lo sgombero delle aule occupate, portando allo scontro tra «camerati» e «compagni», e tra «figli della borghesia» (studenti) e «figli del popolo» (poliziotti). Fatto reso celebre dall’articolo di Pasolini sul Corriere della Sera.

Anni ‘70. Anni di piombo. Sezioni attaccate. I primi morti. Eppure, anche se ormai adulti (qualcuno si era laureato ed aveva il primo lavoro), continuavamo a credere che «il domani» ci appartenesse. Leggevamo i nomi dei nostri morti, uccisi dalle Forze dell’Ordine o dal terrorismo comunista, ed il nostro desiderio di battersi in nome di quello che avevamo imparato a casa e nelle sezioni, si acuiva, invece di affievolirsi.

La prima incrinatura si ebbe nel 1987, quando al Congresso di Sorrento, un vecchio e malato Almirante impose al partito Gianfranco Fini, come segretario del Msi. Carica che conserverà fino all'Assemblea di Fiuggi, a parte la parentesi rautiana del 1990/'91. Da quel momento inizia, per noi che non avevamo più vent'anni, il declino.

Tangentopoli. La magistratura «rivoluziona» il Paese, eliminando fisicamente i partiti dell’arco costituzionale. Si salva il Pci, il più grosso partito di opposizione che per decenni aveva ricevuto finanziamenti illeciti dall'Urss, principale potenza avversaria delle democrazie occidentali. Così come il pool di Mani Pulite colpì pochi fra imprenditori e grandi industriali, tralasciando soprattutto quelli iscritti al club dei «poteri forti», a cominciare dagli Agnelli, dai De Benedetti e da alcuni grandi boiardi di Stato dell'Iri.

Muore la prima Repubblica, e nel vuoto politico venutosi a creare si inserisce a sorpresa Berlusconi. Non il favorito Occhetto, né qualche altro sopravvissuto della mattanza giudiziaria. Inizia così la commedia degli equivoci durata fino ad oggi.

Berlusconi crea Forza Italia, piena fino all’orlo di ex della prima repubblica, ma cerca di portarsi dentro anche una forza di destra (!) uscita indenne da Mani Pulite, non per non aver rubato ma per non averne avuto la possibilità.

La fine del Msi a Fiuggi e la nascita di Alleanza nazionale porterà dentro il Palazzo uomini e donne che tutto faranno fuorché «qualcosa di destra».

Della mia generazione, coloro che avevano «creduto» e non erano riusciti ad entrare nel partito perché «pericolosi» in quanto onesti, rimasero tagliata fuori. Parafrasando Moretti, aspettavamo che qualcuno «dicesse una cosa di destra». Il culmine si raggiunse con il Porcellum del 2006, quando fu il Capo a decidere la vita o la morte «politica», portando dentro autisti e portaborse, fedeli perché mediocri come lui. Quando An governò, dalle Province ai Comuni, per paura di essere indicati come «fascisti» si adeguarono all'andazzo in essere. Aiuti ai «compagni» oppure agli amici di «lungo corso», salvo in molti casi fare le fortune di amanti e parenti delle amanti.

In questi ultimi tre anni, dal Governo Monti in poi, in Italia la «democrazia parlamentare» è finita nel cesso. Governi del Re, fino ad arrivare al potere nelle mani di un tribuno al soldo dei poteri forti. An è morta, in parte assorbita in FI, le altre «anime» disperse ai quattro venti.

Eppure per due volte una parte del Paese si era illusa.

Nel febbraio 2013, con il voto a Grillo. La risposta fu una chiusura a riccio della casta politica. Il risultato fu Letta e poi Renzi, contro i quali Grillo non seppe gestire l’enorme potere che il popolo gli aveva dato, dimenticando il concetto che il potere si distrugge entrandoci dentro.

A marzo, con l’elezione di Francesco. Pensammo che la Chiesa sarebbe scesa in campo contro il potere globale del denaro che strangola popoli e famiglie. Ad oggi, salvo quale atto mediatico, soltanto parole generiche.

Ieri l’Europa e l’euro erano la salvezza dell’Italia. Oggi, per un pugno di voti, hanno tutti rinnegato tre volte l’euro. Usando, tra l’altro, le parole che il Borghese ha scritto per anni.

Poi, in Europa, ha iniziato a soffiare un vento, nato dalle voci di milioni di persone, dai popoli sottoposti alla schiavitù di una moneta d’occupazione. E questo vento ha portato in giro la voce di una donna che afferma il diritto del popolo ad avere la sua moneta e la sua libertà. A riavere la sua «sovranità».

Noi, la «generazione perduta», non dobbiamo nulla a coloro che ci hanno tradito e aspettiamo che anche da noi soffi quel vento.

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