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Un gigante da ricordare

Enrico Falqui o la passione per le riviste

Autodidatta, ingegno raffinato segnò con discrezione e autorevolezza una parte importante del '900

di Ivan Buttignon

Enrico Falqui o la passione per le riviste

Enrico Falqui

Come il grande Benedetto Croce, Enrico Falqui è un rigoroso autodidatta. Nato nel 1901 a Frattamaggiore in provincia di Napoli da genitori sardi, si forma a Roma dove sbarca “la vita con fatica, tra libri riviste e giornali” e senza conseguire “alcun titolo accademico”[1]. Ed è proprio a Roma che esercita, com’egli ricorda, “bene o male, a torto o a diritto, la professione del critico letterario”.

Il successo arriva nel ’29, quando la rivista milanese “La Fiera letteraria”, fondata nel 1925 da Umberto Fracchia[2]passa le consegne alla nuova serie romana “L’Italia letteraria” sotto la direzione di Giovanni Battista Angioletti e di Curzio Malaparte. E’ il 7 aprile, e il ventottenne Falqui ne diventa redattore-capo. Assieme ad Angioletti decide di abbandonare gli standard mediatici seguiti dal progenitore “La Fiera Letteraria”, meramente informativi, da puro notiziario, e solo raramente critici. Si inventa un nuovo ruolo per la rivista: quello di favorire le evoluzioni nazionali ed europee della letteratura d’avanguardia novecentesca secondo un approccio di piena indipendenza di analisi e di ricerca[3].                      Enrico Falqui imprime un indirizzo tendenzialmente “rondista”, per certi aspetti disimpegnato politicamente. L’orientamento è tutto nel senso di un “richiamo all’ordine”, di neoclassicismo, di “prosa d'arte” tipici proprio della rivista “La Ronda”. L’originalità de “L’Italia letteraria” sta in una modernità che però è fedele alla tradizione[4].

La rivista si pone in toni di rispetto nei confronti delle idee altrui e di indiscussa serietà professionale[5].

Le ampie collaborazioni con altre riviste come “Quadrivio”, “Pégaso”, “Pan”, Primato o addirittura la frondista “Corrente” è l’ovvia conseguenza dell’approccio serio ed equilibrato.

Nel frattempo l’attività di Falqui segue un percorso antologista e bibliografico, partendo dal presupposto che l’antologia è “opera essenzialmente critica, dove tutto è dimostrato e affermato per esempi”.

Tant’è che si afferma nell’antologia della prosa scientifica italiana del ‘600 ma anche nello storico contributo alla rivalutazione del barocco in Italia.

Il lavoro maggiormente polemico in questo senso è Capitoli. Parla appunto dello svolgimento della prosa d’arte italiana, da D’Annunzio agli anni Trenta, secondo la specifica categoria letteraria del “capitolo”, che sostituisce le abituali denominazioni di “frammento”, “elzeviro”, “prosa evocativa”.

Nei suoi saggi Rosso di sera (Roma, 1935), La casa in piazza (Roma, 1936), Sintassi (Milano, 1936), Ricerche di stile (Firenze, 1939) campeggia un pensiero critico molto sottile, sempre letterario e mai strettamente politico.

Esemplare, ne La casa in piazza la feroce condanna nei confronti degli “sghignazzatori” intenti a “dileggiare Giuseppe Ungaretti e la sua sofferta poesia”. Oppure, nella sua raccolta Sintassi (1936), l’esame dettagliato di Poeti in camicia nera, Poeti del tempo di Mussolini, Poeti del nostro tempo, Antologia di poeti fascisti, in cui fioccano forti riserve nei confronti di “ogni produzione poetica in cui la politica faccia sentire troppo il suo peso”[6].

Il giudizio negativo rivolto ai poeti ufficiali del Ventennio dipende anzitutto dalla concezione rondista di Falqui. Concezione secondo cui l’arte dev’essere indipendente dalla politica.

Ma è una critica, questa, che viene rivolta anche alle esperienze passate (La Voce di Prezzolini) e poi a quelle che seguiranno l’esperienza fascista (avversione del neorealismo politicizzato della sinistra). “La Voce letteraria” (1914-1916) di Giuseppe De Robertis viene invece valorizzata[7]nel senso di una “riconquistata consapevolezza dell'autonomia artistica”[8].

La convergenza con Stracittà ben si coglie nel settimanale illustrato Quadrivio, luogo in cui si incontrano la cultura ufficiale fascista e il novecentismo bontempelliano. E’ qui che Falqui sviluppa, tra l’altro, i suoi ascendenti dannunziani (D’Annunzio e la cronologia, 26 settembre e 3 ottobre 1937; D’Annunzio e la “Contemplazione della morte”, 6 marzo 1938; D’Annunzio e noi, 23 ottobre 1938) e analizza le opere d’avanguardia, che affronta a colpi di recensione. Per esempio: Il palio dei buffi di Palazzeschi, Le chiavi nel pozzo e Storia di umili titani di Viani, Dialoghi dei massimi sistemi di Landolfi[9].

Collabora anche con due fogli di Ugo Ojetti, Pègaso (1929-1933) e Pan (1935), dei quali condivide il rinnovato ideale di humanitas. Esamina inoltre le opere novecentiste Tempo di pace di Gallian, Il silenzio creato di Vigolo, Galleria degli schiavi, Stato di grazia, Noi e gli Aria di Bontempelli, Favole e Paese dell’anima di Lisi.

Le collaborazioni di Enrico Falqui procedono su “Frontespizio” (luglio 1938, p. 442) e su “Primato” (1940-43), la rivista di Giuseppe Bottai che allo scoccare dell’evento bellico richiama gli intellettuali fascisti al “coraggio della concordia”.

Con l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato tedesco l’interventismo culturale di Bottai si fa più sostenuto. Da “buon intellettuale”, Falqui partecipa nell’ottobre del ’42, al convegno degli scrittori europei a Weimar, assieme a Papini (vicepresidente della delegazione italiana), dal germanista Farinelli, da Baldini, da Cecchi, oltre che da “fascisti eterodossi” come Vittorini e Pintor.

Proprio Giaime Pintor, in Il sangue d'Europa, riguardo a quel convegno scrive: “Farinelli, generoso di parole e di abbracci ... a volte impaziente, Cecchi placido, e acuto Baldini ... in realtà la loro educazione rondista non corrispondeva al clima di folklore cosmopolita che inevitabilmente si era creato a Weimar; e Falqui aggiungeva alla reazione dei due maestri un rapido e vivace commento”. Definisce comunque il convegno “un covo di cretini”[10].

Negli anni della guerra Falqui collabora con assiduità alla “Gazzetta del popolo” di Torino, dove pubblica nel 1941 tre recensioni di Lettere di una novizia di Piovene (22 maggio), Conversazione in Sicilia di Vittorini (19 giugno) e La siccità dello strapaesano Bilenchi (11 novembre).

Con l’ingresso a Roma degli alleati (siamo in giugno 1944) le testate moltiplicano e Falqui collabora con “Risorgimento liberale” di Pannunzio e “Il Tempo” di Angiolillo e Rapaci, nelle quali scopre e difende i valori letterari del Novecento. Nell’aprile 1946 torna in vita “La Fiera letteraria”, cui Falqui risulta segretario di redazione.

De “Il Tempo” cura la terza pagina, e dal 1948 la maggior parte degli scritti raccolti nella quarta sezione del “Novecento letterario” (1954) finiscono su quel quotidiano. D’altra parte, gli scritti pubblicati su “Il Tempo” tra il ’58 e il ’66 vengono raccolti in qualità di “punti, appunti e spunti su storici, critici e antologisti” nel settimo volume del “Novecento letterario” (1963).

Nel 1954 Falqui inizia la raccolta sistematica di tutti i suoi scritti critici e polemici, antichi e recenti, nel Novecento letterario (Firenze, 1954-1969).

Contemporaneamente al suo Novecento letterario, pubblica Giornalismo e letteratura (Milano, 1969), nel quale mette in relazione l’esperienza del giornalista della prestigiosa “terza pagina” e il contesto letterario contemporaneo nel quale lo stesso italiano si evolve[11].

Dall’alto della sua statura intellettuale, Falqui dirige le collane “Il centonovelle” della Bompiani, “Opera prima” della Garzanti, quelle degli “Umoristi” e degli “Utopisti” della Colombo, i quaderni di “Poesia” della Mondadori, “II nuovo filo di Arianna” della Vallardi[12].

Lavora senza sosta fino alla fine dei suoi giorni “senza spavalderia, ma con tenacia”[13].

Enrico Falqui spira a Roma il 16 marzo 1974.



[1] E.F. Accocca (a cura di), Ritratti su misura di scrittori italiani, Sodalizio del Libro, Venezia, 1960, p. 178.

[2] Cfr. D. Divano, Alle origini della “Fiera letteraria” (1925-1926). Un progetto editoriale tra cultura e politica, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2009.

[3] R. Bertacchini, Falqui Enrico, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 44, Roma, 1994, pp. 498- 502.

[4] E. Falqui, D’Annunzio e il finale del “Forse che sì”, in “L’Italia letteraria”, 25 dicembre 1932.

[5] R. Bertacchini, in “Studium”, marzo 1964, pp. 181 e sgg. e giugno 1965, pp. 429.

[6] E. Falqui, Poesia e fascismo, in “Sintassi”, ora in “Novecento letterario”, s. 5, ed. 1957, p. 416.

[7] G. De Robertis, Scrittori del Novecento, Firenze, 1946, pp. 393-97.

[8] Cfrt. E. Falqui, De Robertis e la “Voce”, in “Novecento letterario”, s. 5, ed. 1957, p. 196.

[9] G. Petrocchi, in Letteratura italiana. I critici, V, Milano, 1973, pp. 3489-3498.

[10] G. Pintor, Il sangue d'Europa, Torino, 1965, p. 135.

[11] E. De Michelis, Narratori al quadrato, Pisa, 1962, pp. 41-55.

[12] AA.VV., Dizionario della letteratura mondiale del 900, Roma, 1980, I, pp. 997 e sgg.

[13] E.F. Accocca (a cura di), Ritratti su misura di scrittori italiani, Sodalizio del Libro, Venezia, 1960, p. 179.

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