L'ultimo libro di Andrea Di Consoli

La Collera, romanzo praticamente perfetto

Una storia del meridione d’Italia del ‘900, fra nuovi fascismi e vecchi comunismi, malavita mafiosa e politica corrotta

di Simonetta  Bartolini

La Collera, romanzo praticamente perfetto

La copertina del libro

Ho appena finito di leggere, con colpevole ritardo, ma con assoluta e convinta soddisfatta adesione l’ultimo libro di Andrea Di Consoli, La Collera, pubblicato da Rizzoli nel settembre scorso.

Un romanzo bellissimo, intenso, vero, appassionato, scritto magnificamente; un romanzo che la Rizzoli avrebbe dovuto presentare allo Strega al posto del mediocre Siti, un romanzo che avrebbe portato alla casa editrice una vittoria finalmente vera, autentica. Se in questo paese si premiassero i migliori.

Ma non accade mai, e LaCollera di Andrea Di Consoli non è mai stato fra i papabili al più importante premio letterario italiano e neppure ad altri, figuriamoci…!

La Collera è una storia disperata del nostro sud calabrese e del nostro nord torinese, è la storia di una vita fallita anelando la grandezza, di un dolore inconsolabile nato nell’Italia del secondo dopoguerra, giunto a maturazione negli anni ’70, sclerotizzato nella apparente benessere degli ’80, concluso ma non esaurito agli albori del III millennio.

La Collera è la storia di Pasquale Benassìa, nato Calabrese povero, morto calabrese disperato, vissuto calabrese pervaso da una collera, appunto, tossica quanto e più delle sigarette che fuma per tutta la vita a ripetizione.

Pasquale Benassìa rifiuta il meridionalismo piagnone e autoassolutorio, e a vent’anni emigra a Torino: va a lavorare alla Fiat, dove sdegna la lotta di classe comunista e cerca di interpretare il suo ruolo di operaio orgoglioso e fiero. Sa farsi ben volere, Pasquale, alla catena di montaggio, primo ad arrivare ultimo ad andarsene, vero utopista destinato alla peggiore delle disillusioni vorrebbe addirittura rifiutare il salario, pago di far parte di un ingranaggio virtuosamente produttivo contro l’indolenza del paese natale, in un tempo di rivendicazioni ad oltranza e conflitti sociali esasperati.

Pasquale Benassa ambisce ad essere un uomo libero, ma scoprirà suo malgrado, e nel modo peggiore, che chi non si fa servo di un solo padrone lo diventa di tutti. Destinato dall’appartenenza sociale ad essere, come i suoi simili, comunista, va controcorrente e si dichiara fascista, ambisce alla grandezza dei valori spirituali contro l’urgenza delle necessità materiali.

Letture affastellate e caotiche nutrono la sua mente e la sua anima intossicata da una collera che cresce in ogni pagina, e quanto più la collera cresce quanto più Pasquale va incontro alla sconfitta più grande, al fallimento totale.

Pasquale non si rassegna mai, qualche volta è costretto a piegarsi, ma, come una verga di vetro, si spezza e va in mille pezzi. Pezzi che – ancora la collera, inesauribile combustibile che fa ardere il suo maledetto fuoco interiore– raccoglie per ricominciare, ma ogni nuovo inizio del protagonista di questo formidabile romanzo è uno scendere un po’ più giù i gradini del suo inferno personale.

Difficile rendere l’idea dell’intensità drammatica di queste pagine di Andrea Di Consoli, il lettore, prova fastidio, nei confronti del protagonista: obeso tabagista privo di quei sentimenti piccolo borghesi che però ci consolano; Benassia è un individuo nel quale non vorremmo mai riconoscerci, eppure racconta, strano a dirsi, l’utopia della parte migliore di noi.

Quella parte, che proprio perché la migliore, corrompendosi in una rigidità intollerante diventa mefitica, segno e simbolo del fallimento.

Corruptio optime, pessime. Besassìa vorrebbe un’Italia migliore, e con ogni sua azione la rende un po’ peggiore.

Ecco, La Collera  è tutto questo e molto altro: una storia italiana, vera, cruda, assoluta; scritta con la penna di uno scrittore vero, narrata con l’intensità della passione, tessuta da uno sguardo smagato ma non cinico, anzi, compassionevole e dolcissimo. Perciò alla fine, dopo averlo allontanato da noi, piangeremo la conclusione solitaria di una vita di solitudine profonda, quella che infondo appartiene, in misura e maniera diversa, a ciascuno di noi. 

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