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Julius Evola-Mircea Eliade

Storia di un rapporto difficile nel '900 della cultura tradizionale

Non fu un rapporto fra eruditi e neppure fra sodali, vi furono amicizia stima e reciproca intelligenza

di Giovanni Sessa

Storia di un rapporto difficile nel '900 della cultura tradizionale

Mircea Eliade e Julius Evola

La crisi con la quale siamo costretti a convivere da diverso tempo non è, e della cosa hanno ormai contezza gli osservatori più accorti, semplicemente economica. Non è neppure dovuta all’inadeguatezza dei sistemi politici e costituzionali prevalenti nell’Europa mediterranea, quell’area del Vecchio Continente in cui la crisi ha, per ora, inciso con maggior vigore, ma è, come con cognizione di causa ha colto Alain de Benoist nel suo Sull’orlo del baratro, crisi sistemica. In una condizione siffatta, solo la riflessione teorica sui limiti del sistema vigente, potrà consentire di portarci oltre lo stato attuale delle cose. Dove attingere nuova linfa vitale per innescare processi, innanzitutto esistenziali, che possano consentire all’uomo europeo di ritrovare se stesso e di tornare a proporsi come protagonista della storia? A quale cultura di riferimento è possibile guardare, per recuperare almeno la speranza di una vita più degna e capace di mirare all’ alto?

Riteniamo che stimoli importanti per la non più rinviabile ri-partenza, siano rintracciabili nella cultura che, qualche decennio fa, il poeta Franco Fortini definì, sulla terza pagina del «Corriere della sera», della “Destra Alta”, della quale non era certo un simpatizzante, ma a cui riconosceva meriti non secondari. A cosa si riferiva il poeta e saggista marxista con l’espressione “Destra Alta”? Si riferiva al pensiero di Tradizione, non compromesso in alcun modo con i dogmi dell’epoca ultima e sostanziato dalla visione antimoderna della vita. I grandi pensatori tradizionalisti del secolo XX rappresentano una vera e propria miniera critica per l’ermeneutica della contemporaneità, i cui giacimenti possono, pertanto, essere utilmente spesi nella battaglia delle idee. Tra essi, un ruolo di primo piano occupa Julius Evola, in quanto mai si sottrasse al confronto con il proprio tempo, neppure nell’ultimo periodo della sua vita. Si pensi, al riguardo, ai contenuti di una delle sue opere del dopoguerra, Cavalcare la tigre, scritta e pensata in riferimento ad un uomo che, differenziato idealmente rispetto alla propria epoca, in essa però vive attivamente. L’importanza e la centralità del suo magistero sono confermate dalle relazioni intellettuali che intrattenne con pensatori e studiosi di tutta Europa.

Certamente, uno dei rapporti intellettuali più coinvolgenti, egli lo visse con l’eminente storico delle religioni romeno, Mircea Eliade. Gli studiosi si sono resi conto da tempo, che l’indagine di questa “amicizia mancata”, è essenziale per dirimere alcuni snodi teorici della storia culturale del Novecento. Tra i primi, intervenne in merito alle relazioni Evola/Eliade, Claudio Mutti, alla fine degli anni ottanta con il suo, Mircea Eliade e la Guardia di Ferro. Altro momento esegetico rilevante è rappresentato, tra gli altri, dal saggio di Gianfranco de Turris, L’”Iniziato” e il Professore. Solo nell’ultimo periodo è stato possibile, però, tirare le somme sull’argomento in questione, per la pubblicazione di tre diverse e specifiche opere. La prima è un Quaderno della Fondazione Evola, intitolato Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954  (Controcorrente, Napoli 2011, a cura di C. Mutti e con prefazione di G. Casadio, storico delle religioni dell’Università di Salerno).

Il testo contiene sedici lettere scritte dal filosofo tradizionalista al suo corrispondente romeno. La seconda pubblicazione in questione, è un lavoro del filologo Marcello De Martino, Le ultime lettere di Julius Evola a Mircea Eliade, (Settimo Sigillo, Roma 2011). In essa si presentano altre due missive intercorse tra gli studiosi, ed infine, a chiudere gli approfondimenti sul tema, il saggio di Liviu Bordaş, Mircea Eliade e Julius Evola. Un rapporto difficile, comparso sulla rivista «Nuova Storia Contemporanea» (n. 2 , Marzo/Aprile 2012).  Questo studio è dirimente in quanto l’autore raccoglie, oltre a quelle contenute nel volume di De Martino, altre sei nuove lettere di Evola, rintracciate presso il Centro di Ricerca della Collezioni speciali della Biblioteca dell’Università di Chicago, dove il pensatore romeno insegnò fino alla morte.

Tentiamo ora, alla luce della lettura di queste pubblicazioni, un bilancio sia pure sintetico della vexata quaestio, relativa ai controversi rapporti tra i due intellettuali. Allo scopo conviene forse  muovere, per agevolare la comprensione del problema, dalla fine della relazione tra i due. Quando Eliade apprese la notizia della morte di Evola nel 1974, scrisse nel proprio Diario: “Non l’ho più visto da circa dieci o dodici anni, anche se sono passato più volte per Roma”. Tale affermazione fa sorgere l’immediata e conseguente domanda: perché Eliade decise di non vedersi più con Evola? La risposta la si ricava da un’altra significativa pagine del Diario, inerente la pubblicazione dell’autobiografia evoliana, Il Cammino del cinabro, opera del 1963. In essa, Evola ricordava di aver incontrato lo storico romeno nel 1938 in Romania, tra gli intellettuali che facevano parte della cerchia di Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro. Questa rivelazione esplicita delle sue simpatie giovanili, irritò non poco lo storico delle religioni, a causa di possibili censure politiche che avrebbero potuto ostacolarlo, nel momento in cui era impegnato nella ricerca universitaria oltreoceano. Da allora, egli, pur dichiarando di continuare ad apprezzare e a leggere le opere dell’italiano, e citandolo spesso in conversazioni private, non gli scrisse e non lo incontrò più.

La conoscenza tra i due, diretta o indiretta come sostiene Mutti, avvenne nel 1927 o nel 1928, durante un soggiorno a Roma del giovane studioso di Bucarest, come si evince dalla lettera del 28 Maggio del 1930. Fin da subito, i due instaurarono un’intesa cordiale, non solamente di tipo intellettuale, ma anche caratteriale. Ciò è attestato, dalla reciproca stima che, in più occasioni, si manifestarono vicendevolmente. Allo scopo, tra le altre, basti qui ricordare, la recensione di Eliade a Rivolta contro il mondo moderno o il suo commento elogiativo all’articolo che Evola pubblicò sulla rivista «Bilychnis», intitolato Il valore dell’occultismo nella cultura contemporanea.

Evola, a sua volta, recensirà, nientemeno che sull’organo dell’Ismeo, ancora nel 1955, il volume eliadiano Lo Yoga, immortalità e libertà e, più volte, in Metafisica del sesso, richiamerà, in termini positivi, le opere dello storico delle religioni. Per non parlare delle molte recensioni delle opere di Eliade che il tradizionalista scrisse per il «Roma», quotidiano di Napoli.

Più in particolare, diversi studiosi (si pensi agli stessi de Turris e Mutti, ma anche a De Martino nel suo Mircea Eliade esoterico) hanno messo in luce come un’evidente influenza evoliana, sia rinvenibile nella produzione letteraria dell’accademico, meno vincolata allo “scientificamente corretto”, rispetto alle opere di saggistica. Esemplificativi in questo senso, sono i casi dei romanzi La luce che si spegne, Il segreto del dottor Honigberger, Diciannove rose, nei quali emergono riferimenti a tesi evoliane. Nel primo libro citato, è addirittura esplicita la ripresa delle problematiche proprie dell’idealismo magico.

Del protagonista, Manoil, viene detto che: «era sempre stato un idealista e perciò la “magia” era implicita nel suo sistema». Alcuni protagonisti di questi romanzi sono “costruiti”, secondo modalità diverse, sulla figura di Julius Evola. Ne Il segreto del dottor Honigberger, scritto tra il 1939 e il 1940, un personaggio dai tratti enigmatici è indicato con la sigla J. E., di lui si dice che abbia tentato un’iniziazione yogica, miseramente fallita, causa della paralisi alle gambe di cui soffriva. Il lettore di certo sa, che Evola patì la medesima patologia. Nel terzo racconto, Diciannove rose, si narrano le vicende di un filosofo ed esoterista, Ieronim Thanase, “paralizzato in poltrona”, che attribuisce questa infermità ad un errore commesso in gioventù.

Per quanto si riferisce alle opere accademiche di Eliade, è possibile rilevare che, i suoi studi alchemico-ermetici, incontrano e intersecano le problematiche de La tradizione ermetica e che, l’apporto del primo Evola, sembra evidente anche nei trattati sulla mistica indiana, così come i risultati delle indagini eliadiane, furono utilizzate dal pensatore romano nel secondo libro sul tantrismo, risalente al 1949, Lo yoga della potenza. Sappiamo, inoltre, grazie alle ricerche su quest’aspetto biografico, condotte da de Turris e Scagno, che i due si videro anche nel dopoguerra, dopo il ritorno a Roma di Evola, probabilmente nel Maggio del 1952. Inoltre, il tradizionalista collaborò fino al 1969 alla rivista «Antaios», diretta dallo stesso Eliade e da Jünger, e inserì nonostante i rapporti con lo storico delle religioni si fossero raffreddati nel 1963, altri libri dello studioso, nella collana “Orizzonti dello spirito”, da lui diretta presso le Mediterranee, non ultimo il trattato sullo Sciamanesimo, già edito nel 1952, per sua intercessione da Bocca.

Dirimenti, per comprendere gli effettivi rapporti tra i due, risultano sia la lettera del 15 Dicembre 1951, sia la successiva del 31 Dicembre dello stesso anno: nella prima, Evola manifestava un certo disappunto ad Eliade, poiché questi evitava di citare autori non accademici nelle proprie opere, e non faceva riferimenti espliciti alle posizioni dei tradizionalisti. Nella seconda, il filosofo pare invece accettare le ragioni addotte dal suo interlocutore alle obiezioni sollevate, consistenti essenzialmente nell’attribuire gli omessi a una scelta tattica. Alla qual cosa, Evola non ebbe nulla da obiettare, in quanto: «…contro il tentativo di introdurre qualche cavallo di Troia nella cittadella universitaria nulla ci sarebbe da dire. L’importante sarebbe il non lasciarsi prendere…in un inganno, perché agli ambienti accademici corrisponde una qualche “corrente psichica”…deformante e contaminante.» Forse, il filosofo avrebbe fatto meglio a ricorrere a una buona dose di scetticismo, in merito alla giustificazione avanzata da Eliade. La cosa, a suo tempo, fu fatta rilevare da Paola Pisi, che pensò non esservi: «…alcun indizio per ritenere che davvero (Eliade) intendesse  far penetrare le idee tradizionaliste nella “cittadella” universitaria» .

Il problema esegetico di questa “amicizia mancata” o, meglio, interrotta sta, come ci pare aver mostrato con chiarezza Giovanni Casadio, nel fatto che certamente Eliade fu, in particolare nel periodo giovanile, influenzato dalla cultura dei pensatori della Tradizione, e non solo da Evola, ma non aderì mai pienamente al tradizionalismo come scuola. Il suo pensiero, indirizzato alla ricerca di un modello antropologico tradizionale, ha agito in profondità, ma dall’esterno, su diverse correnti dell’intellettualità non conformista. Ci pare di poter concludere con una citazione di Eliade che spiega, da un lato, le ragioni che lo avvicinarono alla Tradizione, e dall’altro il suo non riuscire ad aderirvi in toto: «…di fatto la tragedia della mia vita si può ridurre a questa formula: sono un pagano, un perfetto pagano classico che cerca di cristianizzarsi. Per me i ritmi cosmici, i simboli…esistono di più e più immediatamente del problema della redenzione»(in «Journal portuguez», p.135). Lo studioso romeno visse in sé, quindi, un evidente contrasto tra una tendenza innata ed una, come dire, acquisita e di carattere culturale, che probabilmente non risolse mai del tutto.

Evola, al contrario, non sentì mai tale lacerazione interiore. Fu, da sempre, uomo della affermazione assoluta, che poco si curò dell’accademicamente corretto. Per questo, fa bene Mutti a ricordare le parole che Eliade adoperò, nella recensione a Rivolta contro il mondo moderno, contro i critici del tradizionalista: «Evola viene ignorato dagli specialisti, perché oltrepassa i loro quadri di ricerca». Tale frase, valga a spiegare anche l’ambiguo rapporto Evola/Eliade, fondato, fin dal suo sorgere, sui “non detti” del secondo nei confronti del primo.

Riteniamo che l’analisi approfondita delle relazioni intercorse tra i due intellettuali, non sia riducibile semplicemente a fatto meramente erudito. Infatti, da essa, come si diceva all’inizio, è possibile trarre insegnamenti e stimoli per l’azione nella realtà contemporanea. Nelle parole del protagonista di Diciannove rose, si manifestano il senso e il significato di quel metodo tradizionale al quale Evola si attenne in tutte le opere e che esplicitò ne Il Mistero del Graal. Certamente, pur non ammettendolo per evidenti ragioni accademiche, della sua significanza ebbe contezza lo stesso Eliade. Tale metodo mira a cogliere nel sensibile il sovrasensibile, nella storia la sovrastoria. Per dirla con le parole del protagonista del romanzo eliadiano: «Dobbiamo correggere Hegel e portare più in là il suo pensiero. D’accordo, ciascun evento storico costituisce una manifestazione dello Spirito Universale…Dobbiamo andare più lontano: decifrare il suo significato simbolico. Giacché ogni evento, ogni vicenda quotidiana comporta un significato simbolico, illustra un simbolismo primordiale, metastorico, universale».

Ciò vuol dire che la storia ha valore quale luogo in cui il mito diviene realtà, in cui si incarna nella vita degli uomini. E’ pertanto necessario guardare alla nostra vita quotidiana, agli eventi di questi mesi, con altri occhi. Solo il recupero della dimensione destinale e mitica, ci consentirà di lasciarci alle spalle la paralisi dell’azione, già diagnosticata da Nietzsche come malattia terminale dell’uomo europeo. Dalla condizione di turisti oziosi che si aggirano tra le rovine della storia, dobbiamo tornare utopicamente e liberamente a proporci come facitori di storia, creatori di mondi.

Ciò ci pare possibile anche in conseguenza di queste considerazioni di Hugh B. Urban, uno degli storici delle religioni più prestigiosi tra gli esponenti della terza generazione della Scuola di Chicago, nonché, e ciò è paradossale, espressione della sinistra radicale statunitense: «Oggi Evola resta una delle figure più enigmatiche, meno comprese e tuttavia più influenti negli studi accademici e nella politica dell’Europa moderna». Se, come è stato rilevato, tra gli altri da Veneziani, di fronte alla governance imperante è necessario ripartire dalla Cultura, è al pensiero di Tradizione che bisogna guardare, realizzando quel “cambio di cuore” capace di ri –animare hillmanianamente le nostre esistenze.

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