Editoriale

Dedicato ai giovani. Amarcord per capire Itaca

Chi siamo stati, perché, e come siamo diventati: breve storia di un cinquantenne che è stato a destra

Domenico Del Nero

di Domenico Del Nero

lcuni anni fa; non ricordo neppure io quanti, ma doveva essere all’incirca il 1998 – da una stramba e squinternata direttrice di una rivista mi fu chiesto un saggio, un articolo, un memoriale che rievocasse la mie esperienze di militante “di destra”.  Si era  intorno al ventennale del Sessantotto e la brava signora pensò bene di approfittarne per raccogliere testimonianze di chi, da allora e negli anni successivi, aveva deciso di impegnarsi in politica.

La  signora in questione ritenne lo scritto troppo “forte” e politicamente scorretto e decise di non pubblicarlo, temendo chissà quali ripercussioni; io ovviamente mandai neppure troppo garbatamente a quel paese lei e la sua rivista. Lo ripropongo oggi, a quattordici anni di distanza, per offrire un ulteriore spunto al dibattito su Itaca (l’isola che non c’è? L’isola dei sogni perduti?) Troade e dintorni.  E’ la testimonianza della generazione degli anni ’60 e la dedico ai miei ragazzi, ai miei studenti ed ex studenti (uno in particolare) perché qualsiasi cosa decidano di essere, a qualsiasi lido vogliano volgere le loro prore, facciano meglio di noi. Non ci vuole poi moltissimo, in fondo.

 

Il lettore non si allarmi; non si trova di fronte ad una tirata nostalgica, anche perché chi scrive non ha le coordinate anagrafiche giuste per quel tipo di nostalgie. E’ un po’ difficile essere nostalgici di qualcosa che non si è vissuto in prima persona. Eppure, quell’appellativo, fascista, è risuonato per tanti anni nelle orecchie di molti di noi, di solito ringhiato come il peggiore degli insulti, nel migliore dei casi con tono di compatimento o a presa di bavero. Noi, però, ne andavamo fieri, a prescindere dal fatto che ci identificassimo pienamente o meno in quell’aggettivo comunque così carico di storia; fin troppo, forse, per le nostre spalle.

Perché ne andavamo fieri,  fino a che punto ci ha condizionato, rappresenta forse il significato e la vicenda della nostra “inquietudine”

La mia generazione è quella dell’inizio degli anni ’60. Siamo nati troppo tardi per vivere in prima persona la nascita della contestazione, ed anche, tranne per chi ha iniziato a impegnarsi politicamente molto presto, la fase più virulenta di quel periodo noto come “gli anni di piombo”. Abbiamo comunque fatto in tempo a sentire anche noi un po’ di odore di zolfo, con tanto di risse, bastonate, scontri di vario genere con opposti estremisti e forze dell’ordine. Almeno io, però, non ho mai tirato molotov e forse  per questo non sono diventato presidente del consiglio dei ministri.  Se non altro, abbiamo evitato però i miasmi della cosiddetta “generazione del disimpegno” progenitrice per tanti aspetti del moderno ragazzino yuppy tutto carriera e cravatta.

Mi si perdoni questo inizio un po’ squinternato, ma parlare di quella “ inquietudine” significa parlare anche, sia pur non solo, delle proprie esperienze personali, e questo non è facile, un po’ perché le nostre attività letterarie sono normalmente molto più asettiche, un po’ perché, in questo caso specifico, è come ripercorrere un cimitero di sogni e di illusioni. Per qualcuno, però, sono sopravvissuti gli ideali e i valori, magari come compagni di strada un po’ scomodi, ma di cui non sapremmo assolutamente fare a meno. E almeno questo, non potrà togliercelo nessuno.

La sua sola colpa? Gridare sono stufo! Non si può andare avanti a Montini e Berlinguer. Così cominciava una canzone di quella musica che chiamavamo “alternativa”, che denunciava uno stato d’animo tipico di molti di noi : un senso di insofferenza, di vivo fastidio, e infine di rigetto per l’intruppamento in massa a sinistra da un lato, e dall’altro un certo cattolicesimo bietolone, tutto buonismo, pacifismo e mammismo,

che in sostanza, dimentico di quanto ancora alla fine degli anni ’50 aveva detto papa Pacelli, aveva iniziato quel processo di santificazione della sinistra, e addirittura del comunismo, i cui frutti deleteri stiamo gustando ancora oggi. Quando dico “molti di noi” intendo chi, penso ormai sarà chiaro, sceglieva di schierarsi politicamente a destra: la più scomoda, irresponsabile e per certi versi “suicida” delle scelte che si potesse fare. Spesso infatti, il primo passo, più che da una motivata e ponderata considerazione ideologica, poteva derivare da un senso di rifiuto della realtà che ci circondava: assemblee scolastiche in cui l’argomento più pregnante poteva essere quanto era cattivo Pinochet e quanto magari erano buoni il Che o Fidel, oppure il continuo martellamento antifascista sistematicamente praticato da tutti i media, per cui non solo chi aveva aderito al fascismo era il peggiore dei criminali, ( la concezione del fascismo come fenomeno – flagello, di cui parlò anche De Felice), ma molto più semplicemente chiunque non si adeguava all’andazzo dominante di sinistra era automaticamente fascista, e come tale indegno di vivere o quasi; difficile dimenticare le dichiarazioni aberranti di intellettuali oggi magari illustri e pluriaccademici, che giustificavano le uccisioni di ragazzi militanti a destra con una ferocia ed un cinismo che è francamente difficile perdonare.

Più semplicemente, però, vi fu un periodo in cui anche leggere il quotidiano Il Giornale era considerato “fascista”. Tutto ciò può sembrare assurdo ed incomprensibile ad un giovane d’oggi, ed in effetti quando mi capita di parlarne con qualche mio studente sembra quasi che racconti favole; eppure proprio questo era il clima di quegli anni, come ben ricorda chi li ha vissuti e magari ci si è trovato in mezzo.

La scelta quindi di militare a destra poteva nascere come reazione a tutto ciò, un senso di rivolta non ben specificato che spingeva proprio verso quella sponda che si cercava in ogni modo di demonizzare, anche perché i modelli proposti non erano certo entusiasmanti: ci sembrava, infatti, che il condominio tra la Democrazia Cristiana e i suoi alleati da un lato, e i comunisti dall’altro, soltanto in apparenza antitetici, portasse ad un asfissiante appiattimento della vita politica e culturale, e soprattutto annullasse quel punto di riferimento che, magari ancora in modo confuso, era invece il nostro: l’Europa, con la sua storia, le sue tradizioni, le sue civiltà.«In nessun paese europeo – osservava Marcello Veneziani  [1]– si è verificato il “paradosso” italiano: radicalizzazione dei poli egemoni e nello stesso tempo immobilismo del quadro politico.»

 Inoltre il binomio Usa-Urss, che buona parte della destra di allora dichiarava rappresentare “due facce della stessa medaglia”, essendo in sostanza capitalismo e marxismo due  forme diverse ma sostanzialmente analoghe di predominio dell’economia sulla politica e dell’avere sull’essere, era la nostra bestia nera, mentre rappresentava i modelli, sia pur con strappi e rattoppi, dei sistemi imperanti.

La scelta di destra si concretizzò in molti casi con l’adesione al Movimento Sociale Italiano e soprattutto alle sue organizzazioni giovanili, anche se non pochi, soprattutto giovani, trovavano l’atteggiamento ufficiale del partito deludente, troppo tiepido e cercavano risposte più complete, anche se non sempre condivisibili e talvolta tragiche,  in altre organizzazioni più estremiste, o semplicemente in associazioni culturali.

Le associazioni giovanili del partito, Fronte della Gioventù e Fronte Universitario di Azione nazionale (FDG-FUAN)  erano però, in molti casi, più “estreme” e più radicali della linea ufficiale del partito, con cui le frizioni non mancavano. Questo non significa affatto però, che la linea delle organizzazioni giovanili fosse “omogenea”, tutt’altro. Vi si potevano trovare fianco a fianco, ma talvolta anche l’un contro l’altro armati, il cattolico tradizionalista e il filonazista, il pagano e il cristiano, il nostalgico del ventennio e il simpatizzante per certi movimenti di sinistra dell’America Latina o giù di lì, giudicati comunque “nazionalpopolari”; mentre Nietzsche poteva convivere più o meno pacificamente con Gentile, un po’ meno in auge quest’ultimo tra i giovani;  alcuni poi si sentivano attratti dalla Nouvelle Droite francese di De Benoist.

Anche sull’uso del termine “destra” c’era tutt’altro che accordo, e non mancava chi decisamente lo rifiutava, talvolta proprio in nome delle radici “fasciste” ( o delle tesi della Nouvelle Droite) che non si lasciavano indubbiamente incasellare in una categoria politica che appariva piuttosto legata , per l’Italia, all’immediato periodo postrisorgimentale, mentre per altri “destra” era soprattutto un riferimento culturale e spirituale, sull’esempio magari di pensatori come Julius Evola, molto letto e talvolta maldigerito tra i giovani.

Tutti questi  entusiasmi davano luogo anche ad alcune situazioni comiche: ricordo alcuni “camerati” talmente infervorati dal pensiero tedesco da partire in comitiva per assistere ad una rappresentazione del Crepuscolo degli Dei di  Wagner senza la minima “vaccinazione” sull’argomento, ritornati poi in stato comatoso.

E non mancava, purtroppo, anche qualcuno che equivocava la forza delle idee con quella muscolare, ed era attratto soprattutto dal rischio e dalla possibilità, per diversi anni alquanto concreta, dello scontro fisico. Da questo punto di vista, la contrapposizione tra Almirante e Rauti, quest’ultimo assai popolare fra molti giovani, nascondeva una realtà molto più variegata e complessa.

Tuttavia, pur fra tanta confusione e approssimazione, una cosa si può affermarla: per molto tempo, e per certi aspetti, sia pure in tono minore, fino alla fine degli anni ’80, c’era all’interno del MSI e soprattutto delle sue organizzazioni giovanili, una vivacità culturale, un fermento, un desiderio di conoscere e approfondire assolutamente superiore a quello odierno, come ricorda qui, nel suo intervento, anche Franco Cardini, destinato a diventare per alcuni di noi un maestro e un punto di riferimento che non tramonta. E’ impressionante la ricchezza di libri sugli argomenti più svariati, prodotti da case editrici piccole e spesso semisconosciute, la più nota e importante delle quali era forse la vecchia, gloriosa Volpe; ma anche riviste delle più varie fogge, che a volte non superavano la durata di una stagione ma ospitavano vivaci dibattiti e scambi di idee, ed anche dischi o cassette, prodotte da quei complessi di “musica alternativa” con cui si cercava di contrastare il predominio dei vari Guccini o Dalla, di complessi come Gli amici del vento o la Compagnia dell’anello, che cantavano la durezza della vita quotidiana del militante di destra, le persecuzioni politiche e giudiziarie, ma anche la bellezza dei nostri ideali, il mito di un Europa scomparsa ma sempre presente come insostituibile modello, simboleggiata dalla canzone la Terra di Thule che narrava l’epopea di un giovane guerriero, in un medioevo lontano nel tempo e nello spazio; diverse canzoni della Compagnia erano del resto ispirate al ciclo arturiano, all’Europa medievale, al suo eroismo guerriero ma anche a una società che sapeva coniugare i valori dello spirito con le attività più umili. [2]

 

La smania di spezzare catene di borghese tranquillità.

Se volessimo trovare dunque un minimo comune denominatore in questa babele, forse ancora una volta, più che dotte analisi politologiche, potrebbe aiutare questo verso di una di quelle canzoni. Fascismo e movimenti affini, medioevo, nazionalismo e tradizionalismo potevano incontrarsi in una particolare Weltanschaung , che sfociava nel rifiuto di una mentalità che veniva definita “borghese”.

Non che la polemica fosse diretta tanto contro una classe sociale in particolare, quanto contro quella che potremmo definire la mentalità dell’italiano medio. In fondo, da un punto di vista meramente sociale, molti di noi erano di famiglie “borghesi”: ma era proprio il criterio socio – economico, già allora imperante, che veniva respinto. Curioso il fatto, a questo riguardo, che si dicesse, ovviamente in mala fede, che i ragazzi di destra erano tutti figli di papà. In qualche caso poteva anche esser vero, ma che dire allora “dell’altra parte”? Non so quanto sia azzardato dire che il radical-chic e affini nascono con il ’68, o quantomeno immediatamente dopo. Personalmente, ho conosciuto ben pochi golden boys  fra le nostre file, e ricordo perfettamente con quanto disprezzo considerassimo i cosiddetti fasci – bar, ovvero i bulletti  che pensavano di fare i duri in locali più o meno alla moda definendosi “fascisti” e dando fiato ai peggiori luoghi comuni che si potessero pensare. Erano però tempi in cui alla sinistra tutto era concesso, mentre la battuta di qualsiasi cretino che poco o nulla avesse a che fare con noi serviva immediatamente a infangare tutta la categoria. Questa, del resto, è una delle poche cose che da allora non siano mutate più di tanto.

Quello che ci urtava maggiormente dunque della cosiddetta “mentalità borghese” era l’opportunismo, il votare DC “turandosi il naso”, secondo la celebre espressione lanciata da Montanelli, una sorta di timore reverenziale e spesso totalmente acritico nei confronti delle sinistre, un quieto vivere che si accontentava di galleggiare in una mediocritas neppure troppa aurea; ma soprattutto la mancanza di una visione del mondo, del coraggio delle proprie idee – quando c’erano -   il seguire la corrente del vincitore o presunto tale.

Ci  sembrava che, dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia avesse progressivamente abdicato non solo alla sua sovranità nazionale, ma anche alla sua dignità e alla sua cultura. Se a sinistra era l’epoca dei modelli di stampo sovietico, cinese o afrolatinoamericano, d’altra parte la sudditanza assoluta nei confronti degli USA si concretizzava anche nei costumi, nelle mode, nell’adozione di modelli culturali che poco o nulla avevano a che fare con le nostre tradizioni. Valeva per noi quello che scrisse Rodolfo Quadrelli: «L’influenza americana è stata determinante. Come può essere definita? Come il tentativo più spinto di togliere dalla vita umana ogni traccia di sacro, riducendo la morte a un contrattempo da allontanare istericamente, con l’ausilio dei chirurghi e l’intontimento della musica .»[3]

Anche in questa direzione va letto il nostro rapporto, complesso e non privo di contraddizioni, nei confronti del fascismo, che non era affatto riconducibile, almeno nella maggior parte dei casi, ad una pura e semplice nostalgia. Anzi, questo non di rado causava polemiche e frizioni con le generazioni  dei reduci, negli anni ’80

ancora abbondantemente presenti nell’MSI e nella sua classe dirigente, a cui rimproveravamo una visione della politica statica e troppo ancorata al passato.

Quello che ci piaceva del fascismo era il suo tentativo di dare una dignità e una identità nazionale all’Italia, risolvendo le contraddizioni e i problemi che il risorgimento, passato come un rullo compressore sugli antichi stati preunitari (per i quali alcuni di noi, suscitando le ire di qualche vecchio missino e talvolta dello stesso Almirante, avevano maggior simpatia che per Mazzini o Garibaldi, e soprattutto che per i Savoia) aveva lasciato aperti o addirittura creato ex novo, a causa dell’inadeguatezza, soprattutto nel periodo intorno alla prima guerra mondiale, della vecchia classe dirigente liberale di essere qualcosa di più che i rappresentanti dei galantuomini, se non, per riprendere la celebre espressione usata contro Giolitti, della malavita.

A questo occorre aggiungere una visione della vita eroica, con il suo forte richiamo ai valori della dignità e dell’onore, che aveva accompagnato soprattutto l’epopea della Repubblica Sociale Italiana, che ammiravamo soprattutto per quell’eroico tentativo di salvare l’onore delle armi e , pur sapendo in partenza che l’impresa era disperata, di reagire alla situazione ignobile creatasi dopo l’8 settembre.

Figure come Alessandro Pavolini, figlio della migliore borghesia fiorentina che, dopo esser stato un eccellente uomo di cultura, aveva saputo incarnare la disperata volontà di combattere ad ogni costo e di risalire alle sorgenti originarie e più idealiste dell’esperienza fascista,   esercitavano un fascino che la retorica resistenzialista non riusciva minimamente a scalfire.

Non era però solo il fascismo italiano a esercitare il suo fascino; del resto, occorre sempre pensare che quello che attirava non erano solo e tanto i fenomeni storici in sé, ma lo spirito che li aveva animati: quella visione “sovrumanista” per dirla con Giorgio Locchi,  che nel periodo tra le due guerre mondiali, dopo che la follia fratricida del 15-18 aveva posto tutte le premesse per la dissoluzione politica e la fine del ruolo di primo piano del vecchio continente, aveva animato diversi movimenti nazionalisti, spingendoli a cercare nelle  radici storiche, nell’affermazione dell’identità e della dignità del loro popolo, un antidoto al rischio dell’internazionalismo bolscevico, ma anche a un capitalismo che nella logica del profitto annullava uomini e nazioni. Così, nella pleiade di movimenti nazionalisti che sorsero in tutta Europa, con molti elementi comuni pur nelle inevitabili diversità, studiavamo avidamente figure come Josè Antonio Primo de Rivera ( e Cara al sol, il bellissimo inno della falange spagnola, era uno dei nostri canti preferiti) e in particolare Corneliu Codreanu, il leader della Guardia di Ferro rumena; una figura che, all’interno delle varie simpatie e preferenze, non sempre del tutto “razionali” e motivate,  raccoglieva un’ammirazione pressoché unanime.

 Questo perché,  nella Legione rumena, che aveva la sua base soprattutto tra il popolo e tra i contadini,  con la sua forte tradizione cristiana  e la sua visione mistica della vita e della politica, vedevamo un modello esemplare di un concetto a noi molto caro: quello di comunità, concetto le cui radici ricercavamo sin nell’Europa medievale, e in cui vedevamo l’alternativa al caos indifferenziato della società borghese e tecnologica. «Il movimento legionario, prima di essere un movimento politico, dottrinario, economico ecc., prima di rappresentare un sistema di formule, è una scuola spirituale in cui entra un uomo per uscirne un eroe.» [4]

Non c’era però, solo il passato. Seguivamo con grande attenzione, e anche qui spesso con diversità di opinioni, le lotte dei moderni movimenti nazionalistici: quella del popolo irlandese o del popolo palestinese, ma anche la lotta contro l’invasione sovietica in Afghanistan suscitava entusiasmi, provocava dibattiti che venivano portati nelle piazze, nelle scuole, nelle università, spesso irritando la libera e democratica sensibilità “altrui”.

Un presidio del FUAN in una piazza di Milano, in solidarietà agli studenti cinesi barbaramente massacrati dalle truppe governative in piazza Tien an Men,  fu assalito da una torma di “leoncavallini” inferociti, degni colleghi dei repressori cinesi, mentre le forze dell’ordine stavano più o meno a guardare. Il presidio, tuttavia, continuò per diversi giorni.

Non erano comunque solo la storia e la politica ad appassionarci. Fummo tra i primi a scoprire il fascino della  migliore letteratura fantasy  e soprattutto di quell’indiscusso maestro che fu Tolkien; nel mondo magico del Signore degli Anelli, che ripropone l’eterna lotta tra il bene e il male, ci attirava l’epico sforzo di una piccola compagnia di fermare la distruzione di tutti i valori e le tradizioni… quel male, non per nulla esemplificato da un anello d’oro. Anche nel divertimento e nello svago si cercava di differenziarsi dalla massa, riscoprendo ad esempio il fascino di una serata accanto al fuoco, di un “campo” in zone montuose magari accampandoci tra i ruderi di un villaggio abbandonato, e persino tentando di  rivivere a modo nostro  l’antichissima esperienza del rito del solstizio (non necessariamente in chiave neopagana!);  e rifiutando, almeno a parole, di intrupparci in discoteca a lasciarci rincretinire da una orrenda cacofonia di luci e rumori. Se però tutti, o quasi, eravamo d’accordo nel considerare la discoteca un portato di quell’ american way of  life  che tanto disprezzavamo, non mancava poi  chi ci andava lo stesso, con le scuse più buffe o più assurde. Una delle tante contraddizioni…

 

Uccidere un fascista non è reato…

Erano dunque queste, molto in breve, le nostre “trasgressioni”. E’ un quadro veloce e molto approssimativo, forse anche un poco idilliaco. La realtà era certo molto più complessa. Non eravamo tutti “gentiluomini”,  d’accordo, né tanto meno tutti uomini di cultura.

Non mancava “l’attivista puro”,  il fanatico, l’esaltato, quello che amava il rischio fine a se stesso. Perché il rischio, senza dubbio, c’era. Per chi ricordi le cronache di quegli anni nomi come Ramelli, Giaquinto, o ancora nei primi anni ’80, Paolo di Nella saranno certo significativi.

Ragazzi che chiedevano solo di seguire e di servire le loro idee, ragazzi puliti che hanno visto bruciare la loro vita in una assurda spirale d’odio. I loro assassini, però, non sono soltanto quelli che li colpirono. In alcuni casi, ad esempio in quello del povero Ramelli, il linciaggio continuò addirittura dopo la morte. E’ questo quello che forse è più difficile perdonare: un odio che non si arrestava neppure difronte all’assurdo sacrificio di una giovane vita. Non erano solo i comunisti, e spesso e volentieri le forze dell’ordine, i nostri avversari.

Certo, i primi alimentavano il loro odio con un fanatismo con cui era quasi sempre impossibile ogni forma di ragionamento; e questa è  una delle ragioni per cui a molti di noi è rimasta, nei confronti della sinistra, una sorta di invincibile allergia.

Sarebbe però ingiusto negare perlomeno ad alcuni, in particolare quelli che non hanno trasformato lo zelo sessantottino  in comode poltrone, cattedre, sgabelli e seggette di vario tipo, diventando magari idoli di salotti e vecchi merletti, altrettanta buona fede e altrettanto idealismo; con persone di questo tipo, un dialogo, magari “clandestino” era talvolta possibile. 

Anche la sinistra ha certo poi avuto i suoi martiri e la destra i suoi farabutti. La differenza stava se mai nel fatto che a sinistra erano sempre e comunque martiri, e a destra sempre e comunque farabutti. Alcune pagine giornalistiche scritte negli anni ’70 e ’80 sono più che sufficienti a far arrossire tutta la categoria. Certo, non eravamo “democratici”, la democrazia non ci piaceva (a molti di noi, con buona pace di chi è stato folgorato sulla via di Damasco o ha fatto la cura delle acque a Fiuggi, non piace tuttora ) ; era questa una ragione sufficiente per una condanna senza appello?

In fondo, se esaminiamo la situazione europea fino a pochi decenni or sono, erano in molti a non considerare la democrazia la miglior forma di governo, e non certo solo a destra, anche se certi regimi si chiamavano ipocritamente democrazie popolari. Non starò poi a ricordare quante scuole di pensiero non considerino la democrazia il migliore dei sistemi di governo, senza che questo comporti necessariamente, come alternativa, un regime brutale e poliziesco; come sarebbe interessante esaminare fino in fondo quanta libertà, quanta possibilità di realizzazione civica e umana vi si realmente in certe democrazie, compresa quella attuale.

Nel nostro caso poi, democrazia significava relegazione in un ghetto, in cui esprimersi, e talvolta anche sopravvivere, diventava arduo e faticoso. Certo, non ci condannavano a morte, anche perché qualche volta c’era comunque chi pensava a farlo per conto del potere, o quantomeno facendogli un favore. «In altri termini, ( scrive Cardini) almeno fino a poco tempo fa – ma in Italia, nonostante tutto, ancora -, e specie negli ambienti intellettuali, dirsi di sinistra era considerato praticamente ovvio e naturale, così come sarebbe stato assurdo e al limite della demenza o della provocazione dirsi di destra; tali erano semmai, per definizione, gli avversari, e avversari per giunta spesso senza volto.» [5]

Oggi si sa benissimo – ma già allora c’era chi lo ripeteva, vox clamans in deserto, che gli  opposti estremismi

facevano molto comodo alla classe dirigente al potere, che ne traeva un motivo di legittimazione e di conseguenza soffiava sul fuoco.  Solo che uno dei due opposti era coccolato, benvoluto o addirittura negato – come dimenticare che vi furono autorevolissimi personaggi  che dichiararono che Le Brigate Rosse non esistevano, mentre il PCI di fatto di quel sistema faceva parte e vi era perfettamente integrato.

Questo si vedeva spesso anche nell’atteggiamento delle forze dell’ordine, che non si facevano scrupolo di caricare a destra, mentre a sinistra di solito l’obbligo era quello dell’avanti adagio. Gli esempi e gli episodi sono tantissimi, e non è il caso di soffermarsi su quelli più eclatanti: chi ha passato i 40 anni ricorda benissimo come un comizio di Almirante potesse trasformarsi in guerriglia urbana.  Anche cose molto più semplici, quali l’affissione di manifesti o un volantinaggio, potevano trasformarsi in imprese quantomeno pericolose o trasformarsi in lunghi soggiorni in questura.

Mi siano consentiti solo due brevi ricordi personali, che risalgono al periodo in cui ero dirigente del FUAN fiorentino. Quando, nel 1984, riuscimmo per la prima volta dopo tanto tempo ad ottenere un’aula alla facoltà di giurisprudenza per tenervi un ‘assemblea su tematiche universitarie, la cosa provocò addirittura una massiccia azione di protesta da parte dei sindacati. E questo era niente. L’episodio però forse più significativo, anche se apparentemente insulso, è questo: un giorno in facoltà uno studente di un movimento cattolico stava timidamente scambiando quattro parole con me. Passa un caporione di sinistra e gli grida:   «Ma che fai, parli con un fascista?» Sorrisetto imbarazzato e rapida fuga.

 

Quel che resta del sogno.

«Strano destino, quello di noialtri ragazzi che possono bensì invecchiare ma che non riescono a crescere: strano destino segnato dalle canzoni. Anche noi abbiamo le nostre chitarre: forse sono un po’ più scordate, forse un po’ meno chic…»[6]. Ancora una volte, una canzone a mo’ di epigrafe di tutto il discorso: Ci hanno detto ragazzi, qualcuno si è sbagliato, adesso tutto cambia, viva il libero mercato …saranno le voci di molti, che ci hanno già lasciato; e non mi pare che siano morti gridando viva il libero mercato. [7]

Così, alla fine, qualcuno si è accorto che tutto era  sbagliato, e bisognava voltar pagina. Anzi, riscrivere tutto da capo, anche se ancora non è molto chiaro come sia riuscito il “palinsesto”. A molti, però, non è piaciuto.

Intendiamoci, che fosse ora di cambiare pagina, che bisognasse abbandonare soprattutto certe nostalgie fini a se stesse, che confinavano col folclore, eravamo in molti a dirlo, soprattutto tra i giovani. La sensazione però che quanto sia accaduto da Fiuggi in poi sia stata invece una totale perdita d’identità è molto forte. Sogni, illusioni, speranze e ideali in qualche caso pagati con la vita, nella migliore delle ipotesi con una emarginazione umana e professionale che talvolta dura tuttora erano solo chimere?

E’ facile rendersi conto che tutto ciò non tocca gli alti scranni di Montecitorio o anche quelli un po’ meno elevati, comunque sempre più che appetibili. Sostenere le cause perse è scomodo e non molto redditizio, anche se non è mancato chi è riuscito a costruirci le proprie fortune, ed è stato poi molto veloce a riconvertirle per conservarle.

Non tutti, sia chiaro; personaggi come Nicola Pasetto o Marzio Tremaglia, senz’altro tra gli esempi migliori di giovani che erano faticosamente riusciti ad emergere dando prova di coerenza e di coraggio, erano delle felici eccezioni, molto vivaci anche sul piano culturale; la loro immatura scomparsa, quando ancora moltissimo avrebbero potuto fare e forse contribuire a dare un corso diverso agli eventi, è un’ulteriore crudele beffa del destino.

Viene però da sorridere amaramente, ripensando a quanto si ironizzava sulle svolte e giravolte della sinistra e del PCI in particolare, sui rivoluzionari di ieri e “poltronari” di oggi… Sicuramente, se c’è una cosa che oggi unisce molti a destra e a sinistra, ovviamente tra i militanti  sinceri, è la delusione. Forse, un giorno, qualcuno dovrà rispondere della dispersione , del sacrificio e della delusione di tante energie e intelligenze, prima sfruttate senza troppi scrupoli; comunque, ciò che abbiamo fatto non lo è stato per loro, ma nonostante loro.

E’ difficile che questo possa essere compreso da chi almeno in parte non ha vissuto quel periodo, e soprattutto da chi è approdato alla politica, e in particolare ad Alleanza Nazionale, da altre esperienze, che possono certo avere una loro dignità e rispettabilità. Sono se mai gli “struzzi” o coloro che sino a ieri andavano a rendere omaggio a Predappio, ed oggi accendono moccoli a Wall Strett, a dare sui nervi.

Quel fascino della sconfitta, purché onorevole e motivata, che consentiva di unire insieme nell’ammirazione esperienze lontane nel tempo e nel significato come quella del soldato borbonico che a  Gaeta e a Civitella del Tronto combatteva per riscattare la bandiera del suo re, con quella del milite della RSI può apparire oggi, anche a molti giovani tutti cravatta e carriera, come del tutto incomprensibile.

Era una mentalità “perdente”?

No, era semplicemente il rifiuto di arrendersi a quella che alcuni chiamano “La logica della storia”, o più semplicemente al “Chi vince ha sempre ragione”.

Del resto, quello che sognavamo nelle riunioni nelle sezioni, nelle accese discussioni, a volte forse caotiche  e pasticcione, ma che rivelavano una vivacità intellettuale, una curiosità oggi quasi del tutto perdute, era proprio la vittoria, che avrebbe condotto a un mondo più giusto e più aperto alla vera dignità dell’uomo, da valutarsi per ciò che è, non per ciò che possiede.  “Che cosa avremmo fatto quando avremmo vinto” era ciò di cui spesso discutevamo, magari passando nottate intere in affissioni clandestine di manifesti, con “militanti” più anziani  che ci comunicavano le loro esperienze, i loro sogni e loro delusioni, spesso maestri senza bisogno di lauree e diplomi.

 Oggi, molti di noi hanno rinunciato alla politica attiva, ma non per questo ai propri ideali, anche se l’età ci ha reso un po’ più saggi e disincantati; guardando con simpatia alle piccole comunità, alla lotta contro la globalizzazione, ai tentativi di non sommergere le culture e le tradizioni locali sotto la marea del moderno e postmoderno. In alcuni casi, il ritorno alla fede, a un cattolicesimo che non è certo quello bietolone dei cattoprogressisti, e purtroppo di tanta parte della gerarchia, è stato un punto di approdo ricco di luce e di conforto.

La tradizione, l’Europa con la sua storia millenaria, la sua civiltà e le sue comunità, quello che è stato definito nel titolo di un libro il bianco sole dei vinti continuano ad essere i nostri punti di riferimento. Forse non saranno molto “redditizi”, e in molti casi ci faranno apparire come sorpassati ed incomprensibili. Il che, alla luce dei “valori” (o presunti tali) vincenti oggi  può anche essere vero. La nostra risposta, detta in termini un po’ beceri, sarà però la solita: “me ne frego”. E chissà che un giorno, la battaglia non possa ricominciare.

Ed ora io ti parlo, e non posso non pensare, a ciò che noi si era qualche anno fa:

giornate di rivolta con le spranghe in mano, per anni il Movimento mia e tua

nuova famiglia. Eretici autori che allora scoprivamo…

(La Compagnia dell’Anello, Pensando a un amico)

 



[1] M. Veneziani, La rivoluzione Conservatrice in Italia, Milano, Sugarco, 1987, p.13.

[2] Cfr. la bellissima canzone Il contadino, il monaco e il guerriero, che riveste di  commovente poesia la celebre tripartizione di Adalberone di Laon. Il verso citato a inizio del paragrafo successivo è invece dalla canzone Pensando a un amico.

[3] R. Quadrelli, Il Paese umiliato, Milano, Rusconi, 1973, p.114.

[4] C. Z. Codreanu, Il capo di Cuib, Padova, Edizioni di Ar, 1981, p.68.

[5] F. Cardini, “Pensare a destra? E’ da maleducati” in Scheletri nell’armadio, Firenze, Akropolis, 1995, p.194

[6] F. Cardini, “Il cavallo di Don Chisciotte”,    ibidem, p.320

[7] La Compagnia dell’Anello, Anche se tutti…noi no.

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    2 commenti per questo articolo

  • Inserito da PIERDO il 11/07/2012 17:33:43

    La tua storia è un po la storia di noi cinquantenni impegnati sul fronte dell'alternativa.Le delusioni sono innumerevoli ma le nostre idee, i nostri valorei la volontà di non puiegarsi all'omologazione imperante fanno ancora stare sulla barricata innumerevoli persone.Anch'io deluso,stufo demoralizzato ho pensato di mandare tutti a farsi fottere. Poi una sera ho ascoltato dallo stereo dell'auto una canzone degli ZETAZEROALFA.Mio figlio 16 anni aveva scqaricato la canzone da internet e si è avvicinato al mondo di CASAPOUND.E' stata una folgorazione ragazzi entusiasti che si sono rimboccati le maniche frgandosene di tutto e di tutti andando avanti per la loro strada fatta di solidarietà impegno civile e comunità. Tra la l'altro cercano instancabilmente il confronto con l'altro.Se vi capita partecipate ai loro convegni dove spesso capitano anche avversari politici,ma solo quelli intelligente per i quali parlare con un Fascista non è un abbassarsi ad un livello animale. Grazie comunque per aver ricordato fedelmente quello che era il "sentire " di olti di noi. Pier Domenico Andreani

  • Inserito da ghorio il 07/07/2012 23:19:00

    Ho inviato un commento ma ho visto che non è stato inserito. Non ho provveduto a slvarlo e pertanto faccio il riassunto. Niente da dire sui ricordi di Del Nero. Personalmente non sono stato iscritto all'Msi o Alleanza Nazionale nè ho votato per questi partiti, ma sono stato formato sui giornali di centrodestra, a partire dal grande "Tempo" di Renato Angiolillo , agli inizi degli anni 60 e poi "Il Giornale" del grande Montanelli.Ho visto la citazione di Giorgio Locchi, storico corrispondente da Parigi de"Il Tempo", ma quando è morto ricordo di aver letto qualche rigo su"Il Giornale" in un articolo di Piero Buscaroli,"IL Tempo" purtroppo non arrivava, nè arriva nelle parti della Lombardia dove abito. I giornali di centrodestra del resto non usano ricordare i maestri, in occasione degli anniversari. I centenari di Giovanni Artieri, il milgiore inviato speciale, dopo Montanelli, di Enrico Mattei, e potrei continuare con altri nomi, sono passati inosservati. Per Artieri ricordo, al compimento dei suoi 90 anni, nemmeno "Il Tempo", giornale dove continuava a scrivere, allora diretto da Mottola aveva provveduto a festeggiarlo.Non ho mai visto su un giornale di centrodestra ricordare Alberto Consiglio, grande commentatore e polemista de"Il Tempo" o Marcello Lucini, morto giovane e commentatore di politica interna del giornale romano. Gli anniversari di Gianna Preda e Mario Tedeschi sono sempre passati inosservati. Il centrodestra dovrebbe avere la cultura della"memoria storica" ma evidentemente non c'è coerenza. Il ritorno metaforico a Itaca lanciato dal bravo Veneziani dovrebbe portare gli intellettuali dell'area ad una certa coerenza nell'essere controcorrente, visto che l'amicizia , le tradizioni, le radici in genere vengono spesso dimeticati. Spero davvero che dall'incontro di Ascoli del 15 luglio possa nascere una nuova fase, anche di coerenza sui principi e sui valori. Giovanni Attinà

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