LA CUCINA DELLE SORELLE D'ITALIA

Petto di vitella alla fornara di Giuditta Tavani Arquati

Anche il poeta Gioacchino Belli ha dedicato alcuni dei suoi sonetti romaneschi alla cucina del popolino

di Marina Cepeda Fuentes

Petto di vitella alla fornara di Giuditta Tavani Arquati

Petto alla fornara

La mattina del 25 ottobre 1867, giorno in cui Garibaldi prendeva Monterotondo durante la terza spedizione per liberare Roma, una quarantina di patrioti, gran parte romani, erano   riuniti in un palazzotto del Rione Trastevere sito in via della Lungaretta 97: era la  sede del lanificio di Giulio Ajani  dove  da settimane non si filava la lana ma si fabbricavano proiettili e si coordinavano le operazioni. Il gruppo attendeva l’arrivo dell’Eroe dei due Mondi per far insorgere Roma contro il governo di Pio IX e, mentre discutevano animatamente,  alcuni di loro ripulivano i fucili, altri mettevano in ordine le cartucce e altri ancora annotavano in alcuni fogli sparsi la strategia da seguire.

 Fra di loro, ad incoraggiarli, c’era anche una donna, la moglie del responsabile della fabbrica, Francesco Arquati, figlia di un combattente della Repubblica Romana del 1849  e perciò cresciuta nel culto della libertà d’Italia. Si chiamava Giuditta Tavani, aveva 37 anni ed era incinta del quinto figlio.

Quella limpida mattina dell’ottobrata romana, dalle finestre del lanificio trasteverino uscivano alcuni odori inconsueti: profumi di soffritti d’aglio e cipolla, di guanciale saltato in padella appena croccante, di salsicce arrostite ed altro ancora. Giuditta preparava infatti il pranzo per quel gruppo di patrioti superstiti dei moti insurrezionali iniziati nella capitale dello Stato Pontificio tre giorni prima: avevano combattuto sul Campidoglio, a piazza Colonna, a porta San Paolo, e a Villa Glori sui monti Parioli, dove i fratelli Cairoli furono massacrati tra i mandorli ormai sfioriti.

A quei tempi la cucina del popolino romano aveva  una forte influenza dell’antica comunità ebraica che da secoli abita al Ghetto, dall’altro lato del Tevere:  come nel “capretto brodettato”, nella “pasta e broccoli in brodo di arzilla”, nei “filetti di baccalà fritti”, nei “carciofi alla giudia”, nelle varie  zuppe di stagione, come la “pasta e ceci”.

Ma era soprattutto nella cucina nata attorno al mattatoio di Testaccio, che  utilizzava le interiora degli animali, dove si  creavano i  piatti più saporiti: trippa di manzo, cotiche e fegatelli di maiale,  rigaglie di pollo, cervelletto di gallina, “granelli” di castrato, ossia i testicoli di montone o di agnello, animelle  e cervello di vitello,  “pajata” o intestino di bue o di vitellino, cuore, rognoni, milza, polmone, lingua.  

 Era la cosiddetta “cucina delle frattaglie”, oppure del “quinto quarto” quando si riferiva alla carne bovina: “cibo da villani”, insomma,  budella e viscere di ogni tipo e di ogni animale commestibile che hanno da sempre regnato sulla tavola del popolino romano, abituato a dover rinunciare alle parti nobili delle bestie, ritenute invece cibo da nobili,  papi e cardinali. 

Nacquero così piatti molto saporiti e nutrienti che tuttora si possono degustare nelle osterie romane e sono  amatissimi dai romani “veraci”: come la “coratella di abbacchio ai carciofi” oppure “la coda alla vaccinara” che gli “scorticatori” dei bovini e i “concia-pelli” del Rione Regola preparavano per loro stessi.  Un vecchio stornello  ricorda il manicaretto, molto amato dalle donne del rione, le “Regolante”: «Le Regolante/ so’ ttutte magna code e sso’ ccarine/ so’ ttutte magna code e sso’ ggalante».

Anche il poeta Gioacchino Belli, nato fra le antiche mura della Città Eterna il 1791 e deceduto nel 1863, ha dedicato alcuni dei suoi sonetti romaneschi  alla cucina del popolino: «Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli,/ allesso de vaccina e ggallinaccio,/ garofolato, trippa, stufataccio,/e un spido de sarsicce e ffeghetelli…», scrive nel “Pranzo de le minente” e cioè le donne “eminenti”, coloro che  erano popolari  nei rioni romani.

Come lo era a Trastevere Giuditta Tavani Arquati che il 25 ottobre 1867 fu sventrata dalle baionette dei mercenari zuavi  al servizio dello Stato Pontificio.

Quando venne uccisa, pistola in mano,  insieme al figlioletto dodicenne Antonio, aveva  da poco finito di servire ai suoi compagni di sventura il sostanzioso pranzo preparato quella mattina, a base di piatti tradizionali, fra cui  una corroborante scodella di pasta e fagioli e un bel pezzo di vitella al forno che le era giunta dal Maccarese, una grande tenuta sulla via Aurelia dove si allevava la migliore carne bovina dell’Alto Lazio e  che  il Belli cita in altro sonetto: «… E intanto faà venì da Maccarese/ la più mejo vitella che ce sia…».

Probabilmente Giuditta la preparò  alla “fornara”, un tipico piatto romano ispirato alla “Fornarina”, tale Margherita Luti, la leggendaria donna che Raffaello immortalò nelle sue pitture, figlia di un fornaio di Trastevere: davanti alla sua immaginaria dimora trasteverina citata nelle guide, a ridosso della storica Porta Settimiana, sostano migliaia di  turisti, favoleggiando sugli amori del pittore e della sua musa.

Ma nessuno di loro, perché nei manuali  turistici non se fa cenno, passando per la vicina  via della Lungaretta  alza lo sguardo davanti al n° 97 dove, sulla facciata del palazzo che una volta era il Lanificio Ajani, c’è  il busto di Giuditta Tavani Arquati e la lapide che rammenta il tragico eccidio dei patrioti romani. Furono collocati dieci ani dopo,  il 25 ottobre 1877, dai cittadini di Trastevere e dalla Società Operaia Romana che d’allora sono gli addetti alla manutenzione del piccolo monumento.

**PETTO DI VITELLA ALLA FORNARA

Ingredienti per 6 persone:

1 petto di vitella di circa 1 kg

1 kg di patate

1/2 bicchiere d'olio

1/2 bicchiere di vino bianco secco dei Castelli romani

3 spicchi d'aglio

Rosmarino

Salvia

sale, pepe

Preparare una marinata tritando  l’aglio, un mazzetto di  rosmarino, 4 foglie di salvia e l’olio con la quale verrà ricoperto   il petto dopo averlo collocato in una teglia unta. Salare e pepare e lasciare marinare per mezz’ora circa.

Nel frattempo pulire le patate e tagliarle a tocchetti. Poi cuocere il tutto  a forno medio, bagnando la carne ogni tanto col suo fondo di cottura. Infine, quasi alla fine, spruzzare col vino e finire di cuocere.

 Servire la carne tagliata a fettine, di circa un dito di spessore,  cosparsa con la salsina di cottura precedentemente passata e con le patate arrostite.

Per un piatto meno calorico si può accompagnare  con della insalatina romana, o “misticanza” a base di borragine, cicorietta, rughetta, e altre erbe profumatissime e leggermente amarognole, raccolte una volta  negli orti “fuori porta” della città.

Naturalmente, in memoria dei tanti patrioti che lottarono per porre fine al dominio dello Stato Pontificio sul Lazio, è d’obbligo accompagnare questo piatto con  i vini locali: un Velletri rosso doc, ad esempio. Ma anche un bianco secco dei Castelli, le cittadine dei Colli Albani situate a breve distanza da Roma, risalta il sapore del piatto. Ai suoi celebri vini che una volta si bevevano durante le scampagnate dell’ottobrata romana, è dedicata una popolare canzone di Ettore Petrolini: « ‘Na gita a li Castelli», meglio conosciuta come «Nannì».

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