Maggio Musicale Fiorentino

TURANDOT: l'ultimo capolavoro di Puccini inaugura la parte operistica dell'ottantaseiesimo festival, con la splendida regia firmata da Zhang Yimou

Ritorna l'allestimento "della città proibita" del 1997 che ebbe un grandissimo successo nella stessa Cina, con la direzione dello stesso Mehta. Trionfale l'esito della prova generale.

di Domenico Del Nero

TURANDOT: l'ultimo capolavoro di Puccini inaugura la parte operistica dell'ottantaseiesimo festival, con la splendida regia firmata da Zhang Yimou

L’ultimo enigma di Turandot?  il finale:” Gli enigmi sono tre; la morte è una “dichiara algida la principessa nell’accettare la sfida del Principe Ignoto (Calaf); e sembra aver avuto ragione.  Puccini, implacabile cantore delle tragiche nozze eros/Thanatos, (amore e morte) non riuscirebbe a concepire l’amore come forza che dà la vita, che sgela e trionfa; e la principessa di ghiaccio non poteva certo essere “sgelata” dalla fiammella del pur onesto Alfano. “Come nel Parsifal col cambiamento di scena al terzo atto, trovarsi nel San Graal cinese? Tutto fiori rosa e tutto spirante amore? “ Così Puccini aveva scritto, già nel 1921 con una punta di perplessità, a Giuseppe Adami, autore insieme a Renato Simoni del libretto dell’opera, testo dalla genealogia alquanto complessa.

Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta. A questo punto, il maestro è morto. Non c’è intenditore d’opera che quando si tratta di Turandot, non vada col pensiero alle parole con cui Arturo Toscanini interruppe l’opera alla scena della morte di Liù nel terzo atto, in occasione della prima – postuma – alla Scala il 25 aprile 1926. Il finale composto da Franco Alfano, che aveva lavorato su quei 23 fogli di appunti che Puccini aveva portato con sé in quell’ultimo e fatale viaggio a Bruxelles, nel novembre 1924, sarà eseguito solo la sera seguente.

“ Penso ora per ora, minuto per minuto, a Turandot e tutta la musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più. Sarà buon segno?  Io credo di sì”  – scriveva Puccini  a metà nel 1924 ; e il novembre di quello stesso anno, alla vigilia della partenza per Bruxelles: Turandot? Non averla finita mi addolora. Guarirò? Potrò finirla in tempo?

Ma non si può certo ridurre il fascino di questo grande capolavoro al finale più o meno mancato: e così il Maggio Musicale Fiorentino punta sulla principessa per inaugurare la parte operistica dell’86° festival: e così Domenica 21 aprile 2024 alle ore 20, nell’anno del centenario di Giacomo Puccini, torna sulle scene del Teatro del Maggio “Turandot”, con la direzione del direttore emerito Zubin Mehta e nello storico allestimento firmato dalla regia di Zhang Yimou, ripresa da Stefania Grazioli; la recita sarà trasmessa in diretta su Rai Radio tre.  Repliche 21, 24, 30 aprile e 3 maggio alle ore 20 e il 27 aprile alle ore 15:30.

E sempre a proposito di enigmi … ce ne sarebbe anche un altro e cioè come procurarsi il biglietto, perché tutte e cinque le repliche degli spettacoli hanno registrato il tutto esaurito già da diversi giorni. Un ottimo segnale per Il Maggio che solo pochi giorni fa, con il suo sovrintendente di fresca nomina Carlo Fuortes, ha rilanciato il suo festival e in generale la sua immagine e le proprie idee per il futuro con un cauto ma giustificato ottimismo; nonostante, come ha ricordato in quella circostanza con sacrosanta e giustificatissima amarezza il direttore principale Daniele Gatti, la stampa (e aggiungiamo noi, spesso  i social) non abbia certo aiutato il teatro nel terribile momento di crisi appena trascorso,  ignorando quasi sempre io grandi sforzi degli artisti e del personale del teatro per uscire dal tunnel.

Lo spettacolo dunque è un allestimento storico che ha conquistato il cuore dei fiorentini e  non solo: splendido per le scene, i costumi, i movimenti scenici che sono una vera e propria “fotografia” della città proibita, cuore del Celeste Impero; e fu proprio il maestro Mehta a volere Zhang Yimou per quella edizione fiorentina del 1997 di Turandot, la prima da lui diretta al Maggio e che ebbe fin da subito, come detto, uno straordinario successo. Un successo tale da essere portata l’anno successivo, dopo lunghe trattative, in Cina, nella leggendaria Città Proibita di Pechino – fino ad allora mai concessa per spettacoli dal vivo –  e dove Zubin Mehta diresse l’Orchestra e il Coro del Maggio in nove memorabili serate consecutive davanti a oltre 4000 persone per ogni singola recita, segnando una delle tappe più importanti della storia del Maggio. Da ricordare inoltre il grande successo dell’opera in occasione delle tournée a Tokyo nel 2001 e 2006, sempre nell’allestimento di Zhang Yimou con la direzione di Zubin Mehta.

Protagonista della vicenda, naturalmente, la “principessa di gelo”  Turandot, che – come sottolineato dal sovrintendente Carlo Fuortes – è una delle tre grandi eroine intorno alle quali si concentrerà la programmazione lirica dell’86ºFestival del Maggio: “Protagoniste assolute della programmazione operistica del Festival saranno tre donne e – proprio in occasione dei cento anni dalla morte di Giacomo Puccini –   avremo due grandi eroine pucciniane, Tosca e Turandot, in mezzo a loro ci sarà Jeanne Dark in una nuova opera contemporanea di Fabio Vacchi”.

Queste tre grandi donne sono inoltre le figure centrali del manifesto del Festival, realizzato da Francesca Banchelli in collaborazione con il Museo Novecento nel quale Turandot, Giovanna d’Arco e Tosca sono rappresentate come un’immagine trinitaria degli archetipi femminili, con una forte predominanza di colori accesi e luci forti, come per una vera e propria scena teatrale.

Oltre alla regia e alla direzione, di ottimo livello anche il cast : Olga Maslova e Eunhee Maggio (recita del 3 maggio) nella parte della principessa Turandot; SeokJong Baek e Ivan Magrì (recite del 27 e 30 aprile) interpretano Calaf; Valeria Sepe è Liù; Simon Lim è Timur mentre Carlo Bosi interpreta Altoum. Lodovico Filippo RavizzaLorenzo Martelli e Oronzo D’Urso sono rispettivamente Ping, Pang e Pong mentre Qianming Dou interpreta Un Mandarino. Chiudono il cast tre artisti del Coro del Maggio: Davide Ciarrocchi nel ruolo de Il principino di Persia, Thalida Marina Fogarasi Anastassiya Kozhukharova come le due Ancelle di Turandot. Protagonista inoltre in scena il Nuovo BallettO di ToscanA. Il maestro del Coro del Maggio è Lorenzo Fratini, la maestra del Coro di Voci Bianche dell’Accademia del Maggio  Sara Matteucci. Sebbene la prima sia domenica, c’è già stata la prova generale giovedì 18 aprile che ha registrato un vero e proprio trionfo: ottima la prestazione di tutti, maestro, orchestra, coro e solisti, per non parlare della regia e della impostazione scenica,  tutti accolti alla fine della recita con ben nove minuti di applausi entusiastici (ma per questo si rimanda ad apposita recensione).

E a proposito di questa giustamente famosa regia: protagonista di assoluto rilievo nella storia del cinema orientale e internazionale negli ultimi decenni, Zhang Yimou è fra i più importanti cineasti della cosiddetta quinta generazione del cinema cinese, ossia quel gruppo di registi che fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta permise, in pochi anni, l'affermazione del cinema del loro paese sul piano internazionale. 

Il suo straordinario allestimento di Turandot – che segnò inoltre il suo esordio nel mondo dell’opera – debuttò al Teatro Comunale, con la direzione di Zubin Mehta, il 5 giugno del 1997 raccogliendo fin da subito un enorme successo di pubblico e di critica; anche le scene e i costumi ideati da Gao Guangjian, Zeng Li, Huang Haiwei, Wang Yin furono al centro degli elogi; i costumi in particolare hanno numeri quasi da produzione hollywoodiana, essendo formati da 1892 pezzi complessivi.

Parlando del lavoro svolto e del suo impatto con l’opera di Puccini nell’intervista rilasciata per il libretto di sala del 1997, Zhang Yimou ha sottolineato di come il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni sia veramente marcato da tratti profondamente cinesi: “Quando ho accettato di mettere in scena quest'opera al Maggio ho adottato un approccio multiplo: mi sono immerso nell’ascolto della musica pucciniana, ho studiato il libretto, ho visto in video molte edizioni di Turandot e ho assistito alla produzione andata in scena a Pechino nel '96.

Proprio in riferimento al libretto, se ad un primo approccio mi è sembrato che l’ambientazione cinese fosse solo uno sfondo esteriore, in seguito, approfondendo lo studio, mi sono accorto che c’è una base reale; prendiamo, ad esempio, il personaggio di Liù: nella letteratura cinese, una donna che si sacrifica per amore, che subisce violenze dal "potere" è un elemento ricorrente e tradizionale, una figura comune. Un tipo di donna che si avvicina ad alcune protagoniste anche dei miei film. Questo dimostra che il libretto di Turandot ha dei tratti profondamente cinesi. Per quello che riguardi i personaggi, ad esempio il dualismo che si crea fra la principessa Turandot e la schiava Liù, io ho tentato di riequilibrare questo rapporto, per cui non c'è una sola protagonista. C'è questo antagonismo fra una vincitrice ed una perdente, fra una donna di potere e una schiava, ma c'è anche un legame significativo: la domanda d'amore di Turandot trova risposta nel sacrificio di Liù. Per questo motivo la principessa, nella mia visione, è molto turbata dal suicidio della giovane schiava ed ho risolto questa scena con un gesto teatrale, che non voglio rivelare, ma che avvicina le due donne, così da riequilibrare, appunto, il loro rapporto.

Nel mettere in scena questa produzione, ho studiato per otto mesi, cercando quasi un centinaio di soluzioni diverse. Poi ho deciso, insieme ai miei collaboratori, di realizzare questa Turandot come una ‘vera’ opera cinese, diversa dunque dalla tradizione interpretativa cui è abituato il pubblico italiano. Ma poiché l'opera cinese ha un'antica tradizione, adottando queste soluzioni tutto per me è divenuto più chiaro, più facile e pieno di significato: per noi non è tanto importante ciò che vediamo, ma esprimere l'essenza e la poesia che è propria di ogni vera arte, in Oriente come in Occidente, e dunque superare il dato oggettivo. Così ho immaginato il finale dell'opera: come un momento di unione fra cultura occidentale ed orientale, attraverso una sorta di teatro nel teatro, che vedrà svolgersi contemporaneamente alla scena conclusiva di Turandot la rappresentazione di altre otto opere cinesi. Ed il punto di contatto è dato proprio dall'universalità dei sentimenti, mentre il messaggio che vorrei lanciare è un messaggio di speranza in un mondo migliore, in una cultura comune”.

In questa occasione, la regia dell’opera è ripresa da Stefania Grazioli che da poche settimane riportato in scena un’altra produzione storica del Maggio, il Don Pasquale di Jonathan Miller diretto da Daniele Gatti: “Sono davvero felice di poter riprendere e portare sul palcoscenico della Sala Grande la regia di Zhang Yimou: farlo è stata davvero una sfida, riuscire a coordinare – nei movimenti in scena – circa 200 persone è davvero molto impegnativo. Anche da un punto di vista scenico, il regista ha lavorato molto su una gestualità ‘orientale’ dei personaggi, con un approccio registico quasi minimalista per quello che riguarda le movenze di chi è in scena: per noi che magari siamo abituati a regie più ‘occidentali’ e dinamiche è stato davvero molto intrigante confrontarci con questo tipo di lettura”.

Turandot capolavoro assoluto? Senza dubbio.  Turandot è l’opera di Puccini più complessa e avanzata , tutt’altro che facile (….) ci si chiede come mai sia diventata popolare “ (Alfredo Mandelli); [1] e secondo Michele Giraldi,   “Un dato però è certo: Turandot è il vertice dell’arte pucciniana per quanto riguarda la tecnica orchestrale, la vocalità, il trattamento del ritmo, l’armonia, e in particolare per la compattezza con cui questi parametri vengono fusi determinando un organismo inscindibile.” [2]  In Turandot, infatti, troviamo un’orchestra molto complessa in buca ma anche una seconda , interna, di ottoni, saxofono, percussioni e organo; e l’orchestra, esattamente con il coro ora crudele e beffardo, ora inneggiante, ora partecipe quasi con tenerezza alle sventure dei personaggi (basti pensare all’improvviso passaggio, nel  primo atto, dalla gioia crudele per l’esecuzione  imminente del principe di Persia al dolore e alla compassione quando questi compare in scena (Perché tarda la luna / O giovinetto!) ) diventa boitianamente un personaggio tra gli altri, in quanto determina l’atmosfera momento per momento,inventando effetti coloristici che sono preziosi e violenti al tempo stesso:

“Ma la vicenda si era avviata coi colori rossastri del tramonto – ritmo tesissimo, movimento continuo, percussioni scatenate – che digradano verso il blu più intenso nel momento in cui il popolo attende fremente la luna piena per vedere decapitato l’ultimo sfortunato pretendente della loro sovrana. Istanti spasmodici immersi in una stasi armonica quasi totale (…).

Quando Turandot appare muta sul loggiato un raggio la illumina e collega la sua bellezza incorporea al turbamento che coglie Calaf. Poco ci vorrà all’innamorato per precipitarsi sul gigantesco gong che campeggia sullo sfondo: non è solo uno strumento musicale, ma anche aggeggio indispensabile alla finzione, poiché percuoterlo significa iniziare a giocare con la morte. “

E’ un passaggio della brillante analisi di Giraldi, il quale nota tra l’altro come un ingrediente “tradizionale” quale l’unità aristotelica di tempo (l’azione che deve svolgersi entro un “giro di sole”) diventi il pretesto per tracciare un percorso nel quale proprio lo scorrere inesorabile delle ore, nel corso dei tre atti, diventa il vero protagonista del dramma,  venendo così ad assumere un valore simbolico.[3]  Se infatti la scena si apre con l’attesa angosciosa della luna,  le varie fasi della giornata (o meglio, della nottata) si avvicendano in un simbolico  susseguirsi di colori, fino al bianco dell’alba che avrebbe dovuto vedere la vittoria di Calaf ( all’alba vincerò)  e i primi raggi di sole illuminare il “disgelo” di Turandot.

Un organico strumentale raffinato e complesso, con strumenti e percussioni inconsuete e orientaleggianti : tam tam, gong cinesi con nove altezze sonore, xilofono, celesta etc. evoca i colori di una Cina fiabesca e crudele, fuori dal tempo ma senz’altro più un incubo novecentesco che un sogno esotico di stampo romantico; e dove accanto a una articolazione tematica e sinfonica emerge anche un’ossatura costituita dal succedersi dei tradizionali “pezzi chiusi”, tipici del melodramma italiano.  Ma non si tratta affatto di un limite, bensì di una formula innovativa che riprendeva del resto le indicazioni dell’ultimo Verdi, via Boito e che avrebbe potuto avere  un grande sviluppo.

La fabula; da Gozzi a Puccini.

Turandot è tratta da una “fiaba teatrale” in cinque atti rappresentata a Venezia nel 1762, opera del rivale di Goldoni Carlo Gozzi (1720-1806) tratta da L’histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine presente in un’edizione francese settecentesca del ciclo di fiabe persiane Le mille e un giorno. Si tratta di un testo abbastanza complesso, in 5 atti, che rientrava nel gusto dell’esotico comune a certo Illuminismo e al Romanticismo; non per nulla aveva già interessato Carl Maria von Weber (nel 1809) e soprattutto Ferruccio Busoni che nel 1904 scrisse una suite in otto movimenti e nel 1917 un’opera in due atti molto ammirata da Puccini, che decise di accostarsi a sua volta al testo nel 1920 su proposta di Renato Simoni. I librettisti lavorarono peraltro su una versione del testo scritta da Schiller e ritradotta in italiano da Andrea Maffei nel 1867; un iter davvero complicato. La trama, che nel libretto è molto semplificata rispetto all’originale,  è assai nota:  in una Cina del tempo della favole Turandot ha estorto al padre, l’imperatore Altoum,  la promessa di concederla in sposa solo a chi “di sangue regio/sciolga i tre enigmi ch’ella proporrà … ma chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa” E la testa ce la hanno rimessa già in dodici. Proprio in occasione dell’esecuzione dell’ultimo (il principe di Persia) giunge a Pechino il principe esule Calaf, che nel mezzo della folla ritrova il vecchio padre cieco, il re spodestato Timur ,guidato dalla schiava Liù che segretamente ama Calaf. Ma la gioia dura poco; Calaf vede Turandot, se ne innamora e decide di tentare la prova. Condotto in pompa magna da Altoum,  il principe sfida l’Algida Turandot e scioglie i tre indovinelli;  e poiché lei, disperata, non vuole saperne di sposarlo, le propone di scoprire il suo nome: se ci riuscirà, sarà il tredicesimo decapitato e lei sarà libera. Calaf conta sul fatto di essere sconosciuto a tutti, ma le spie scoprono Liù e Timur e si apprestano a interrogarli; ma la giovane, coraggiosa schiava dichiara di conoscere lei sola il nome e si suicida per evitare di rivelarlo tra i tormenti.   Calaf è sdegnato ma  bacia la principessa, che a comincia a cedere alla forza dell’amore. All’alba la resa finale davanti alla corte al completo.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Alberto CANTU’, L’universo di Puccini da Le Villi a Turandot, Varese, Zecchini editore, 2008, p. 198

[2] Michele GIRALDI, Turandot, l’ultimo esperimento, http://www-5.unipv.it/girardi/tura.PDF, p. 2 

[3] Ibidem, p.3

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