Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
“Ho costruito con le mie proprie mani lo strumento della mia tortura”. Così in una lettera al grande amico e studioso francese Camille Bellaigue del 7 luglio 1901 Arrigo Boito definiva il Nerone, vero e proprio opus magnum della sua vita che lo accompagnerà, almeno nel progetto, sin dagli anni giovanili: “Sono sotto l’influsso magnetico di Tacito e medito un gran melodramma, che sarà battezzato con un terribile nome: Nerone. È il 1862, il giovane poeta musicista ha appena vent’anni, reduce da poco da quel viaggio a Parigi dove aveva incontrato Rossini e molto probabilmente il suo nume tutelare per quanto concerne l’ispirazione poetica, Baudelaire. E questo non è neppure il primo accenno alla sua seconda opera, che salirà alla ribalta, postuma, soltanto nel 1924.
Quel 1901 era stato un anno importante perché finalmente il testo poetico del Nerone aveva visto la luce ed era stato pubblicato: non libretto ma tragedia, come l’autore stesso aveva scritto in suo articolo di tanti anni prima rivendicando la dignità letteraria del testo poetico del melodramma, che per solito era l’ultima delle preoccupazioni di librettisti e compositori. Anche in questo Boito fu veramente rivoluzionario: i suoi drammi per musica – Falstaff è forse il capolavoro assoluto – sono incomparabilmente superiori a quanto si produceva in Italia per buona parte dell’Ottocento, anche per questo poi ha finito paradossalmente per ridurlo nella communis opinio a un semplice “librettista”, ignorando la sua attività di poeta, scrittore e musicista.
Nerone dunque, la seconda opera totale di Boito in cui l’artista demiurgo, alla maniera di Wagner e degli antichi tragediografi greci, è contemporaneamente poeta, musicista, regista e coreografo, ebbe un destino esattamente opposto a quello del Mefistofele: dopo un esito trionfale alla Scala nel 1924, è progressivamente scomparso dai palcoscenici italiani, anche se non proprio del tutto da quelli stranieri, come si può vedere da alcune registrazioni - non eccelse, per la verità - che circolano su Youtube. È stata dunque una graditissima sorpresa per gli appassionati di Boito e in generale per chi non si accontenta del repertorio operistico “tradizionale” vedere finalmente il Nerone grazie alla bellissima programmazione del teatro lirico di Cagliari, che già aveva messo in scena nell’autunno scorso un molto apprezzato Mefistofele. La grande opera boitiana sulla controversa figura del sesto Cesare inaugurerà la stagione 2024 nel capoluogo sardo venerdì 9 febbraio alle ore 19.30, con ben 9 repliche sino al 18 febbraio.
Rimandiamo a un successivo articolo la presentazione dell’opera e qualche dettaglio sulle rappresentazioni cagliaritane. Il cast comunque è di altissimo livello, a partire dal regista Fabio Ceresa, con lo scenografo Tiziano Santi e Francesco Cilluffo come direttore d’orchestra.
Il maestro Cilluffo è senza dubbio la bacchetta ideale per questa operazione. Lo provano intanto il suo curriculum: direttore principale del Wexford Festival Opera, Cilluffo ha una collaudata esperienza in titoli non di repertorio: ad esempio il Campiello di Ermanno Wolf Ferrari e le Braci di Marco Tutino al Maggio Musicale Fiorentino, due spettacoli splendidi in cui ha restituito tutta la magia del compositore “goldoniano” e l’emozione di un capolavoro contemporaneo; sempre di Tutino ha diretto di recente l’opera la Ciociara a Wexford con grande successo di pubblico e critica. E poi Cilea, Mascagni, Catalani: nomi che per molti, troppi sono nel migliore dei casi legati a un’unica opera o poco più. Inoltre il maestro ha una conoscenza approfondita e davvero appassionata dell’opera boitiana, come abbiamo avuto modo di constatare nella cortese intervista che ci ha accordato.
Nerone è l’opera che ha tenuto occupato Boito per buona parte della sua vita, tanto che qualcuno, malignamente, parlò di opera “nata vecchia”. Qual è l’impressione che si ha lavorando direttamente sulla partitura?
Esattamente il contrario. Ho la fortuna di vivere con questo lavoro ormai da un anno, studiandolo e entrandoci dentro; se c’è una parola che assocerei a Nerone è avanguardia. La cosa bella di lavorare a un’opera poco conosciuta è che chi la ricrea vive in una sorta di scoperta perenne: la si scopre facendola, e la sensazione che abbiamo avuto è quella di trovarci difronte a un unicum nella storia dell’opera italiana e non solo. Pur essendo scritta con un linguaggio che rispecchia i sessanta anni della sua gestazione sembra quasi anticipare questi grandi ipertesti molto moderni. Affermo una cosa che non so quanto possa essere condivisibile, ma a mio parere il Nerone di Boito è la cosa più vicina che l’opera italiana abbia avuto più vicina all’Ulisse di James Joyce: un’opera unica complessa all’interno della quale si trova di tutto a livello di rielaborazioni, citazioni, riferimenti; un’opera che non finisce mai di raccontarci quello che ha da dire e nello stesso tempo un compendio di quello che è successo in quei decenni incredibili, in tutti i cambiamenti del periodo in cui è stata scritta.
Quando parla di citazioni e rielaborazioni, intende solo nel testo o anche nella musica?
Nerone non è solo l’opera di un compositore, ma di un personaggio fondamentale della cultura italiana: comincia a scriverla quando la scapigliatura è un fenomeno ancora vivo e viene terminata nel 1911, anno in cui muore Mahler; quest’arco incredibile di tempo è tutto presente, senza che ci siano vere e proprie “citazioni” ; nel testo sì, (Tacito Svetonio, le Pseudoclementine, Dante, etc) ma a livello musicale non tanto citazioni ma “gesti” che richiamano opere ben precise, senza citarne direttamente la musica: così il duetto tra Fanuel e Simon Mago del 1°atto ricorda il prologo del Simon Boccanegra o qualcosa qua e là di Otello e Falstaff ; si potrebbero poi definirle anche autocitazioni, considerando il contributo boitiano a questi capolavori. E poi non manca Wagner: L’inizio del duetto fra Nerone e Asteria nel secondo atto, (il tempio di Simon Mago) è un omaggio quasi dichiarato all’inizio di Walkiria.
Anche se oggi assai meno che in passato, c’è sempre una certa difficoltà ad accettare il Boito operista, per molto tempo snobbato o peggio ancora stroncato da buona parte della critica. Per quale ragione a suo parere?
Penso che ancora oggi manchino la cultura e la prospettiva storica per capire l’importanza che avevano all’epoca questi compositori, anche se la situazione è adesso decisamente migliore. Il problema è che ci è stata inculcata una visione evoluzionistico – positivista delle cose: più si va avanti, più una cosa è moderna, meglio è; quindi chi si discosta da questo presupposto viene emarginato. La realtà invece è un’altra. Nel 1893 l’università di Cambridge conferisce una laurea honoris causa ad alcuni compositori; era stato convocato Verdi, ma non essendo lui non disponibile viene convocato Boito che dirige il prologo del Mefistofele. Insieme a lui Max Bruch, Camille Saint Saëns e Pëtr Ilich Ciajkowky a rappresentare i rispettivi paesi. E non è un caso che Arturo Toscanini abbia portato avanti tanto a lungo la causa di Boito e del Nerone; per lui come per molti almeno sino a inizio ‘900 non era affatto scontato che l’erede di Verdi fosse Puccini: anzi noi sappiamo che Toscanini portava avanti due grandi compositori, Boito e Catalani e questo ci fa capire quanto la Scapigliatura fosse ancora presente nel contesto culturale italiano ; e nel secondo dopoguerra Toscanini torna alla Scala con estratti di Mefistofele e Nerone, in un memorabile concerto del 1948. Mi è stato chiesto durante le prove perché adesso ci si è “riconnessi” a Boito: forse come Mahler è stato a lungo bistrattato fino agli 70 quando infine tutti erano e pronti a recepirlo, oggi questo sta accadendo con Boito ad altri compositori più o meno coevi; forse perché oggi pluralismo e interdisciplinarietà non sono più visti come un difetto.
E quindi possiamo azzardarci a definire Mefistofele e Nerone due capolavori?
Assolutamente sì! Del resto la mia storia della mia carriera è legata a tante riscoperte, a tanto repertorio che ho amato sin da giovanissimo; devo dire però che questa del Nerone è un ‘esperienza per me unica, perché mi rendo conto di avere tra ea mani un testo di una profondità e di una complessità che è difficile possedere al 100%. Ovviamente tutte le grandi opere hanno sempre qualcosa da dire: anche su Tosca Bohème Falstaff non siamo certo in grado di dire una parola definitiva. Tuttavia c’è una dimensione così profonda e stratificata di quest’opera che sono senz’altro d’accordo nel definirla un capolavoro, ma un capolavoro che nel suo esser tale non può esser paragonato con nulla. Io non mi faccio problemi nell’azzardare vari paralleli e dico che ci sono passaggi per archi che potrebbero essere scritti da Sibelius; ma soprattutto se devo pensare a un altro melodramma che è un unicum, sia a livello sonoro che per di tipo di drammaturgia mi viene in mente solo l’Oedipe di George Enescu, un ‘altra opera “unica” su un grande personaggio della cultura classica. E secondo me c’è un qualcosa a livello di percezione culturale, di identificazione con la figura di Nerone che evidentemente affascinava ma riempiva di dubbi e di difficoltà “gestazionali” e non solo Boito, tra l’altro. Se pensiamo anche al Nerone di Mascagni, trovo che sia molto interessante l’idea che pur essendo due opere che più diverse non potrebbero essere, anche per il compositore livornese Nerone è stato il frutto di un lavoro di 50 anni; noi sappiamo che Mascagni si interessò a Nerone sin dall’uscita del dramma di Pietro Cossa nel 1872, tanto che Boito fu sollecitato da Verdi a sbrigarsi per evitare la… concorrenza! Quindi anche Mascagni si portò dietro il Nerone per mezzo secolo. Ai primi del ‘900 Mascagni aveva già affrontato la sua opera Romana anche se in modo discontinuo per cui quando poi la mette in scena nel 1935 anche la sua è un’opera che attraversa mezzo secolo di musica, con passaggi più tradizionali e recitativi orchestrali modernissimi e non faccio il nome di Sibelius a caso perché il compositore finlandese fu uno dei primi a mandare un telegramma di auguri a Mascagni. Le due opere rappresentate a 11 anni di distanza, avevano tra l’altro due grandi interpreti tra i protagonisti in comune, Aureliano Pertile e Rosa Raisa.
In conclusione, l’edizione di Cagliari; può dirci qualcosa sulla sua impostazione? C’è sintonia con il regista?
Sono stato molto contento della scelta di Fabio Ceresa come regista; avevo già lavorato con lui per il Guglielmo Ratcliff di Mascagni a Wexford – opera senz’altro problematica ma legata a un repertorio ahimè desueto che quindi necessita ancora più del repertorio classico di una forte consapevolezza culturale ed estetica. Per quanto mi concerne sono fermamente del l’idea che soprattutto i testi che non fanno parte del linguaggio comune dell’opera come Bohème, e soprattutto quelli di un certo periodo, debbano essere messi in scena da chi non rifiuta il libretto ma soprattutto da chi non rifiuta l’humus culturale in cui queste opere sono state scritte. Quando ho fatto Edmea di Catalani a Wexford, ho chiesto alla regista se avesse mai visto un quadro di Tranquillo Cremona, indispensabile a comprendere il contesto culturale di quell’opera.
Per fortuna Fabio Ceresa ha una competenza e una cultura, classica e non talmente vasta che alle prime prove di regia ci siamo messi seduti con i cantanti a esaminare tutti i riferimenti culturali che per lui erano assolutamente chiari e molto diretti, per cui non posso parlare a suo titolo ma posso dire che è un lavoro di grandissimo rispetto del testo, dei decenni di cultura italiana che esso rappresenta e della figura di stessa di Boito. Solo un episodio per far capire quanto lui abbia a cuore quest’opera: quando io e lui ci siamo conosciuti anni fa lavorando insieme per la prima volta aveva un indirizzo email con il nome di Fanuel! (uno dei protagonisti del Nerone, n.d.r.)
Perfetta … armonia, dunque
Stiamo parlando dunque di qualcuno che è cresciuto con questi riferimenti… Io sono stato abbastanza fortunato ma ho sentito di colleghi che hanno lavorato con registi che non avevano neppure letto il libretto. Poi certe scelte possono o meno piacere, ma assicuro che siamo tutti a lavorare per portare al pubblico il messaggio di un’opera assolutamente fondamentale per la cultura italiana e non solo: una sorta di macchina del tempo per il periodo che copre. Non disponiamo purtroppo al momento di un serio apparato critico che ci consenta di determinare quando è stata scritta ogni singola scena: ci sono ad es. passaggi che sembrano Mahler e se sono stati scritti nel 1875 allora è una cosa “visionaria”, se nel 1910 è sempre bella ma parla di un’altra epoca. Non che questo sia così importante; quel che conta è che è il lavoro di una mente superiore. Parlandone con lo staff del teatro, dicevamo che c’è una magia armonica incredibile in Nerone, come il duetto Asteria Nerone del secondo atto. Anche tralasciando che alcuni dettagli della strumentazione possono essere stati aggiunti da Toscanini, le armonie sono assolutamente incredibili, soprattutto pensando che è un compositore che si tratta di un unicum; le opere di Puccini sono senz’altro geniali ma molto spesso ci sono topoi armonici che ritornano, mentre Nerone è sbocciato inaspettatamente, perché Mefistofele da un punto di vista armonico è molto più figlio del suo tempo. Da un punto di vista di arditezza armonica e concatenazione di soluzioni Nerone non sembra neppure opera dello stesso autore, ovviamente tenendo anche conto della lezione wagneriana, qui molto più presente.
Il maestro Francesco Cilluffo
Inserito da giovanni il 20/02/2024 21:04:15
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