Calunnie e doppiopetto blu

L'eleganza di Peter e le paure di Steven

Eleganza e paura. Abiti gessati e manichini. Scarpe di coccodrillo e follia pura (Cap. 32)

di  

L'eleganza di Peter e le paure di Steven

Manichini e follia

Peter, per il suo modo di vestirsi, spesso veniva definito dai suoi amici o conoscenti di Hoboken, ma anche oltre, un novello Lord Brummell, un uomo dall’ eleganza molto personalizzata. Questo nomignolo gli era stato cucito addosso da coloro s’intendevano di moda, da chi amava abbigliarsi bene, mentre altri lo definivano, le persone non proprio modaiole, un esibizionista del lusso sfrenato o qualche pseudo intellettuale, con la puzza sotto il naso, un “eccentrico snob di periferia” uno cioè che indossava abiti personalizzati per far notare la propria posizione sociale.

Sì, inutile negarlo, Peter Cummings era un eccentrico, ma perché se lo poteva permettere, in quanto la sua eccentricità veniva aggiunta all’ eleganza del suo insieme, solo lui poteva vestirsi in tal maniera. Certune volte la sua finezza raggiungeva la perfezione stilistica sebbene molti la definissero solo ostentazione offensiva, una specie di aggressione morale a chi non arrivava alla fine del mese con lo stipendio da operaio o impiegato. Ma Peter cosa poteva farci? In fondo quello era il suo unico vero, definiamolo, hobby; non fumava, non beveva ed era tutto concentrato sulla  famiglia. I veri amici lo definivano molto elegante e questo era il suo marchio di fabbrica, il resto non contava.

Il suo must dell’abbigliamento era il doppiopetto, blu o grigio, a principe di Galles o gessato, molto spesso accompagnato da pantaloni di diverso colore, sempre in tono, ma anche da vestito intero.

Elegantissimo il suo completo grigio/Principe di Galles con egual pantaloni strettissimi in fondo (16 cm.) sovrastante una camicia bianca dal collo alla francese avente i polsini bloccati da gemelli a forma di giglio in ceramica blu, sovrapposta da una cravatta grigia, sette pieghe, in cashmere a piccoli pallini azzurri. Nel taschino della giacca, ad altezza cuore, una deliziosa pochette bianca evidenziante il ricamo di un giglio turchese. Scarpe di coccodrillo nere, a stivaletto, ospitanti dei calzini grigi sempre con piccoli gigliucci stampati, di tonalità oltremare.

Cosa c’era di più elegante di simili accostamenti, ci sarebbe mai stato qualcuno che avrebbe potuto obbiettare a tanta ricercatezza? Ma certo che esisteva, anzi che esistevano. Alcuni affermavano che Peter portasse pantaloni così stretti, in fondo, semplicemente per farsi vedere le scarpe di cocco fatte su misura; che non esisteva uno indossasse calzoni così corti, che era solo frivolezza da anticonformista, da snob di periferia.

Cos’era l’eleganza per Peter? Egli quasi sempre spiegava, a chi glielo chiedeva, che questo dono naturale altri non era che una reazione degli occhi quando, esemplificando, stanno osservando un bel quadro. L’occhio viene immantinente catturato e il bersaglio principale dell’ azione visiva è il volto. Lo sguardo si rende conto dell’ovale e dei capelli che ne accentuano i tratti. Capelli a spazzola o ricci o cortissimi daranno al volto un aspetto, di volta in volta, sbarazzino, importante o ruvido come quello di un pugile nel caso appunto di capelli cortissimi. L’occhio poi tende a scendere al petto e nota che il colore della cravatta si combina perfettamente al vestito e la camicia fa risaltare maggiormente la tonalità della pelle; poi ravvisa il vestito, il suo colore, il taglio sartoriale e la sua adattabilità, se tutto cioè coincide perfettamente o se il taglio lascia a desiderare e la tonalità non si adatta al soggetto: in questo caso, allora, l’ uomo può essere considerato solo coperto e non vestito ad hoc. In seguito l’occhio si concentrerà sugli accessori come la pochette nel taschino, i gemelli, i guanti o il cappello. Questi dovranno aggiungere un aspetto formale e originale, raffinato e mai vistoso. Alla fine la vista si poserà sui gesti e la postura e l’ensemble sarà così completato da una sguardo sicuro e rassicurante, mai altero. Un elegante ensemble raramente verrà deriso.

Peter, quindi, cosa ha fatto per essere sulla bocca di tutti ed essere conosciuto come uno degli uomini più eleganti della Grande Mela? In poche, succinte parole, ha aggiunto alla sua discrezione comportamentale la sua originale eleganza. E qui hanno ragione a definirlo un signore del XVIII° secolo ancora legato strettamente all’ influenza dell’età del Barocco; un’età molto decorata e particolareggiata. Allora i salotti bene erano frequentati da uomini con alte parrucche, dal viso dipinto e cosparso di polvere, panciotti a fiori, guanti ingioiellati e colori sgargianti ognove. A quei tempi il damerino faceva capire la sua eleganza come significato decorativo della sua immaginazione, un signore vestito con linee pulite avrebbe interessato relativamente il suo interlocutore, la buona misura e il tocco di atipicità, assieme al suo corpo e all’accento dei modi, avrebbero invece creato interesse e ammirazione.

Beh, un po’ come faceva Peter relazionandosi con gli altri. Peter, non ha mai indossato la parrucca, ma ha avuto sempre un capello lungo e curato, non ha mai amato portare monili e quando ha indossato qualcosa di troppo vistoso ha rimosso immediatamente quelle tediose aggiunte; con Cummings si da un nuovo significato all’ eleganza …. quello della semplicità unita alla originalità. Un uomo particolarmente originale può vestire sofisticato, così come alla moda o informale e rilassato, ciò che più conta è che quell’ abito rappresenti una parte importante di noi, ci elevi dalla banalità e dalla routine. Il vestito per adattare uno stile, lo stile di Peter, il suo atteggiamento, il suo lifestyle . Questa forma di estetismo è molto importante perché viviamo in una società che si basa, ahinoi, su ciò che gli occhi vedono più che a quello che sentono le orecchie. Se uno partecipa ad un galà, ad una importante convention o ad altra situazione sociale capirà che l’ occhiata è tutto. Chiunque, almeno una volta, ha visto qualcuno con un certo modo di vestire e subito il suo pensiero si è fatto negativo o positivo in base a come era abbigliato.

Cravatte, fazzoletti da taschino, calze, gemelli, foulard riveleranno l'atteggiamento di un uomo sulla vita, sul lavoro o sul suo tempo libero. Ma sole le sue parole e le azioni lo definiranno e lo identificheranno appieno. Se, però, tutti daremo un valore a questi accessori ornamentali e penseremo di più al loro rilievo personale senza svilirli in inutili sottigliezze allora la gente rimarrà ben attratta da simili iniziative e così riuscirà ancora di più a scoprire il personaggio dalla diversa eleganza.

Peter era da certuni definito un radicato e granitico status symbol, leggermente irrigidito e talvolta ripetitivo nella sua originalità, nel suo rifiuto della normalità, destinato prima o poi a passare di moda, a essere estinto. Macché, lui era sempre lì, vivo e scalpitante; le falde della giacca larghissime e i pantaloni a sigaro con il risvolto di 5,5 mm. Lo rendevano ogni volta parte di un mondo particolare, diverso, quasi stravagante.

La vanità di Peter era particolarmente evidente nel suo modo di indossare gli abiti. Uno stile sempre molto elegante con colori spesso sgargianti che gli rendevano il volto interessante e simpatico. A lui era consentito tutto e tutto lui si permetteva.

Ma come detto, non a tutti, il suo modus vivendi, ciceroneamente inteso, andava a genio.

Il più accecato dall’invidia di tutti era, guarda caso, Steven Mortimer, di cui riportiamo un evento accadutogli e raccontato a Peter dallo stesso Mr. Roughoaks.

Le paure che abbiamo da adulti sono le stesse che provavamo da bambini, solo ora sono molto più amplificate.

Chi non ricorda la propria infanzia con terribile nostalgia? Vale a dire, nella nostra infanzia facevamo ogni giorno nuove conoscenze, giocavamo, ridevamo, come se il mondo dovesse finire il giorno successivo. Non permettevamo che nulla ci fermasse. Ci sentivamo liberi. 

O almeno così pensavamo.

L'infanzia è un periodo oscuro, è un momento in cui conosciamo i primi dolori. Sappiamo ciò che è la sofferenza e andiamo incontro ai lutti.

In alcuni di noi è già piantato il seme dell'odio, anche l’avversione per sé stessi, che in età adulta fiorirà e darà aspri frutti che arriveranno ad imputridire  l'anima.

Tutto questo nascerà nel terreno fertile di un luogo dove vengono concepite le cose più spaventose: i nostri incubi. 

Durante la puerizia, siamo vulnerabili alla paura come stampi di argilla, e la nostra mente è malleabile come piombo fuso. In questo periodo, la paura prende la forma che ci tormenterà per il resto della nostra vita.

Alcuni saranno condannati a pensare che nell'oscurità abitano esseri orribili ed abominevoli;  esseri che diventano invisibili in presenza della luce benedetta.

Altri penseranno che volare è più pericoloso che toccare un filo dell’alta tensione. Alcuni temeranno il freddo, i ragni e il contatto con rigidità pelose. Altri tremeranno nel parlare alle masse, altri di temere la paura stessa.

Come li invidiava Tick in the skin. 

Almeno le loro fobie sono ben più ragionevoli delle sue. Almeno non si sente stupido dopo un attacco di ansia. Dopo tutto, chi in questo mondo teme più i manichini di lui? 

Non ricordava con precisione. Non sapeva se fosse realmente successo. Tutto sembrava così irreale, come un sogno ... o incubo. 

Si ricordava che all'epoca aveva circa sei o sette anni.

Viveva con sua madre e suo padre in una vecchia casa a sud del New Jersey. 

Il padre lavorava in un'agenzia in cui dimostravano la qualità delle vetture, e di solito non era quasi mai in casa. La madre era una casalinga, ma egli capii solo verso gli undici anni perché usciva tanto e con uomini diversi; uomini che lo spaventavano in principio.

Mentre si interessavano di cose "più importanti" lo lasciavano da una donna di nome Eugenie. 

Una donna che si prendeva cura di lui, ogni giorno, dopo la scuola. Di solito non lo lasciava mai uscire dalla propria stanza. Prigioniero, con i suoi pensieri di bimbo infelice e una semplice palla di spugna come amica. 

A volte, mentre dormiva nella poltrona della sala, Steven giocava nel corridoio che collegava la sua stanza a quella dei genitori e, ad un’altra, dove si immagazzinavano le cose ritenute inutili dalla famiglia.

Giocava con la sua immaginazione e con quella vecchia palla di spugna fino a che quell’ arpia, della tata, non si svegliava e gli ordinava di ritornare nella stanza.

Un giorno, per caso, il pallone deviò la sua traiettoria e finì davanti alla porta della “camera misteriosa”, come lui l’aveva ribattezzata.

Imprecò a denti stretti, perché era riuscita a passare da un piccolo pertugio della porta e ciò non gli piacque molto, in quanto quella camera non era mai stata di suo gradimento, non gli dava fiducia. Nonostante ciò si introdusse in essa alla ricerca della palla.

Era un posto polveroso, riempito di cose inservibili. L'unica finestra, dalla quale entrava un misero raggio di sole, era aperta.

Cominciò a seguire la scia della sfera di spugna grazie alla tantissima polvere depositatasi sul pavimento. La scorse in mezzo a un paio di “cose lunghe e rosate”. Si avvicinò e la prese. 

Poi alzò la vista, e desiderò giammai d’averlo fatto. 

Erano "le cose lunghe e rosate” ciò che vide, ma di gambe trattavasi, le gambe del manichino. Notò la sua faccia. Sembrava sorridergli.  

Successivamente tutto si rannuvolò, e l'oscurità si portò via qualcosa della sua taccagna saggezza. L’unica cosa che ricordava dopo, fu che lo sentii sopra di sé. Lo afferrò in un abbraccio assassino e irruento. La sua "pelle" era gelata, e nei suoi occhi quella che vide fu una smorfia di totale depravazione. Quel volto gli era però consueto.

Dopo di che, si ricordava il risveglio nel letto. Come spiegò ai genitori, Eugenie l’ aveva trovato due ore dopo, disteso ai piedi del manichino, il quale –per altro- era nella sua posizione originale, e non sopra di lui. Steven era privo di sensi, per cui la tata aveva chiamato un medico. E lui, lì, disteso sul letto, terrorizzato. Incredulo, come i suoi genitori . Essi gli domandavano cose senza capo né coda. Lui non rispose mai per chiarire certe cose. Non poteva. Era diventato afono. In realtà non potè parlare per due settimane. Ma la sua vita seguì la propria contorta continuità.

Senza saperlo, gli venuto in mente un nuovo inquilino. Qualcuno di cui, purtroppo, non si  dimenticherà mai. 

So che al momento niente ha una logica e che vi domanderete “E dopo!,- questo è tutto? ”

No, per niente. E’ proprio il caso di dire che fu solo il principio.

Suo padre morì due settimane dopo. Steven, non sapeva se provare dolore o meno. O magari essere furioso con lui. Quel vecchio disgraziato, o aveva un umore troppo sadico, o semplicemente era un imbecille. Forse, per Tick, entrambe le cose.

Dopo anni di dispute, l’ eredità venne divisa tra i suoi avidi fratelli, i cugini e lui. 

Gli lasciò la vecchia casa dove aveva trascorso gran parte della sua vita depravata. E con essa, tutto il passato che aveva sempre cercato di nascondere: le vecchie sfortune, i vecchi traumi. Gli dava sempre quella sensazione che i suoi occhi fossero due finestre che guardavano con un'ambigua  sensazione di malizia e turbamento. Come un mostro.  

Insieme al notaio, controllò ogni angolo della vecchia casa. Polvere e totale desolazione. Come sempre. 

Solo quando raggiunsero la porta della "stanza misteriosa" dubitò seriamente. Il passato ritornava, avvolto in un pestilenziale sudario. 

Avvertì di aver bisogno di una certa dose di coraggio a varcare la soglia della porta. 

Tutto era rimasto come prima, salvo che le inutili cose di allora erano coperte da lenzuola bianche, come teli di camere mortuarie. Rimase inorridito.

Malgrado il pezzo di tessuto lo coprisse interamente, sapevo che Egli era lì sotto. Il mostro che faceva ai bambini cose peggiori che mangiarseli. 

- ... E per rendere valido il testamento, dovrà rimanere dieci giorni feriali nella proprietà -, disse il notaio, indifferente ai temi che non gli competevano. 

Era paralizzato. E se avesse detto no, sarebbe, probabilmente fuggito dall'inferno. 

Fu una notte piena di sogni pesanti, spesso strani, non proprio incubi, ma che lo resero inquieto. 

In uno di questi, sognò Eugenie violentata a sangue da strane articolazioni simili all’acciaio; allora si svegliò. Era nauseato e sentì che la vescica sarebbe esplosa se non si fosse recato subito al bagno. Gli girava la testa, e tentava di ricordare chi fosse quella visione dalle giunture scintillanti e piano piano la sua  mente si rischiarò.

Era, ormai, la quinta volta che si svegliava. Guardò l’orologio. Erano le tre meno due minuti. Con la coda dell’occhio captò qualcosa che si muoveva goffamente attraverso le ombre notturne. Girò la testa, e lo vide, era nella sua stanza.

Era un fantasma…, anche se un po' fuori moda, come i fantasmi del passato.

Entità avvolte in un lenzuolo bianco ... ma questo, andò capendo, non era uno spettro. All'interno dell’involucro di stoffa, qualcosa si muoveva, qualcosa simile ad un braccio. Sentendo il tutto come alcunché di irreale, come impasticcato, si alzò, dirigendosi verso quell'estranea figura. Come esaltato, lievemente tolse il lenzuolo dal supposto fantasma.

Indubbiamente non era un fantasma, era Lui, il manichino. 

Ma Steven, stranamente, non ebbe paura, almeno fino a quel momento si mantenne calmo, fissandolo quasi fosse una divinità. Un salvatore. Contemplò il suo freddo e rigido esterno ricoperto di vinile e le sue articolazioni di metallo. Assomigliava ad un essere umano. Ad un Messia. Sentendo la sua complicità, l'essere mostrò una smorfia perversa, ed il suo indice arrivò lentamente alla sua bocca, come volendo zittirlo. “ Figlio mio, zitto, un attimo e finisco…!” disse quella cosa.

A quel gesto, Tick, svenne di colpo.

Sì destò sul bordo del letto. La casa era fredda, ma non comprendeva perché il suo pigiama fosse così ghiacciato. Scoprì, poco dopo, il perché vedendo la grande macchia di urina intorno al cavallo del pigiama. 

Era arrabbiato ... ma molto più terrorizzato. 

Lasciò la stanza, dirigendosi verso il bagno. Una volta lì, incapace persino di sollevare la tavoletta, il suo stomaco cedette e si svuotò dello scarso contenuto. Subito appresso, si spostò nella “camera misteriosa”, sentendo la paura nella gola e nel ventre vuoto. Aprì la porta e l'odore di vecchia e umida mobilia lo investì in pieno.

Ma non gl’importava, quando vide il involucro che voleva. 

- Credi di intimidirmi? Hey! Dico a te -, urlò Steven.

 La sua mano stringeva un vecchio tubo d’annaffiatoio, che raccolse dal pavimento . 

 - Pensi che sarò la tua cagna per tutta la mia vita? Beh ti sbagli!- gridò deciso come un matto, dirigendosi verso quella cosa ricoperta dal bianco lenzuolo; lo tolse e iniziò a colpire con tutte le sue forze. 

Sentì più volte vari crac e pezzi di vinile staccarsi assieme a parti di metallo.

Non so quanto tempo continuò a picchiare senza fermarsi.

Ricordava solo la sua risata maniacale e ansimante in un periodo di furiosa rabbia che durò  un'eternità. 

Dopo quanto rimase senza forze, senza il coraggio di proseguire; le soffocate risate diventarono presto singhiozzi.  

La faccia del manichino sembrava esprimere un gesto di collera. Di odio omicida. 

Lo aveva, per maggior sicurezza, incatenato ad una maniglia di metallo. 

Ancora non riusciva a dormire sereno. Rigirandosi nel letto, cercava di trovare la nuvola dei sogni ormai perduta, poiché il pensiero del suo volto irato gli permeava la mente. 

Fu orribile. Il freddo metallo procurava al volto del manichino un aspetto orrendo e cadaverico, come si trattasse di un cranio umano.

Beh, almeno era libero, libero da quel mostro. Aveva affrontato tutte le sue paure e aveva sconfitto l’ orco dell’ infanzia... 

Schiiiiiiiiiiiiit ... Il crepitio di una catena di bicicletta, vicino alla sua camera, fu subito da Tick avvertito.

Un suono come un fiume di acciaio, che nel suo caso significava una cosa ...

- Oh, Dio ... –, fu tutto quello che disse ... ! 

- Per Cristo, che cosa avevo sopra di me!- 

E’ una bella giornata. Soleggiata, con l’azzurro che la fa da padrone; con scintillii di un verde intenso provenienti dagli alberi che adornano i giardini.

Le strade sono quasi deserte, salvo due o tre persone che camminano silenziosamente, come anime che si dirigono verso il paradiso. È un giorno fantastico. Il primo di primavera che si sente come tale.

In lontananza si ode il motore, forse di un tosaerba. E’ un ronzio quasi ipnotico ... ma non si avverte nel parco vicino e nemmeno in strada. Si sente ovattato, come se il suono sia attutito dalle pareti di una casa ... Sì, certo. In un angolo oscuro, illuminato da una tenue luce naturale che entra attraverso una finestra appannata di polvere, c'è una figura umana che sostiene una cosa con entrambe le braccia. È un pazzo. Un pazzo di manicomio.

La cosa che tiene in mano non è né uno scherzo, né un tosaerba. Il suono del dispositivo è più roco e articolato. Ed è pericoloso… è una motosega. 

Il demente pianifica di tagliare a pezzi una persona che riposa rassegnata su una pila di spazzatura. Sembra nudo e percosso, ma si vede che il suo viso danneggiato non è umiliato, ma mostra un gesto simile a un ghigno. Il matto è sul punto di squarciarlo, ma per un momento dubita. Non sa nemmeno lui perché. Magari avrà pena, o qualcosa di non tanto nobile e di più oscuro. E lui sa che cosa è, ma in quel preciso momento la verità gli si presenta come se fosse il fantasma del re, ed egli fosse Hamlet.

Dubita un attimo, ma dopo sa che fare. Ha tutto molto chiaro.

Sapete come faccio a saperlo? Facile. Mr. Roughoaks mi svela che Steven era il pazzo, e l’ altro il manichino. 

Si sentì l'inferocito rumore della motosega che tagliava disumanamente. Ma qualcosa non andò come doveva. Il suono che fece quell’attrezzo al contatto con la materia che andava a smembrare sembrò qualcosa di più fluido, più carnale. E si sentì un grido, ma secondo Steven i manichini non gridano quando vengono squarciati. Ma questi concetti di irrealtà volarono oltre il suo senno.

No, non era il manichino, ma Tick stesso. 

Le pareti della “stanza misteriosa” erano di un intenso color scarlatto, mentre le sue grida di dolore riempivano tutto l’ambiente circostante. E assieme al suo sangue scorrevano lontano anche le gambe. Distanti dal tronco. Strisciò ai suoi piedi, agonizzante e lacerato. E alzò gli occhi, che subito incontrarono i suoi. 

- Perdono -, pregò in un grido che presagiva la fine e la pazzia più totale. E senza poterlo evitare, si mise a piangere. Ai suoi piedi. Di dolore. Di pentimento.

Piangendo, e sentendo la calura, e l'assenza, delle proprie gambe, alzò un'ultima volta lo sguardo. Nel malridotto viso del manichino non c'era la minima smorfia di ira, ma solo compiacimento, soddisfazione. Si sentiva appagato.

Negli ultimi momenti di agonica coscienza, ascoltò la sua voce, non nelle orecchie, bensì nella sua mente, rimbalzando stridente nel cranio. E quello che diceva era tanto semplice come devastante.  "Zitto, figlio mio, zitto, il babbo ha finito".

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    12 commenti per questo articolo

  • Inserito da Lara il 13/04/2012 21:21:41

    Racconto da urlo

  • Inserito da cattelan il 13/04/2012 11:41:09

    Beh c'è poco da dire. UNICO

  • Inserito da Gambiera il 13/04/2012 08:43:20

    Scoperto campo incontaminato della narrativa sta a lei trasformato in una nuovo genere letterario

  • Inserito da pat il 12/04/2012 12:18:51

    bravo Massimo...magistrale scrittura... vedo che hai una ammiratrice veramente pendente dalle tue labbra... mi fa pensare questa Loredana...eh... sì...

  • Inserito da stefanoinnocenti il 12/04/2012 10:55:46

    Nuovo tipo di narrativa simbolista e introduttiva di un modello romanzato che coniuga l'irregolarità di un oggetto terreno e uno trascendente. Uno spazio temporale rappresentato da una forte rappresentazione subcoscienziale del racconto.

  • Inserito da aldofranceschi il 11/04/2012 23:01:56

    Racconto entusiasmante. Sono senza parole

  • Inserito da aldofranceschi il 11/04/2012 23:01:07

    Racconto entusiasmante. Sono senza parole

  • Inserito da ines giolli il 11/04/2012 22:05:35

    mi piace

  • Inserito da SANTI il 11/04/2012 16:42:05

    Veramente interessante, concordo appieno con Loredana.

  • Inserito da Loredana il 11/04/2012 16:30:48

    Intenso. Ricco. Coraggioso. Allucinato. Sono i primi aggettivi che mi vengono in mente dopo aver letto questo capitolo. Oltre che imprevedibile...passare dal concetto di eleganza e come si manifesta (concordo in pieno sul Principe di Galles), alle manifestazioni delle paure e delle lotte contro i propri spaventosi nemici interni è stato come fare un viaggio su un treno superveloce, vedendo scorrere in un lampo i paesaggi più diversi. Magnifico, grazie!

  • Inserito da VANESSA il 11/04/2012 16:29:34

    Scopro con interesse un nuovo modo di raccontare e narrare. Bellissimo il simbolismo del manichinio.

  • Inserito da chiarastellacci il 11/04/2012 16:14:57

    Mi divorerò gli altri 31 capitoli. Veramente intrigante

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