Maggio Musicale Fiorentino

FIRENZE: un Fidelio da ovazione. Il capolavoro di Beethoven commuove e entusiasma.

Grande e meritato successo dell'opera di Beethoven diretta da Zubin Mehta. Protagonista d'eccezione la soprano norvegese Lise Davidsen

di Domenico Del Nero

Una vera e propria ovazione ha accolto il festoso e luminoso finale del Fidelio, nella edizione in scena all’auditorium del Maggio Musicale Fiorentino; più che meritata, del resto. Dopo gli entusiasmi suscitati dal Falstaff, il capolavoro di Beethoven, battesimo operistico per la nuova, elegante sala del Teatro del Maggio, ha visto un coro di consensi – sia da parte del pubblico che di numerosi colleghi – che si riserva solo agli spettacoli davvero memorabili, di quelli che “passano alla storia” del teatro. [1]

La cosa non era poi così scontata – malgrado un cast davvero di prim’ordine e la presenza sul podio di Zubin Mehta – perché il mancato completamento della fossa d’orchestra sembrava dover sacrificare in tutto o quasi proprio l’aspetto della messa in scena, riducendola in forma di concerto o poco più.  Sarebbe stata davvero una sorta di “maledizione”, perché già nel 2015 – l’ultima volta che l’opera era stata rappresentata, sempre per la direzione di Zubin Mehta – a causa di uno sciopero ci si dovette “accontentare” di una esecuzione prima semiscenica poi meramente concertistica; anche in quella occasione però la musica ebbe la meglio, grazie al maestro, all’orchestra e al coro del Maggio.

Questa volta invece non mancava proprio nulla: il sovrintendente Alexander Pereira lo aveva assicurato ed è stato così, l’aspetto scenico c’era e come.  “ Lavoriamo con una scenografia scarna scarna ma bellissimaequello che sto sperimentando adesso è letteralmente il confine che c'è tra l'opera, intesa come rappresentazione scenica, e un concerto_ è una sottile linea ambivalente. La produzione si baserà moltissimo sui singoli personaggi, ogni singolo  movimento è prezioso e ognuno si nuove sapendo esattamente perchè lo fa, altrimenti non sarebbe possibile lavorare in spazi ristretti."  Così aveva dichiarato il regista Matthias Hartmann alla vigilia dello spettacolo è così davvero è stato. Certo la scenografia è stata giocoforza ridimensionata: l'orchestra e il coro si sono posizionati alla spalle dei cantanti, pochi gli oggetti di scena, tra cui spiccano die pedane mobili con teli che riproducono litografie del Piranesi. Per quanto riguarda i costumi di Sophie Leypold sono in stile moderno e in tonalità prevalente grigio scura, a parte il rosso (passione amorosa?) di Marzelline; e tranne che che nell'ultlima scena in cui la parte femminile del coro è abbigliata con vestiti festosi e sgargianti, forse una nota di colore per sottolineare il lieto fine? Non che ce ne fosse bisogno, ma comunque non dava fastidio.  

Il vero punto di forza della regia stava però soprattutto nella gestualità, nella recitazione del personaggio. Nessuna “dissonanza” tra l’abilità vocale e le capacità interpretative, in nessuno degli interpreti; sicuramente sarà anche una dote “naturale”, ma si vede benissimo che c’è dietro una preparazione accuratissima, che non scade mai nell’eccesso o nella retorica. Così Leonore  passa da personaggio apparentemente fragile e ingenuo a sposa sempre più coraggiosa e determinata, Florestan dalla condizione dolente e drammatica del prigioniero senza speranza – evidenziata anche da alcuni figuranti in catene – alla gioia della libertà ricuperata;  Pizzarro è il volto arrogante e crudele del potere, ma anche il ministro Don Fernando, pur essendo il “liberatore” mostra un volto demagogico e sin troppo “sorridente”; come a volerci ricordare che il potere, in qualsiasi forma si mostri, non è mai disinteressato.  Gestualità, espressività, mimica: tutto ben curato e mirato a sottolineare tanto il dramma dell’oppressione e del dolore quanto la gioia della libertà e dell’amore; ma anche in quest’ultimo caso la tristezza della delusione e del disinganno, come prova il personaggio di Marzelline.

Per la parte musicale, la consuetudine di Zubin Mehta con questa partitura è  certo di lunga data, ma nella sua lettura non c’è assolutamente nulla di “routine”:  La sua direzione ha perfettamente esaltato e sottolineato la grazia e la levitas mozartiana delle prime due scene, poi il pathos, le impennate romantiche, i momenti struggenti e drammatici come lo splendido “coro dei prigionieri:  una interpretazione che supera la divisione in grandi pezzi chiusi del singspiel del maestro di Bonn dando loro una straordinaria unità e coerenza drammatica e esaltando la dimensione “sinfonica” della partitura senza che questo vada minimamente a scapito dei cantanti. Grazie anche alla straordinaria acustica della sala che giustamente porta il suo nome, il maestro Mehta si muove in perfetta sintonia con le masse orchestrali e corali, che come sempre danno il meglio di sé; l’orchestra con lo splendore di un suono nitido e sontuoso, il coro magistralmente preparato da Lorenzo Fratini con il grande e commovente pathos nella scena dei prigionieri.

Decisamente alto anche il livello del cast. Leonore è il soprano norvegese Lise Davidsen, al suo debutto assoluto al Maggio. Soprano drammatico di grande levatura, la Davidsen ha anche una eccellente presenza scenica, sia quando è travestita da giovane guardiano sia nella parte di sposa innamorata e decisa.  Vocalmente poi ha una potenza di emissione davvero impressionante, un bel timbro non eccessivamente scuro ; affronta senza problemi una tessitura decisamente ardua con acuti come sciabolate, come si può sentire soprattutto nell’aria Komm Hoffnung del primo atto, brano decisamente impervio che la soprano norvegese affronta invece in modo praticamente perfetto: richiede infatti non solo  una notevole solidità nel registro acuto, ma anche ardui salti di registro,  una buona declamazione e una cantabilità morbida, “affettuosa”.  Una prova davvero di alto livello che il pubblico ha premiato con applausi particolarmente entusiasti.

Non si può però certo definirla, per fortuna …. Vox clamans in deserto. Klaus Florian Vogt, un tenore wagneriano, è stato un Florestan all’altezza di cotanta consorte; voce robusta e bel timbro chiaro, ha una straordinaria capacità espressiva e dà vita a un personaggio tormentato, a partire dal monologo iniziale del secondo atto con uno straordinario crescendo sul  Gott  iniziale; il baritono Tomasz Konieczny è un Pizzarro cinico e crudele come da copione, con un timbro forse un po’ duro e aspro che però in questo caso calza a meraviglia. Perfettamente a suo agio nel ruolo di Rocco il basso Franz-Josef Selig, che dà vita a un personaggio bonariamente paterno, caratterizzato da ottimo fraseggio e da una voce gradevole e di buon volume. Decisamente valida sia sul piano scenico che su quello vocale anche la Marzelline di Francesca Aspromonte, che è una ottima interprete del repertorio classico e barocco. Sicuramente passare da Monteverdi e Cavalli a Beethoven non è cosa da poco ma la nostra soprano ci riesce benissimo, conferendo in effetti un gradevole “tocco” barocco che si può cogliere soprattutto negli acuti. Un bel timbro chiaro, ottima emissione e un registro centrale molto gradevole caratterizzano un personaggio duttile anche scenicamente, caratterizzato da entusiasmo all’inizio e da dolente tristezza dopo la inevitabile disillusione. Luca Bernard, allievo dell’Accademia del Maggio, è un Jaquino dotato di gradevole voce tenorile, efficace sia vocalmente che scenicamente. Buona la prova anche del ministro Don Fernando del baritono Birger Radde.

Assolutamente da non perdere l’ultima replica il 2 gennaio (domani) alle 15.30.

 

 

 

 

 

[1] Per la presentazione dell’opera e dello spettacolo cfr https://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=9371&categoria=1&sezione=8&rubrica=8