Editoriale

IL FARDELLO DELL'UOMO BIANCO. Note a margine degli Europei di calcio e delle Olimpiadi

A proposito di fair play....

Italo Inglese

di Italo Inglese

t’anni fa il “Times” relegava nelle pagine interne i risultati delle partite di calcio della nazionale e metteva in prima il resoconto del match di cricket tra la compagine inglese e la squadra di un altro Paese del Commonwealth. Bei tempi gli old good times in cui l’austero quotidiano trattava con distacco il football quand’anche giocato dalla rappresentativa nazionale e indipendentemente dagli esiti degli incontri!  Vigeva allora questo atteggiamento snobistico, alieno dal tifo volgare, connaturato a un’immagine dello spirito britannico cui eravamo affezionati; immagine esemplificata dal principe Filippo di Edimburgo che, alla cerimonia per l’indipendenza del Kenya, mentre l’Union Jack veniva ammainata, mormorò a Jomo Kenyatta: “Siete ancora in tempo per cambiare idea”.

Quale terribile involuzione è potuta avvenire nel frattempo, quale terribile cataclisma morale si è abbattuto su Albione, una volta considerata “perfida”, certo, ma maestra dell’humour e del fair play? Il sogno che ci aveva illuso è stato infranto dalle scomposte e plebee reazioni degli inglesi alla sconfitta nella finale degli Europei. E ci domandiamo perché ciò sia potuto accadere.

È verosimile che si tratti di un malessere profondo, che del resto affligge tutto l’Occidente e dal quale l’Inghilterra evidentemente non è immune: lo sfaldamento, l’imbastardimento di una civiltà, non più circoscritti a specifici popoli e culture ma ormai generalizzati. In questo caso, il fenomeno, al quale ci siamo assuefatti, fa notizia perché si manifesta in un Paese che, pur con tutte le sue contraddizioni e la sua alterigia, sembrava aver conservato almeno il suo aplomb. E tanto più fa notizia quanto più appare insopportabile il contrasto tra l’ostentata professione di political correctness, che si concreta nell’inginocchiamento rituale a inizio partita, e il miserabile corteo dei giocatori che si sono sfilati dal collo la medaglia spettante a ciascun componente della squadra che ha concluso il torneo al secondo posto. Qui l’ipocrisia albionica, di solito ben dissimulata, si è rivelata in tutta la sua sconcertante bassezza. “E nun ce vonno sta!”, dicono a Roma.

Oggi il Regno Unito, insieme agli USA, capeggia il movimento globale volto apparentemente all’emancipazione delle minoranze e delle categorie discriminate. Esso è animato da un sentimento di colpa per le angherie commesse nel passato a danno dei popoli colonizzati, ai quali peraltro gli ex dominatori hanno lasciato un’organizzazione statuale, ingenti infrastrutture (in India, 56.300 km. di ferrovie), una lingua che è la più parlata nei rapporti internazionali. Non è affatto certo che i colonizzatori abbiano preso più di quanto hanno dato; anzi, sembra che per i britannici il costo delle imprese coloniali abbia superato i ricavi (al riguardo, v. N. Ferguson, Impero, Mondadori 2007). La storia del colonialismo dovrebbe essere rivisitata con maggiore equilibrio, tenendo anche conto che i popoli sottomessi non erano – e non sono, dopo aver acquistato l’indipendenza – esenti da colpe e dalla pratica di atrocità.

Ma c’è una linea di continuità. Se in passato gli inglesi, ispirati dal concetto del “Fardello dell’uomo bianco” (“White man’s burden”) di Rudyard Kipling, secondo cui la progredita Gran Bretagna avrebbe dovuto assolvere la missione di portare la civiltà nel mondo, altrettanto oggi l’ideologia progressista angloamericana si sente investita del compito di propagare e imporre il verbo dei diritti universali, diritti preesistenti all’ordinamento giuridico poiché intrinseci alla natura umana (quella natura che, tuttavia, è negata e violentata quando si tratta di promuovere come modelli di comportamento le più bizzarre inclinazioni sessuali e di perseguire i più azzardati esperimenti genetici). L’atteggiamento è lo stesso, sempre impregnato di snobismo e di supposta superiorità morale, le caratteristiche che, secondo Boris Johnson (primo ministro in carica del Regno Unito, laureato a Oxford in antichità classica), hanno impedito all’impero britannico di eguagliare quello romano nell’assimilazione dei territori e dei popoli conquistati e nel creare un universale sentimento di comunità. La vera, grande differenza tra l’impero romano e quello britannico, egli afferma, “sta nel dono della cittadinanza, che nel 212 d.C. fu estesa a tutto il mondo romano. I britannici non avrebbero neppure potuto sognare un’emancipazione paragonabile a questa” (Il sogno di Roma, Garzanti 2012, p. 64).

Ora una più rapida concessione della cittadinanza viene chiesta dal presidente del C.O.N.I. a favore degli atleti di origine extracomunitaria. La richiesta, che prende spunto dalla supposta multietnicità della squadra azzurra, appare come un tentativo di captatio benevolentiae nei confronti della sinistra, innamorata dello ius soli. Essa è comunque incongrua: la società multietnica è quella in cui le diverse etnie convivono – non sempre pacificamente – conservando la propria identità. Quando sentiamo parlare l’atleta di origine nigeriana vincitore nella staffetta 4x100 - il figlio di badante che ha fatto commuovere la Botteri, ammantatasi, per celebrarlo, del tricolore in passato aborrito – ci accorgiamo che, con il suo accento lombardo, si sente - ed è - più italiano della stessa Botteri e persino del presidente del C.O.N.I. Marcell Jacobs, medaglia d’oro nei cento metri, ha conseguito la cittadinanza grazie allo ius sanguinis; non ne avrebbe avuto diritto in base allo ius soli. Questi atleti sono italiani nel più intimo dell’animo, non esponenti della società multietnica. Perché dovremmo coltivare il senso di colpa che affligge i paesi protestanti del nord Europa, avvezzi all’apartheid?

Peraltro, non possiamo trascurare che, mentre i tre calciatori inglesi di colore che hanno fallito i rigori nella finale degli Europei hanno disatteso il carattere britannico più tipico – la freddezza nei momenti critici -, la squadra olimpica del Regno Unito ha conquistato più del doppio delle medaglie d’oro ottenute dall’Italia. Da questo punto di vista, la squadra azzurra, più o meno multietnica, ha ancora un lungo percorso da compiere.

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