Editoriale

RIDATECI PAPINI, ovvero l'elogio della stroncatura.

C'era una volta la critica

Dalmazio Frau

di Dalmazio Frau

stato un tempo felice nella critica letteraria, soprattutto sui quotidiani o sulle riviste, nel quale non soltanto si parlava in maniera commendevole di un libro appena edito, ma se necessario, se ne poteva anche scrivere in modo critico, dandone un giudizio sfavorevole.

Erano chiamate brutalmente “stroncature”, e appartengono alla nobiltà di un genere letterario che farebbe del critico un’artista, come avrebbe detto il mio caro, vecchio, zio Oscar. In quanto l’arte della stroncatura necessita che chi la osserva ne conosca e applichi aristocraticamente le regole, ovvero il non essere mai mosso da rancori personali verso chi si critica, avere una forte una motivazione intellettuale alle proprie spalle e una non comune capacità di scrivere in maniera ricca e colta. Chiunque sarebbe in grado di scrivere “questo libro fa schifo”, pochi invece potrebbero demolirlo dicendolo “frutto maldigerito di una pessima formazione e di una malriuscita presunzione dell’autore”, ad esempio.

Non si usano più le stroncature, si ha paura di farsi dei nemici, il primo a volerlo evitare è il caporedattore, il direttore responsabile desidera essere amato da tutti quindi non si espone a favorirle e infine si dice che una critica negativa, essendo pur sempre il parlare di un testo, attragga su di esso comunque un’attenzione – pertanto lo porrebbe in luce – che altrimenti non avrebbe. È il vecchio concetto del “purché se ne parli”, insomma.

Si sosterrà anche che soltanto gli autori di maggior peso potrebbero aver diritto a una stroncatura, in quanto le nullità scrittorie – e sono la maggioranza, soprattutto quelle convinte d’esser “pezzi da novanta” – di fatto sono già penalizzate in partenza.

A mio avviso, immodesto e impopolare come sempre, invece credo che anche il più infimo scrivente di questo mondo non sia indegno d’essere stroncato. Non è far lui pubblicità, ma rendere un atto di giustizia – anche etica ed estetica, non soltanto di meritocrazia letteraria – che riequilibra così uno scompenso tra chi merita l’elogio e chi l’oblio, attribuendo al brutto o al mal scritto, al verboso, al noioso, all’autoreferenziale più inutile, il proprio posto nell’ordine cosmico, ovvero di stare nel cassonetto dei rifiuti della carta. Nella migliore delle ipotesi diventerà nuovamente carta riciclata, ottima per sacchetti della spesa o per la carta igienica più a buon mercato.

Non stroncare, ignorare quindi ciò che non merita, di fatto lo approva, lo lascia esistere in un libro creato naturalmente dalla presunzione schizofrenica dell’autore ed eventualmente di coloro che lo osannano, per lo più questi contenuti in ristrette cerchie di forbitori ormai digitali. Insomma, stroncare un mediocre non è per nulla, sparare sulla Croce Rossa, anzi è aprire un sacrosanto volume di fuoco su un convoglio armato che va in giro sul campo di battaglia arrogandosi il diritto - che non possiede - di credersi l’unico ad essere in guerra.

Del resto tale assenza è forse dovuta anche alla sempre minor influenza della critica su un mercato basato invece, ogni giorno di più, sull’autopromozione ipertrofica condotta sui social. Cosa che poi, spesso, sfocia nel ridicolo quando non nel patetico, a leggere autoproclami elogiativi del tipo “il libro che sta facendo discutere il mondo” quando l’avranno comprato – forse – soltanto i parenti stretti e qualche amico. Anche perché gli amici, non comprano il tuo libro, si aspettano che tu glielo regali. Ma questo può anche essere un piacere, sia ben chiaro.

Quindi, giunti “al fin della licenza”, appunto come Cyrano de Bergerac, ritengo che muovere una corretta critica, anche aspra, anzi soprattutto tale, a opere men che modeste, affette da ipertrofia egoica di una “eiaculatio precox scribendi”, da un parossismo compulsivo derivante da evidenti problemi non curati che afferiscono alla sfera della psiche di certi autori, purtroppo per loro e i loro cari, convinti intimamente di essere indispensabili al pensiero dell’umanità, a tutto costoro dunque sia necessaria la somministrazione terapeutica di una cura drastica che elimini radicalmente il morbo del mal scrivere alla radice.

Forse ci vorrebbe l’indimenticato Prof. Alfeo Sassaroli, quando nel primo Amici Miei, ordinava le applicazioni di Afasol a coloro che sarebbero poi divenuti i suoi più fedeli sodali.

Ecco dunque, Afasol anche per i sedicenti scrittori e, forse, almeno per un po’ taceranno.  

 

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