Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Sempre Mozart è, e neppure tanto “minore” come a volte è stato detto. Ma non ci sono dubbi che, per quanto ben fatta come nel caso dell’edizione andata in scena in questi giorni al Maggio Musicale Fiorentino, quest’opera lasci qualche dubbio, qualcosa di irrisolto o non del tutto convincente. Non certo per colpa del genio salisburghese; forse il libretto, quel Metastasio che sebbene riveduto e corretto da Caterino Mazzolà mantiene qualcosa di troppo aulico e distante la noi.
In ogni caso, la Clemenza di Tito rappresentata per quattro recite sul palcoscenico fiorentino nella ormai classica regia di Willy Decker risalente al 1997 per l’Opéra National de Paris (ripresa a Firenze da Rebekka Stanzel) e con l’orchestra diretta da Federico Maria Sardelli ha destato interesse e – cosa tutt’altro che scontata – addirittura entusiasmo tra il numeroso e variegato pubblico che ha saputo apprezzare un titolo non precisamente facile o “popolare”. Merito di uno spettacolo ben realizzato a tutti i livelli, a partire dalla regia di Decker che vuole sottolineare una sorta di contrasto tra il carattere “monumentale” e algido del potere e il lato umano (forse sin troppo) di un protagonista, l’imperatore Tito, che prima che sovrano vuole essere uomo. Contestando l’affermazione del celebre musicologo Alfred Einstein, per cui Tito sarebbe solo “una statua senza vita”, il regista va oltre l’apparente “facciata” di una fredda e convenzionale tragedia romana su cui il compositore scrive bella musica, trovando tra le pieghe del testo – e soprattutto della partitura – una profonda tristezza che nasce anche “dal senso di solitudine e isolamento che Mozart stesso provò nel suo ultimo anno di vita.” E dietro la facciata eroica dell’imperatore si scopre “ un essere solo, ferito, straziato, che vive nella desolazione e nella rinuncia”.
Una lettura profonda, interessante e verisimile, che trova una ottima traduzione sul piano scenico: uno spazio atemporale, evocato con un tocco che può ricordare le atmosfere metafisiche di De Chirico, dove però i richiami alla classicità sono ben precisi. Uno spazio semicircolare, che potrebbe ricordare la cavea di un anfiteatro, al cui centro campeggia una massa informe, come un blocco di pietra non squadrato, su cui viene scritto il nome dell’imperatore Titus. Questo blocco viene continuamente rigirato e modificato sino a assumere i tratti di un ritratto “ufficiale” dell’imperatore, quasi a voler significare la sua “crescita” come sovrano e il suo sempre più saldo controllo del potere. Simbolo della sovranità una corona che il protagonista avverte chiaramente come un peso, mentre un mazzo di rose rosse passa in mano delle donne destinate a diventare imperatrice (augusta): prima Berenice, poi Servilia e infine Vitellia. Intorno a questa “statua in divenire” agiscono i personaggi in costumi settecenteschi ben realizzati da John Macfarlane, che ha firmato anche le scene; tutti personaggi ben caratterizzati psicologicamente e ben realizzati dagli interpreti, dalla straordinaria umanità di Tito a Vitellia, prima virago assetata di vendetta e potere poi donna angosciata e in preda al rimorso; per non parlare di Sesto, traditore suo malgrado. C’è in fondo un qualcosa di Tacitiano in questa regia, nel delineare il conflitto tra potere e umanità, ma la gravitas dello storico dei cesari si stempera in una dolente umanità il cui valore è per una volta davvero atemporale. Una regia di grande livello e valore. Unica nota stonata forse il sipario con macchie di colore che poi, ad un attento esame, si rivelano schizzi dei personaggi del dramma. Non che desse fastidio, ma non sembrava intonarsi molto con il resto.
Federico Maria Sardelliè un grande esperto di musica “antica” e barocca, ma si dimostra a suo agio anche con Mozart, alternando tempi spediti, sonorità quasi barocche e un piglio scattante a momenti lirici di grande suggestione e morbidezza. Una direzione “filologica” (anche se con strumenti moderni) che inquadra l’opera nel contesto del Settecento e che alcune volte può dare l’impressione di una certa freddezza, ma che ha comunque colto la ricchezza della partitura ed entusiasmato il pubblico che ha tributato al maestro e all’orchestra del Maggio Musicale un applauso particolarmente caloroso. Buona come sempre la prestazione del coro diretto da Lorenzo Fratini, che in quest’opera non ha però un particolare rilievo.
Di ottimo livello anche il cast, sia sul piano scenico che in linea di massima su quello vocale. Il tenore Antonio Poli delinea perfettamente un personaggio nobile e tormentato, che vuol fare della clemenza non solo uno strumento di governo ma una regola di vita, malgrado le circostanze decisamente avverse; dotato di una buona voce tenorile, ampia e con un buon timbro, si rivela a suo agio sia nel fraseggio che nel registro acuto, anche se forse non sempre nelle agilità.
Il mezzosoprano Giuseppina Bridelli impersonava Sesto, l’amico traditore. Forse il personaggio non è stato sempre reso nella sua complessità, ma l’interpretazione è andata via via “crescendo” nel corso dello spettacolo. Vocalmente la voce ha un bel timbro e un discreto fraseggio, con buona tenuta soprattutto nel centro e nel registro acuto.
Vitellia è senz’altro il personaggio più “dinamico” e forse affascinante dell’opera ed ha trovato una eccellente realizzazione scenica nel soprano Roberta Mameli, interprete di notevole personalità e carisma. Vocalmente è apparsa forse un po’ più discontinua soprattutto per alcune difficoltà nel registro acuto e in quello grave, mentre il suo fraseggio era molto incisivo e affascinante. Nel complesso comunque una buona interpretazione. Discreti anche gli altri personaggi.
(la recensione si riferisce alla ripresa del 27 marzo).
Inserito da POPSNEAKERS il 07/04/2019 11:10:04
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