ANNIVERSARI.

GIOVANNINO GUARESCHI: cinquanta anni fa la scomparsa del grande scrittore, oggi più vivo che mai.

Odiato dalle sinistre, anticonformista e spirito davvero libero, Guareschi descrisse l'Italia del dopoguerra, profetizzando quella di oggi e lo sfacelo della Chiesa postconciliare.

di Domenico Del Nero

GIOVANNINO GUARESCHI: cinquanta anni fa la scomparsa del grande scrittore, oggi più vivo che mai.

“E’ morto lo scrittore che non era mai nato”. Difficile dimenticare il perentorio giudizio dell’Unità alla morte di Giovannino Guareschi. Invece, a mezzo secolo di distanza da quel 22 luglio del 1968 (anno fatale!) a esser morta è proprio l’Unità e moribonda, nonostante qualche fossile irriducibile, la torbida e sanguinaria ideologia che diffondeva e difendeva.

Giovannino Guareschi oggi è più vivo e attuale che mai, cinquanta anni dopo quel maledetto infarto che se lo portò via appena sessantenne, quando ancora ci sarebbe stato tanto bisogno di lui.  Non solo per i suoi personaggi più celebri, entrati nell’immaginario quotidiano (Don Camillo e Peppone) ma perché il grande, grandissimo scrittore emiliano è stato il cantore di un’Italia ormai definitivamente tramontata: quella della civiltà contadina e cristiana, erede di un patrimonio spirituale ricchissimo che compensava ampiamente la povertà materiale. Un paese uscito a pezzi e lacerato da un conflitto tremendo, che voleva ritrovare se stesso e ripartire, ma si trovava ancora lacerato tra correnti ideologiche contrapposte, un Partito Comunista – destinato a diventare il più forte dell’Occidente – e una Democrazia Cristiana che cristiana lo era sempre meno, alla ricerca costante del compromesso e della gestione del potere fine a se stesso e con qualunque mezzo.

Guareschi, da questo punto di vita, era un personaggio particolarmente scomodo.  Nato il 1 maggio 1908 a Fontanelle di Roccabianca in provincia di Parma, era figlio di Primo Augusto Teodosio, socialista molto sui generis (rispettava Dio e non amava Marx,  tanto per dirne una) e della maestra Lina Maghenzani, devota “ a Dio, al re e alla sintassi” come Giovannino amava ricordare.

Il periodo tra le due guerre segnò per lui la scoperta della vocazione letteraria e grafica. Avvocato mancato (si iscrisse a legge ma senza alcun risultato) lui stesso amava ricordare come in vita sua avesse fatto praticamente di tutto, dal cartellonista all’elettricista al correttore di bozze all’insegnante di mandolino! La sua attività giornalistica iniziò nel 1931 al Corriere Emiliano, ma fu nel 1936, con l’approdo al  Bertoldo che Guareschi “decollò”, sia come giornalista che come scrittore e – aspetto non certo secondario – come vignettista.

Da caporedattore, si inventò rubriche come il cestino, in cui si confrontava con lettori in cerca di pubblicazione, entrando in contatto con personaggi come Romolo Siena, Italo Calvino, Oreste del Buono. Ma è nelle vignette che Giovannino scatena la sua fantasia, rivelando una vena “surrealista” che sperimenterà anche nella narrativa, come nel romanzo  Il destino si chiama  Clotilde (1941). Tra le vignette, vengono fuori personaggi “strampalati” come quelle signore gigantesche e cupe chiamate Le vedovone, o le signore a pera e le nonnine del tramonto, anziane signore di città viste in chiave ironica ma anche con una sottile vena di malinconia. Una critica, neppure troppo velata, all’anonimato, al conformismo e all’egoismo della civiltà metropolitana, un tema destinato a grandi sviluppi e arricchimenti. Giornale “non conformista” il Bertoldo, e se forse è eccessivo parlare di opposizione, sicuramente non si trattava di una testata allineata al governo fascista che del resto Guareschi non amò mai particolarmente, anche se dopo la guerra si guardò bene dal tirar fuori “benemerenze antifasciste” che pure avrebbe potuto vantare: non fosse per il fatto di essere stato richiamato alle armi – e mandato al fronte – nell’ottobre del 1942, per avere, dopo eccessive libagioni di grappa, espresso ad alta voce quel che pensava della guerra, del fascismo e del Duce. Finì in galera e fu Mussolini stesso a tirarlo fuori, ma in compenso fu spedito al fronte. Nessuno però gli risparmiò il campo di concentramento tedesco quando, dopo la vergogna dell’otto settembre, ritenne comunque di dover mantenere il suo giuramento di fedeltà al re. Diario clandestino 1943 -45 pubblicato nel 1949, è il drammatico resoconto della prigionia dell’autore, tenacemente attaccato alla vita ( non muoio neanche se mi ammazzano! )che così scriveva nella introduzione: “ Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato. Il mondo ci dimenticò. La Croce Rossa Internazionale non poté interessarsi di noi perché la nostra qualifica di Internati Militari era nuova e non contemplata.    Dei due generali, parimenti nefasti alla storia d'Italia, che — schierati in campi avversi — potevano per noi militari fare o dire qualcosa, l'uno ci era palesemente nemico per ragioni politiche, l'altro ci ignorava nel modo più assoluto perché distratto dalla politica. Non pretendevamo aiuti materiali: ci sarebbe bastata una parola. Chi avrebbe potuto dirci questa parola, o la diceva cattiva o non la diceva.”

Non ci vuol molto a capire che, se lo avesse voluto, Guareschi avrebbe potuto benissimo, e con ben altra credibilità di certi campioni del trasformismo, pentiti, folgorati sulla via di Damasco etc. divenuti poi icona della retorica antifascista, rivendicare un ruolo coerente di oppositore.  Ma proprio la sua profonda onestà umana e intellettuale gli impediranno di farlo; nei confronti del Fascismo, sia durante il regime che dopo la sua caduta, Guareschi ebbe sempre lo stesso atteggiamento: né servile adulazione né sciacallaggio. Anzi, lo scrittore nutrirà sempre una profonda ed esplicita avversione per gli “antifascisti di professione”, e questa sarà causa certo non ultima dell’ostracismo nei suoi confronti; anche perché nessuno, tra l’altro, avrebbe potuto bollarlo come “nostalgico”, sebbene comunisti “blasonati” come Alessandro Natta non si peritassero di schernire e svilire la sua esperienza di internato nei lager.

Eppure, proprio in questo emerge un carattere fondamentale di Guareschi: uomo tutto d’un pezzo, che non conosceva la parola “compromesso”, di una coerenza adamantina, pronto a rischiare il tutto per tutto – anche la vita – per ciò in cui crede, lo scrittore emiliano non fu mai un fazioso. Forse per la sua profonda, autentica e sincera fede cristiana e cattolica, Guareschi guarda sempre oltre le passioni, la ferocia, gli odi di parte. La sua fiducia è nel Cristo, che diventerà uno dei personaggi più riusciti e toccanti della saga di Don Camillo; non statua di legno, ma voce che parla alla coscienza dell’uomo per cercare di ricordagli appunto cosa la rende simile a Lui. Una religiosità che poggiava anche nel rispetto della Tradizione, vista non certo come orpello ornamentale, ma come linfa secolare capace di infondere sempre nuova vita e luce per il cammino dell’esistenza.

Ma il ritorno a casa non significò certo la pace e il ritorno alla tranquilla vita familiare. L’Italia, straziata da una tremenda guerra civile le cui conseguenze non si sono del tutto esaurite neppure oggi, aveva bisogno di voci  libere e coraggiose. E fu così che nacque la vera e propria epopea di Candido, il settimanale nato per volontà di Angelo Rizzoli alla fine del 1945, diretto da Guareschi e Giovanni Mosca fino al 1950 e dal solo Guareschi fino al 1957: e qui che lo scrittore emiliano combatte le sue battaglie più serrate e spericolate, che gli costeranno persino il carcere, ma è anche qui che vedono la luce Don Camillo, Peppone e i personaggi del  Mondo Piccolo. Come ricorda Alessandro Gnocchi, uno dei più autorevoli studiosi e commentatori di Guareschi:  “Se il Bertoldo sferzava costume e malcostume, Candido affondava i suoi canini ovunque annusasse stupidità, malafede, cattiveria e vigliaccheria.”[1]

Se la battaglia nel referendum istituzionale del 1946 per la monarchia è perduta (sebbene sui reali risultati permangano ancora oggi dubbi e perplessità) ben diverso è il discorso per le elezioni del 1948: centrale infatti  è il ruolo di Candido in quella appassionata e decisiva campagna elettorale, che vede il Fronte Popolare formato dal blocco di  comunisti e socialisti (insieme ad altre formazioni politiche minori) tentare la scalata al potere. Guareschi si getta nella mischia con tutto il genio dei suoi articoli, delle sue vignette, dei suoi manifesti: lui, monarchico, "reazionario" e cattolico, combatte senza esitazioni e senza risparmiarsi una battaglia per la libertà.

  Impazzano le vignette dei “trinariciuti”, la geniale trovata di Guareschi per definire il militante comunista tipo ( e la cosa dette tanto sui nervi a Togliatti che definì lo scrittore emiliano “tre volte idiota”), con una terza narice per far uscire il fumo che hanno nella scatola cranica. Caratteristica del trinariciuto è di fare sempre e comunque quel che dice l’Unità : obbedienza cieca, pronta e assoluta e pertanto: “Contrordine compagni! La frase pubblicata sull’Unità: I compagni che non volano sono traditori contiene un errore di stampa e pertanto va letta:  I compagni che non votano sono traditori”, mentre la vignetta mostra un gruppetto di trinariciuti che cercano di levarsi in volo battendo sonore “musate”. [2] Ma non ci sono solo le vignette: celebre il manifesto listato a lutto di uno scheletro appoggiato a un filo spinato, con sovrascritto “100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia” e la frase angosciata del Caduto: “Mamma, votagli contro anche per me!” Del resto lo scrittore emiliano non si era mai tirato  e non si tirerà mai indietro nella denuncia dei crimini del comunismo, anche di quelli del famigerato “triangolo della morte” in Emilia, a guerra (teoricamente) finita.

Non è esagerato dire che il contributo di Candido e di Guareschi in particolare alla sconfitta delle sinistre sia stato fondamentale.  Ma non per questo Giovannino divenne un “vassallo” della Democrazia Cristiana, che pure gli avrebbe fatto ponti d’oro. Guareschi vede chiaro: l’amore per il potere fine a se stesso, la corruzione dilagante, il nepotismo di De Gasperi che Guareschi non esita ad attaccare e a stigmatizzare come “sistematore di parenti”. E proprio con il politico trentino ci sarà lo scontro più duro: il 19 dicembre 1953 Guareschi pubblicò una lettera su carta della Segreteria di Stato del Vaticano, in cui De Gasperi, rivolgendosi a un ufficiale inglese, chiedeva di intensificare i bombardamenti su Roma per provocare una insurrezione della popolazione. La vicenda provocò uno scandalo, ci fu un processo (tutt’altro però che risolutivo e “chiarificatore"  e Giovannino fu condannato per falso. Rifiutò persino di ricorrere in appello: volle andare in carcere, che affrontò con coraggio e grandissima dignità. Ovviamente nessun “intellettuale” prese le sue difese, niente petizioni o “Je suis”; fa anzi un effetto stomachevole leggere che persino Eugenio Montale brindò alla sentenza di condanna. E si trattò di una detenzione dura, senza “sconti”, con un regolamento applicato alla lettera: quasi un bis del Lager, che minò profondamente il fisico, ma non lo spirito, di questo grande uomo.

Nel frattempo, però, erano nati Don Camillo e Peppone, gli eroi della Bassa, il “ Mondo Piccolo”. Il primo racconto della serie (Peccato confessato) apparve nel Natale 1946 su Candido; ne scrisse poi 150 nei successivi 5 anni. In totale sono circa 340, raccolti in vari volumi, solo tre dei quali vivente l’autore: Mondo Piccolo (1948) Don Camillo e il suo Gregge (1953), Il compagno Don Camillo (1963). Un anno dopo la sua morte uscirà Don Camillo e i  giovani d’oggi (poi Don Camillo e Don Chichì, che si può per alcuni aspetti considerare il suo testamento. Diverse antologie  - tra cui Il breviario di don Camillo – sono state pubblicate anche molti anni dopo la sua scomparsa.  Ma ci sono solo il sanguigno prete della Bassa e il suo antagonista – amico sindaco comunista Peppone. Ci sono molti racconti i cui protagonisti sono personaggi della vita di tutti i giorni: famiglie contadine, reduci di guerra che cercano di ricostruirsi faticosamente un’esistenza, giovani alla ricerca di un senso per la loro vita. Lo scrittore ha  chiarissimo, negli ultimi anni,  il senso di un disfacimento in atto e certe sue parole sono profetiche in modo impressionante:

Com’era bella l’Italia pezzente del 1945!
Ritornavamo dalla lunga fame dei lager e trovammo l’Italia ridotta a mucchi di macerie.
Ma fra i mucchi di calcinacci, sotto i quali marcivano le ossa dei nostri morti innocenti, palpitava il vento fresco e pulito della speranza.
Quale differenza fra l’Italia povera del 1945 e la povera Italia miliardaria del 1963!
Tra i calcinacci del miracolo economico, soffia un vento caldo e polveroso che sa di cadavere, di sesso e di fogna.
Nell’Italia miliardaria della dolce vita, morta è ogni speranza e in un mondo migliore. Questa è l’Italia che cerca di combinare un orrendo pastrocchio di diavolo e d’acquasanta, mentre una folta schiera di giovani preti di sinistra – che non somigliano certo a don Camillo – si preparano a benedire, nel nome di Cristo, le rosse bandiere dell’Anticristo”

Così lo scrittore nella drammatica introduzione a Il compagno Don Camillo, mentre in Don Camillo e i giovani d’oggi la sua critica alla “civiltà dei consumi” e alla chiesa postconciliare che ritiene di “rottamare” la sua tradizione per mettersi a inseguire le mode del momento diventa sempre più profetica ed amara. Di sicuro Guareschi non sarebbe stato un fan di Bergoglio …

Ma al di là di questo, resta uno scrittore profondo e umanissimo, che con una prosa semplice e scabra, ma di grande eleganza, ha saputo raccontare davvero l’Italia del Secondo Dopoguerra, in tutte le sue luci ma anche nelle sue ombre più fosche. E nel rapporto conflittuale, ma in fondo amichevole, tra Don Camillo e Peppone Guareschi vedeva non, come qualcuno ha detto, l’anticipazione del “compromesso storico”: se c’è qualcuno che cede sui principi, è sempre Peppone, mai Don Camillo; Peppone arriva addirittura a fare l’elogio del Re, Don Camillo MAI di Lenin o Stalin!  C’è se mai la sua profonda fiducia nell’uomo e nella tradizione cristiana, che consente di incontrarsi e di ritrovarsi anche al di là e al di sopra di qualsiasi fumisteria ideologica.

Alla sua morte, in molti pensarono che sarebbe stato presto dimenticato. Invece Guareschi è più vivo che mai, e anche se non ha ancora il posto che gli spetta nelle antologie scolastiche (che, chissà perché, continuano a snobbarlo) e nella storia della nostra letteratura, lo ha invece nel cuore dei suoi lettori che sempre si rinnovano, e nella vera, autentica, memoria storica italiana.

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] A. GNOCCHI, Giovannino Guareschi, Una storia Italiana, Milano, Rizzoli, 1998 p. 128.

 

[2] http://www.giovanninoguareschi.com/1948-e-dintorni.pdf

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