Anniversari da rivedere

27 aprile 1859: la commedia della rivoluzione toscana.

Una trappola, ingegnosa ma alquanto squallida, provocava la partenza da Firenze di Leopoldo II, mettendo fine al glorioso Granducato.

di Domenico Del Nero

27 aprile 1859: la commedia della rivoluzione toscana.

“Nel dolore di renunziare a quello era a me di più caro, a quello per cui aveva valore la vita mia, un baleno di gioia rischiarò le tenebre dell’animo mio: salva è Toscana pel mio sacrificio, ella sa che sino alla fine io l’ho amata”

Questa dovrebbe essere la prima cosa da ricordare, quando si “celebra” la ricorrenza di quel 27 aprile 1859 che qualcuno si ostina a dipingere come una palingenesi della Toscana, mentre sarebbe più corretto parlare del suo de profundis. Così si chiudono infatti le memorie del granduca Leopoldo II (1797-1870), la testimonianza di un sovrano che fece del suo regno una ragione di vita:  un piccolo stato, governato da due dinastie davvero illuminate – I Medici e gli Asburgo -Lorena, che era stato faro di civiltà e di cultura al mondo intero. E non è una iperbole.

Certo, ancora oggi, a oltre un secolo e mezzo di distanza, provare a mettere in discussione gli eventi del cosiddetto “risorgimento” equivale a un delitto di lesa maestà. E nella civilissima e democraticissima Italia, le gogne mediatiche sanno scattare senza pietà quando si pestano i delicati e santissimi calli del politicamente corretto. Eppure, un’occhiata anche superficiale alla storia dello “stato nazionale” dal 1859 a oggi dovrebbe essere più che sufficiente a far venire qualche dubbio: già la guerra civile nel Sud, sbrigativamente liquidata come “brigantaggio”, doveva essere più che sufficiente a mettere in discussione le magnifiche sorti e progressive  del nuovo regno. Ma allora come oggi, le decisioni sul futuro dei popoli erano state prese senza tenerne in minimo conto reali desideri e aspirazioni. Lo stesso Antonio Gramsci, che precisamente un reazionario non lo era, avrà a dichiarare con grande chiarezza che tutto era stato il risorgimento fuorché un moto popolare.

E questo vale senza ombra di dubbio per la cosiddetta “rivoluzione toscana” del 27 aprile 1859, che di rivoluzionario ebbe ben poco o nulla. Già da subito, sia pure con una cornice aneddotica   (il famoso commento di un diplomatico francese perbacco, e neanche un vetro rotto) si avvertì che c’era qualcosa di strano e di “falso” in quella ricostruzione della folla che insorge per costringere il “tiranno” (!!) a schierarsi a fianco del Piemonte e poi il giorno dopo, quando questi rifiuta e se ne va, lo accompagna alla porta salutandolo commossa!

Una commediola di pessimo ordine, che però ha “fatto scuola” (in tutti i sensi) sino ad oggi anche se finalmente la verità comincia ad emergere.

La “pacifica rivoluzione” del 1859 altro non fu se non un’abile messinscena del solito Cavour, per mezzo del proprio ministro a Firenze Carlo Boncompagni, che da un lato rassicurava il legittimo governo granducale mentre dall’altro faceva di tutto per suscitare un moto di piazza (anche, pare, importando  “dimostranti” dal Piemonte, ovvero circa una ottantina di carabinieri in borghese, non forze dell’ordine in quel caso ma del caos) che scattò puntuale il 27 aprile 1859, il giorno dopo dichiarazione di guerra dell’Austria al regno di Sardegna. Boncompagni ebbe cura di recarsi spesso a prendere istruzioni da Cavour nei mesi che precedettero quella data fatale; di certe belle imprese era meglio evidentemente lasciare meno tracce scritte possibile. Del resto, Boncompagni non esiterà a fare della legazione sarda la base della “rivolta”, per essere sicuro che le trattative tra la piazza e il legittimo governo fallissero. Alle 18 di quella giornata davvero “gloriosa”, Leopoldo II lasciava Firenze senza che contro i dimostranti fosse sparato un solo colpo o senza il minimo accenno di reazione. Dimostranti che tra l’altro pare fossero una minoranza davvero esigua, soprattutto quelli “locali”, spalleggiati da una parte dell’aristocrazia e dell’alta borghesia che aveva tradito il proprio sovrano.  Si tentò di dar vita anche alla solita leggenda nera, secondo la quale l’arciduca Carlo, figlio minore del granduca, avrebbe voluto far bombardare Firenze dal forte Belvedere. Chi forse avrebbe voluto fare qualcosa era l’arciduca ereditario Ferdinando, ma Leopoldo non lo consentì e del resto Ferdinando non avrebbe mai accettato di scavalcare il padre.

Si potrebbe certo accusare il granduca (e alcuni lo hanno fatto) di ingenuità e irresolutezza, ma è facile farlo a un secolo e mezzo di distanza. Come molti altri, egli non comprese pienamente la situazione ed era convinto che, come undici anni prima, l’esilio sarebbe stato di breve durata. Purtroppo così non è stato, anche se all’indomani dell’armistizio di Villafranca gli eventi sembrarono, per un momento, piegare in quella direzione.

Non è poi assolutamente il caso di infierire su Leopoldo II, su cui vale riportare questo giudizio di Franz Pesendorfer: “ Vinto e ormai superato, il patriarca Leopoldo II fu costretto ad abbandonare la scena politica. Purtuttavia, la sua volontà di servire, come sovrano, il proprio Paese e di costruire il rapporto tra governo e cittadini in base ai desideri, ai problemi e allo stato di bisogno di quel paese, potrebbe valere da esempio per qualsiasi epoca e qualsiasi sistema politico.”

Su quel superato forse ci sarebbe qualcosa da eccepire, anche alla luce per l’appunto degli eventi successivi. Ma forse la cosa più importante è riscoprire la figura ingiustamente bistrattata di questo sovrano, come quella, bellissima, del figlio Ferdinando IV, che fu granduca – purtroppo solo nominale – dal luglio 1859 al 1866 e che cercò con tutte le sue forze di far valere i suoi diritti calpestati e di denunciare al mondo politico dell’epoca le vergognose manovre con cui il Piemonte si era impadronito del suo stato.

Giornata dunque tutt’altro che gloriosa per la Toscana; e mettere fine una volta per tutte a menzogne e mistificazioni è il primo, necessario passo per una memoria veramente condivisa.

 

 

 

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