Editoriale

Suburra, un ritratto in nero dell'Italia senza riscatto

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

ta la visione della decima e ultima puntata del serial “Suburra”, offerto nel pacchetto Netflix a tutti i suoi abbonati e diffusa in 190 paesi le impressioni sono contrastanti. Si tratta del primo importante sforzo produttivo di tale piattaforma, in collaborazione con la RAI.  La fiction rappresenta il prequel dell’omonimo film di Stefano Sollima, a sua volta ispirato al romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, che elaborarono in forma letteraria fatti e personaggi della cronaca nera romana degli ultimi anni.

In qualche modo, “Suburra” si pone come la risposta capitolina alla napoletana “Gomorra”, di cui Sky sta per mandare in onda la terza serie, dopo il successo internazionale delle prime due. In realtà, queste produzioni riprendono il discorso avviato a suo tempo in grande stile da “La piovra”, e il marchio della continuità è reso evidente dalla presenza di Michele Placido, in quella protagonista acclamato in tutto il mondo, e poi regista di successo nel film “Romanzo criminale” – tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo – e delle prime due puntate di questo “Suburra”; vedremo poi come si è evoluto il filone, ma intanto cerchiamo di individuarne i rapporti con la realtà italiana di questi anni.

Già in un mio articolo del giugno 2014, nel parlare della prima serie di “Gomorra”, mettevo in evidenza come quelle vicende portate sul piccolo schermo non rispecchiassero vicende locali, ma fossero la rappresentazione di una realtà nazionale ben più ampia e diffusa. Sia chiaro: qui non vogliamo uniformarci alle posizioni critiche di chi - come già un remoto e giovanissimo Andreotti, allora Sottosegretario al Ministero dello Spettacolo - esprime disapprovazione e preoccupazione per quel cinema che “non lava i panni sporchi in famiglia”, come ebbe a dire proprio Andreotti, a proposito dei film neorealisti, dove s’illustrava la miseria dell’Italia dell’epoca.

Indubbiamente, la costanza di questi temi, corroborata dalle cronache quotidiane di corruzione, che trovano eco internazionale, non giova all’immagine del nostro paese (del resto, si sa dell’efficacia e dell’insano interesse suscitato dalle cattive notizie, a detrimento di quelle buone, troppo spesso ritenute noiose). Tutto sta a cercare di capire quanto la società italiana nel suo complesso e le sue istituzioni siano coinvolte in quello che appare come un processo degenerativo se non irreversibile certo difficile da governare.

Tornando a “Suburra”, ne vanno elogiati i pregi formali, a partire dalla sapienza con cui vengono utilizzati sia “la grande bellezza” di Roma sia i suoi angoli oscuri e degradati, fino alla recitazione di alto livello di tutti gli interpreti - dai principali a quelli secondari - ed all’accurata ricostruzione di ambienti e di caratteri. Quanto ai contenuti, come già rilevammo in Gomorra, si colgono gli echi scespiriani della storia, con tutto il loro carico di sangue, di tradimenti, di lotta per il potere fine a se stesso, di cinismo e perfino di venature incestuose. La cronaca recente, come appare evidente, ispira situazioni e maschere, dal Samurai con un passato neofascista, tributario del Carminati protagonista del “mondo di mezzo”, al personaggio di Claudia Gerini e del prelato da lei “vampirizzato, in cui è forte la tentazione di riconoscere somiglianze e assonanze con le vicende che di recente hanno interessato un’influente consulente delle istituzioni finanziarie vaticane.

Ancora una volta, come già in Gomorra, il mondo della gente “normale”, e perfino dei “buoni” – fin qui sempre presenti come alternativa ai “cattivi” nelle storie di “guardie e ladri” – è assente o, al più, appare sullo sfondo: in “Suburra”, ad esempio, questo mondo è rappresentato  dal padre poliziotto di uno dei tre giovani protagonisti della fiction, l’unico di estrazione piccolo-borghese, in una galleria di personaggi rappresentativi di tutti gli strati della malasocietà capitolina.

Nella vicenda, agiscono prelati lussuriosi e corrotti, costruttori falliti - ma introdotti nei salotti aristocratici e nelle stanze vaticane - zingari arricchiti e organizzati in cosche criminali e accampati in residenze di un lusso cafonal, esponenti di dinastie banditesche in declino e reduci dell’eversione “nera”, passati al delitto sistematico e aspiranti a governare nascostamente Roma, prostitute d’alto bordo e spacciatori di ogni risma, politici corrotti e politici destinati ad esserlo, senza distinzione di partito. Quasi che, l’abbiamo detto, non vi fosse scampo anche per chi, dopo un percorso di frugalità onesta improntato all’idealismo, non vi fosse che un esito d’insana ambizione, d’ineludibile soggiacenza ai ricatti e, alla fine, di corruzione.

Proprio su questo fronte si evidenziano le differenze rispetto alla matrice del genere, che abbiamo indicato ne “La piovra”, la cui prima serie risale al 1984: qui, nel personaggio del commissario Cattani si perpetuava la tradizione che imponeva la netta distinzione fra bene e male ed esigeva la presenza dell’Eroe positivo; sullo sfondo, una società sana, capace di darsi istituzioni solide e affidabili, sulla quale tentavano di incistarsi le cellule cancerogene del male, rappresentato dalla mafia.

Da quel tempo, sembra trascorsa un’era geologica: in questa Suburra, come in Gomorra, i protagonisti sono soltanto eroi negativi, e la società, come le sue istituzioni, appare in preda a metastasi irreversibili, che si tratti della Chiesa, dell’Imprenditoria, della Politica, dei Servizi Segreti, della Famiglia. Parallelamente, viene superata la dimensione “localistica” delle organizzazioni criminali.

L’unico idolo riconosciuto e il Potere, con i suoi corollari di terrore, denaro, sesso; e non è un caso che sulla scena non appaiano bambini, se non, in alcuni casi, come strumento di ricatto: per tutte queste marionette, agite da oscuri burattinai, non c’è infatti futuro e, proprio come nelle tragedie elisabettiane, in fondo al loro cammino cruento non può che esserci una morte violenta.

Per noi, che siamo spettatori inermi di queste messinscene dove realtà e finzione appaiono intrecciate in modo inestricabile e sembrano alimentarsi l’un l’altra, rimane una sola chance: non limitarci ad essere spettatori e cercare di conciliare il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà.

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