La strage in Egitto

MENYAH:CRONACA DI UN MASSACRO

Un drammatico resoconto, tratto da un reportage del LeFigaro.fr, dell'ultima ondata di follia omicida contro i cristiani copti

di Luca  Costa

MENYAH:CRONACA DI UN MASSACRO

Egitto, Monastero di Saint-Samuel, Venerdì 26 maggio 2017

 

Ayid Michael è in ritardo. Strano, Ayid non è mai in ritardo. È lui il caporeparto della fonderia del monastero di Saint-Samuel, famoso in tutto il nord-Africa per le sue campane. Rannicchiato nel deserto, il monastero, bianco, sembra  un candido, pallido miraggio. Un’immagine perfetta di serenità e di pace.

 

Ma Ayid è in ritardo, e Apollo, uno dei 150 monaci della comunità, è inquieto, durante le preghiere del mattino non riesce a staccare gli occhi dalla strada che serpeggia tra le dune.

 

“Conosco Ayid da quand’era ragazzino. Gli ho insegnato io l’arte di fabbricare le campane. Ha cominciato come apprendista, più di venticinque anni fa. Era talmente bravo che è diventato il responsabile dei nostri maestri artigiani”, racconta il vecchio Apollo.

 

“Verso le 11, vedendo che né Ayid né gli operai tardavano, ho sentito un peso nell’anima, un cattivo presentimento. Allora sono uscito per vedere se stessero arrivando. Poi ho continuato fin sulla collina, dove si riesce a captare un po’ di segnale per il cellulare. Ma non ho fatto in tempo a chiamarlo che il telefono ha cominciato a squillare. Era un poliziotto: Ayd è morto, li hanno ammazzati tutti. Ho urlato. Mi sono sentito sprofondare”.

 

A pochi chilometri dal monastero, il pick-up dei lavoratori è caduto in un imboscata. Una decina di uomini in passamontagna arrivati dal deserto e ha fermato tre veicoli che si dirigevano verso il monastero di Saint-Samuel. Uno di questi era un autobus di fedeli che si apprestava nel weekend a far battezzare un bambino, un secondo mezzo era pieno di bambini delle famiglie del primo, e infine il pick-up.

È il figlio di Ayid, Marco, 14 anni, a chiamare aiuto al villaggio di Deir al-Garnous, da dove vengono gli operai.

 

“Eravamo a casa, facevamo colazione, quando mio marito mi ha chiamata, racconta Hannan, moglie di Ayid, ma quando ho risposto ho sentito la voce di mio figlio. Mi ha detto: mamma! aiutaci, ci stanno ammazzando.

I terroristi li hanno uccisi uno dopo l’altro.”

 

Hannan raduna i vicini e tutti si dirigono verso il monastero.

 

“Quando siamo arrivati, abbiamo visto una camionetta della polizia parcheggiata all’inizio della strada che porta Saint-Simon. Ci hanno detto: Fermi! stanno sparando!, abbiamo risposto loro che stavano sparando ai nostri figli e ai nostri mariti, dovremmo abbandonarli? E abbiamo sentito dei colpi d’arma da fuoco in lontananza”.

 

Le famiglie forzano il “blocco” della polizia.

Quando arrivano sul posto trovano i corpi dei loro cari faccia a terra, nella sabbia del deserto, il sangue bruciato dal sole rovente di fine maggio.

 

“Erano quasi tutti morti. Abbiamo trovato una donna ferita, nascosta sotto i sedili del bus. Ci ha raccontato che sono stati fermati per strada da uomini in uniforme. Hanno creduto ad un banale controllo documenti. Ma subito i terroristi hanno freddato l’autista con un colpo in testa, e hanno ordinato agli uomini di scendere.

Li hanno messi in fila, e hanno cercato in tutti i modi di far loro pronunciare la Chahada (la professione di fede musulmana), ma gli uomini hanno risposto tutti: “Noi viviamo Cristiani, noi moriamo Cristiani”, e hanno mostrato le loro croci tatuatte sui polsi. Allora i terroristi li hanno uccisi tutti. Poi sono passati alle donne. Anch’esse hanno rifiutato e allora gli djiadisti hanno iniziato a sparare a raffica sulle mamme e i bambini. Poi hanno controllato per diversi minuti che tutti fossero morti.”

 

La polizia non arriva. La polizia non chiama i soccorsi, non chiama nemmeno l’ambulanza.

 

“Non hanno fatto niente! niente! - grida Hannan - La polizia era a meno di 4 km, il nostro villaggio a due ore, e siamo arrivati sul posto prima di loro. I posti di blocco sono solo per bellezza! Fanno finta di proteggerci, ma in realtà tutto viene predisposto per non poterci difendere!”

 

Ayid è morto, ma i due figli di Hannan sono, insieme alla donna rannicchiata nel bus, gli unici due ancora in vita, per miracolo. Tutti gli altri sono morti.

 

A Deir al-Garnous, i funerali delle vittime sono stati organizzati nei tre giorni che hanno seguito la tragedia. La chiesa stracolma, debordante di cristiani venuti da tutto l’Egitto per rendere omaggio ai loro martiri.

L’Alto-Egitto, roccaforte cristiana che ospita due terzi dei Copti in un paese dove il 92% della popolazione è islamica, è abituato alle violenze, ma questa è la prima volta che un massacro è rivendicato dallo Stato Islamico.

 

Interrogato sulla necessità di formare una milizia copta per proteggere i cristiani, il Vescovo di Maghagha, Anba Agathyon, risponde:

 

“I Copti rifiutano di formare la loro propria polizia. Ci pensa lo Stato. Il governo sta facendo un ottimo lavoro. Solo le autorità pubbliche sono autorizzate a girare armate. La gente è in collera, è normale. Ma lo Stato fa il massimo. Bisogna ringraziare il Presidente.”

 

Tuttavia, il cognato di Ayid, Girgis, la pensa diversamente:

 

“I Cristiani sono massacrati senza sosta, mentre il Papa rende onori e scambia convenevoli con al-Sisi! E noi cosa dobbiamo fare? Ringraziare il Presidente? Per cosa?! Bombardare la Libia non serve a niente! I terroristi sono qui, sono ancora qui e sono sempre qui in Egitto, e il potere fa finta di non vedere!”.

 

Questo pezzo è in gran parte la traduzione di un articolo apparso (coraggiosamente) su LeFigaro.fr lunedì 29 maggio, frutto del reportage dell’inviato del quotidiano francese a Deir al-Garnous, dedicato alla strage di Cristiani copti perpetrata da un gruppo di terroristi musulmani, il 26 maggio 2017.

 

 

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