Editoriale

Elezioni alle porte, torna la politica?

I tecnici che dovevano salvare l'Italia hanno combinato poco e male e a bordo campo intanto si scaldano vecchi giocatori

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

on l’arrivo della primavera, sembra essersi risvegliata la politica italiana, più principessa narcotizzata nel Palazzo che non bella addormentata nel bosco. Battono alle porte le elezioni amministrative e talune emergenze che imposero il “governo tecnico” sembrano in via di superamento; si aggiunga la sgradevole soluzione, ad opera dei “professori governanti”, di problemi da tempo all’ordine del giorno e mai risolti dai politici, vuoi per il consueto gioco dei veti incrociati vuoi per non dover apparire troppo impopolari: ce n’è abbastanza perché i “rappresentanti del popolo”, ridotti a sostenitori istituzionali – e obbligati -  degli studiosi chiamati al capezzale dell’Italia, rompano gli indugi e comincino a riprendersi la scena, fin qui occupata da sindacalisti ed esperti di finanza, da economisti ed esponenti delle più disparate categorie.

Questo ritorno, peraltro, avviene mentre imperversano episodi di corruzione “trasversali”, che riportano alla luce le liaisons dangereuses tra affari, politica e pubblica amministrazione, intrecci perversi che furono alla base di Tangentopoli e che l’operazione Mani Pulite non riuscì, evidentemente, a debellare.  Che dire? Accodarsi al coro dell’Antipolitica, unirsi agli strepiti contro la Casta? Chi ha a cuore le sorti non solo della comunità nazionale, ma della stessa Politica (sì, quella con la maiuscola) non se lo può permettere. Troppo facile. Troppo superficiale. Troppo ingiusto. La Politica è cosa troppo grande – e necessaria – per identificarla con i suoi temporanei rappresentanti, in gran parte corrotti e/o inetti.

Del resto, nel bene e nel male, la politica non è stata assente dalle nostre giornate, sia sul fronte interno che su quello esterno; e poi, da più parti si sente dire che, proprio in vista della ripresa a pieno titolo della politica, lo stesso governo tecnico – o parte di esso -  potrebbe trasformarsi in una nuova lista elettorale o, comunque, in un’aggregazione dai connotati prettamente politici. Certo, il consenso amplissimo dei primi momenti è in fase calante, forse anche perché all’iniziale decisionismo incontrastato si sta sostituendo una disponibilità negoziale – qualcuno potrebbe dire: un’arrendevolezza ai ritornanti poteri di veto delle diverse parti sociale e/o politiche – che sembra assimilare l’attuale ceto dirigente a quelli che l’hanno preceduto e che si sono guadagnati un crescente discredito, anche per l’incapacità di decidere. D’altronde, la stessa ripresa delle schermaglie tra fazioni si traduce nel ritorno della politica.

Quanto al governo Monti, anche la riforma del mercato del lavoro – il cui esito finale sarà demandato al Parlamento, in tempi non brevissimi – sembra essersi dipanata sullo schema fin qui adottato: in rapporto alle finalità – prima fra tutte, l’uscita dalla recessione e il ritorno alla crescita – si interviene scegliendo obiettivi “facili”, numerosi e immediati. Tutti sappiamo, ad esempio, che gli investitori istituzionali esteri si tengono lontani dall’Italia per tre principali ordini di motivi: l’asfissiante e ineludibile burocrazia, che rallenta e scoraggia qualunque iniziativa produttiva; la metastasi della grande criminalità, che, fra l’altro, mette a repentaglio l’ordinato e sano sviluppo della concorrenza, ormai non più solo in alcune aree del paese; la lunghezza e l’incertezza dei processi civili e amministrativi. Ebbene, dov’è che il governo mette mano, per ovviare al blocco dell’apparato produttivo ed alla disoccupazione, con l’intento di rimettere in moto la macchina degli investimenti? Lo abbiamo visto tutti: al famigerato articolo 18 e, più in generale, alla cosiddetta flessibilità – specie in uscita… - del posto di lavoro. Il tutto, con i pannicelli caldi di qualche ritocco agli ammortizzatori sociali e alle procedure dei ricorsi al giudice del lavoro.

Ora, nessuno in buona fede pensa che capitani d’industria e piccoli imprenditori stiano lì pronti ad avviare ondate di licenziamenti: certo è che le tutele dei lavoratori dipendenti appaiono ridotte ai minimi termini, tanto da suscitare ripensamenti e riserve anche in sindacati non riconducibili alla logica della lotta di classe, quali CISL e UGL, e questo senza che le imprese ne traggano sostanziali benefici. Intanto, poco o nulla si è fatto sul fronte Banche – a vantaggio delle quali si è fatta marcia indietro sulla questione delle commissioni, prima abolite e ora ripristinate – e, in generale, delle liberalizzazioni, i cui effetti, per ammissione dello stesso governo, in ogni caso si vedranno fra anni. E che dire del debito pubblico, del suo regime di tassi, dei possibili rimedi per ridurlo, tutti argomenti a lungo in cima alle preoccupazioni di governo e politici, e ora depennati, a quanto pare, dall’agenda di legislatori e governanti?

Ma qui si pone, soprattutto per il futuro immediato, il problema della rappresentanza, cruciale in una fase di trasformazione della società e della politica: persistente crisi demografica; stravolgimenti del mercato del lavoro; massiccia presenza - con prevedibile incremento nel lungo periodo – di immigrati; generalizzata ripulsa della legge elettorale vigente; consapevolezza sempre più diffusa della opportunità di adeguamenti della carta costituzionale, sono solo alcuni tra i fattori, qui elencati alla rinfusa, che spingono ad una riflessione sulla esigenza di rimodulare i criteri della rappresentanza politica, nozione fondamentale, soprattutto per le democrazie.

Non è certo questa la sede per arrivare a formulazioni o a ricette compiute, ma neppure ci si può sottrarre ad alcune constatazioni. E’ sotto gli occhi di tutti, in Italia, l’avvio di un processo di scomposizione e ricomposizione del quadro dei partiti e l’emersione di forze e movimenti nuovi; anche per questo, appare affannoso e inadeguato ogni tentativo della classe politica di riplasmare la rappresentanza nei rigidi calchi di una legge elettorale. Tanto il sistema maggioritario/bipolare quanto quello proporzionale/multipolare, in tutte le rispettive varianti, si basano infatti sul confronto non solo di programmi, ma anche – e forse soprattutto – di visioni del mondo, sullo sfondo di una sovranità nazionale e di una memoria condivisa; vale a dire su entità sempre più difficili da individuare, da tramandare, da porre in primo piano come suscitatrici di consenso.

Non va lontano un paese dove le passioni si accendono per un inceneritore o per una linea ferroviaria veloce; dove la politica appare più come una strada per il successo che non come una disciplina e una milizia, nell’interesse comune; non va lontano un paese dove le Istituzioni – dalla Magistratura al Governo, dalla Presidenza della Repubblica ai Partiti e ai Sindacati – sperperano il credito accumulato, in pochi lustri di lotte per bande; non va lontano un paese in cui i creatori di ricchezza, dopo aver socializzato le perdite e privatizzato i profitti, quando non si sottraggono al proprio dovere di contribuenti, vanno a cercare il proprio vantaggio oltre confine, nel nome del Dio Mercato, lasciando fabbriche chiuse e disperazione in quella patria che del resto è schiacciata dalla pressa della grande criminalità e soffocata dai lacci di una burocrazia onnipotente e onnipervadente. Rappresentanza, dunque. Ne parleremo in una prossima occasione, anche valutando le nuove possibili forme di democrazia diretta, scaturite dalle innovazioni tecnologiche di massa.

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