Editoriale

Sradicati, globalizzati ... sciagurati

Oggi sembra incomprensibile l'attaccamento di chi viveva nelle zone terremotate ai loro paesi in rovina, eppure... quella si chiama ancora civiltà

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

giorni in cui tutte le reti televisive mandano in onda interviste con i nostri sfortunati connazionali che il terremoto ha scacciato dalle case e privato del lavoro e che ora la neve isola impietosa. Molte di queste interviste ci hanno mostrato anziani disorientati e angosciati, ma decisi a non abbandonare la loro terra, ma anche giovani pronti a sacrificarsi pur di continuare l’attività lavorativa, principalmente quella di allevatore, in una sorta di alternativa e di risposta involontaria alla “generazione Erasmus”.

Raramente il tema delle radici, oggetto di saggi più o meno autorevoli, ma a volte confinati nel limbo delle astrazioni, si è palesato con maggiore evidenza e drammaticità. Viviamo in tempi di “società liquida”, secondo l’efficace espressione coniata da Zigmunt Bauman: una società che ha dovuto – o voluto? – rinunciare ad ogni ancoraggio fisico, morale, intellettuale, politico e religioso, per lasciarsi andare in una corrente acquea che nessuno sa dove porterà singoli e collettività.

Le idee del confine che è anche limite all’agire, della regola – o del comandamento - che certo ci frena, ma d’altra parte ci protegge, degli affetti non già da assoggettare al capriccio, bensì da coltivare con fatica e abnegazione, della coerenza che impone a volte di porre in secondo piano il piacere individuale, per subordinarlo all’interesse, per esempio, della famiglia o della più ampia comunità – di lavoro, di culto – della quale si fa parte, appartengono, tutte queste idee, al passato.

Lo sradicamento è un processo che ha molteplici, eterogenei fattori: il desiderio di “realizzarsi”, liberandosi da vincoli di convenienza o di tradizione; una crisi economica perdurante, che sta privando delle prospettive di lavoro un numero crescente di giovani (e non solo); l’indebolimento – culturale e demografico – dell’istituto familiare come lo avevamo conosciuto; la tecnica pervasiva e alla portata di tutti, per cui, ad esempio, gli spostamenti sono rapidi e frequenti e le notizie si sovrappongono e volano in tempo reale da un occhio all’altro, da un orecchio all’altro, senza lasciare traccia di sé; la fungibilità dei ruoli e la trasformazione del principio di autorità, svuotato, da un lato, in quegli ambiti dove ha svolto per millenni una funzione essenziale – scuola e famiglia – e, dall’altro, reso più forte e addirittura implacabile e irresponsabile e magari nascosto, in altri ambiti decisivi della nostra vita (centrali finanziarie e centri di potere, anche mediatico, in grado di pilotare la politica).

Il risultato è che i giovani più intraprendenti e preparati lasciano i rispettivi paesi, in cerca di un futuro migliore; e se differenti sono i numeri, la qualità e le modalità di queste migrazioni, a seconda che si tratti di un ricercatore italiano, di un idraulico polacco o di un profugo somalo, il risultato finale è che il paese di provenienza ne risulta impoverito e che il migrante allenta, quando non recide, i legami con la famiglia, le abitudini, gli amici con cui è cresciuto. Di passata, ricorderemo che, in paesi come il nostro, il fenomeno riguarda anche una fascia sempre più ampia di anziani, costretti a salvare le loro magre pensioni dalla presa rapace del fisco nazionale, per approdare a lidi più ospitali.

Del resto, la tendenza diffusa allo sradicamento presenta un aspetto politico, laddove il ruolo della comunità familiare è tenuto da quella politico-ideologica; in parallelo, il luogo del radicamento è diventato virtuale ed effimero, passando dalla sezione di partito al sito web, sempre nel segno della precarietà, che caratterizza non solamente i percorsi lavorativi, ma anche i destini familiari e le scelte politiche: tanto per limitarci ad un solo esempio, in Italia, siamo passati da un elettorato che veniva definito “vischioso” ad una mobilità ed “infedeltà” del cittadino-elettore, capaci di destabilizzare il quadro politico, ancor più dell’inadeguatezza degli addetti ai lavori e del peraltro connaturato trasformismo.

Un altro aspetto ancora riguarda i pretesi “nuovi cittadini” o aspiranti tali: disgraziati con alle spalle mille e mille drammatiche odissee, indotti da guerre e carestie, da persecuzioni e miseria – eccola, la distinzione cinica, sotto il manto del “buonismo”, fra rifugiato e migrante economico – a strapparsi da climi, alimenti, luoghi di culto, famiglie, per approdare in una patria che non li ama, li emargina, li sfrutta con i suoi “caporali” e magari con i suoi boss delinquenti.

Quanto ci vorrà a queste masse di diseredati – prescindendo dalla fedeltà alle leggi e dal rispetto degli adempimenti burocratici – per sentirsi davvero cittadini, per mettere radici nuove, per capire il senso di quelle chiese edificate sui templi romani, di quelle tradizioni gastronomiche e di quei dialetti che parlano di antichi retaggi locali, per essere pienamente consapevoli della genesi di certi doveri civici, per godersi fino in fondo una sinfonia, un’aria d’opera, un ciclo di affreschi, perfino per comprendere certi difetti del carattere nazionale, stratificato di generazione in generazione? E non vale l’esempio, spesso avanzato a sproposito, del precedente americano, dove la storia dell’immigrazione si ambientava in un paese giovane e in espansione, e non già, come oggi avviene, in paesi vecchi e in timoroso ripiegamento.

E allora, ascoltare e vedere questi giovani allevatori, così legati alla propria missione, alla propria terra, alla propria comunità, al culmine dei disastri provocati dal terremoto, dalla neve e, chissà, dalle carenze e dagli errori umani, dev’essere di conforto per tutta la Nazione oggi in difficoltà e dev’essere interpretato come segnale di speranza per il futuro.

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