Editoriale

Renzi ha perso e con lui i vertici di industriali e sedicenti gruppi dirigenti

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

unque, “il popolo degli abissi”, secondo una felice citazione dantesca del prof. Sapelli, si è levato e ha fatto sentire la sua voce gridando un “NO” forte e chiaro. No alle riforme proposte dal duo Renzi-Boschi, ma poi no al governo e a tutto il suo operato. Come saprà chi ha avuto la bontà di leggermi, le motivazioni del mio “no” erano meno di natura tecnico-giuridica che non di portata politica, e vertevano proprio sull’operato del Governo in questi mille giorni. E’ lecito presumere che analogo giudizio negativo sia venuto dall’elettorato, forse poco convinto in particolare da alcuni passaggi delle riforme – ricordiamo soprattutto l’abolizione dell’elezione diretta per il Senato residuale e dopolavoristico – ma certo ancor meno convinto dell’efficacia dell’azione governativa.

Dopo quasi tre anni, nessuno dei problemi economici che affliggono la nostra Italia è stato avviato a soluzione, e questo malgrado la presenza di alcuni dati congiunturali favorevoli, come il persistente basso livello dei prezzi petroliferi e i provvedimenti determinanti della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi.

E non parliamo delle linee guida valoriali a cui si sono ispirati Renzi e i suoi: basterebbe menzionare la sottovalutazione, quanto meno, della sovranità nazionale o l’incapacità di farla valere - il che forse è ancora più grave – non soltanto in sede europea e non soltanto a proposito della ripartizione dei flussi migratori; ma fra le negatività fatte registrare da questo governo, in primo piano figura la pressoché totale assenza di misure a favore delle famiglie italiane, anche per rimediare al drammatico declino demografico in atto e a cui non si deve ovviare con una “sostituzione di popoli”, grazie all’apporto degli immigrati.

E per carità di Patria evitiamo di soffermarci sugli atteggiamenti pseudo gladiatorii delle ultime settimane nei confronti dell’Unione Europea, che hanno l’evidente sapore di espedienti, paragonabili alle tante “mance” elargite nella legge di bilancio tuttora in discussione al Senato, espedienti che non sono bastati a far vincere il “sì”. A questo proposito, non va dimenticata l’inattesa affluenza alle urne: quel quasi 70% la dice lunga sull’esigenza, troppo a lungo frustrata dalle oligarchie di potere, di esercitare la sovranità sancita dalla Costituzione, legittimando con il voto popolare i governi della Repubblica (non abbiamo bisogno di ricordare che gli ultimi tre sono stati il frutto di manovre di Palazzo).

E adesso? Non abbiamo mai creduto alle catastrofi dei mercati dopo il “no”, e i primi segnali sono confortanti, ma è sicuro che si va verso una fase di incertezza soprattutto politica, nella quale sarà importante richiamare i cittadini – e questo sarà il compito principale dei media – alla vigilanza, affinché il risultato referendario non venga neutralizzato. Si sente parlare già di governi di scopo, finalizzati all’elaborazione di una legge elettorale che consenta di arrivare ad un governo finalmente suffragato dal voto: e di sicuro andare subito alle elezioni politiche, con una legge elettorale inadeguata a far nascere maggioranze solide e chiare, lascia in dubbio circa questa opzione, che accomuna Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia; ma alla testa di questo eventuale governo non potrà, non dovrà esserci chi fino ad oggi ha avuto responsabilità importanti, come il ministro dell’Economia.

Certo, a proposito di responsabilità, al cosiddetto “fronte del no” ne toccano di non poco momento; tutti i suoi leader dovranno lavorare, con spirito collaborativo e grandi capacità di mediazione – che significa anche saper rinunciare a qualche caposaldo ideologico – innanzitutto per ridisegnare una nuova legge elettorale (senza dimenticare che, con ogni probabilità, nelle prossime settimane la Consulta boccerà nelle sue parti qualificanti l’Italicum). E qui si porrà un primo dilemma di natura teorica e pratica, riguardante la scelta fra il sistema proporzionale e quello maggioritario.

Dovrebbe essere a tutti chiaro che, alla luce dell’ormai consolidato assetto tripolare, insistere sul maggioritario porrebbe non poche criticità: ad esempio, si rischierebbe di ricalcare il sistema francese, dove da decenni una forza politica che riceve milioni di voti – il Front National – viene di fatto esclusa dalle Assemblee rappresentative. D’altro canto, il proporzionale evoca i fantasmi della Prima Repubblica, pronti a trascinarsi le catene degli inciuci, del trasformismo – che però ha colpito anche in epoca maggioritaria, essendo connaturato con il carattere italiano – delle prevaricazioni partitocratiche, dell’esautorazione del Parlamento, soprattutto dell’incertezza imposta all’Elettore, il quale difficilmente saprebbe chi ha vinto all’indomani delle elezioni e non potrebbe minimamente incidere sul “colore” delle alleanze e, alla fine, sugli orientamenti del governo. In più, rispetto alla Prima Repubblica, ci troviamo di fronte ad una forza politica come il Movimento Cinque Stelle che, per principio, ha respinto, fino ad oggi, qualsivoglia tentativo di accordo da parte di altri soggetti.

In tale scenario, non vanno sottovalutate le interferenze esterne - con l’Unione Europea e i potentati finanziari internazionali in testa - mentre contano meno le lobbies interne, che hanno dimostrato, proprio in occasione del referendum, di non avere un seguito significativo: basti pensare a Confindustria, a Coldiretti, al circo – modesto, in verità – di nani, conduttori, ballerine e saltimbanchi. 

Ci aspetta insomma, come Paese, una scommessa vitale: dobbiamo dimostrare di saperci dare regole del gioco il più possibile condivise – non solo la Carta, ma anche la Legge Elettorale – e non già divisive, come è avvenuto in occasione di questo e del precedente referendum costituzionale; dobbiamo ritrovare insieme il “gusto” della sovranità e dei progetti comuni; dobbiamo riscoprire il talento – soprattutto i governanti, ma poi tutte le classi dirigenti, nei vari ambiti – di costruire e investire, anche economicamente, per il futuro, conservando quello che va conservato e cambiando quello che va cambiato.

E la destra? A nostro avviso, ammesso che una simile connotazione abbia ancora senso, dovrà guardarsi intorno, alla ricerca di nuove sintesi, capaci di portarla al di là del cortile di casa, dove i galli di oggi sono pronti ad azzuffarsi per trascurabili percentuali di consensi e, quindi, di sottopotere. E’ il momento delle grandi visioni comunitarie: chi saprà prospettarle e tradurle in iniziative concrete,  anche con i più imprevedibili alleati, si troverà legittimamente alla guida del cambiamento.


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