a poche ore dal voto

In caso di vittoria del No, le dimissioni rimangono per Renzi l'unica possibilità di salvare la faccia.

Il tormentone referendario è alla fine; e dopo?

di Graziano Davoli

In caso di vittoria del No, le dimissioni rimangono per Renzi l'unica possibilità di salvare la faccia.

Il quattro Novembre è alle porte. Finalmente voteremo e ci libereremo di questo referendum.

Che vinca il Sì o che vinca il No, avremo la certezza che questi mesi di puro cabaret saranno solo un infausto ricordo.

Mesi di caciare che vaneggiavano di governi non eletti dal popolo (this is parlamentarism baby!) e di derive autoritarie, di costituzioni belle ed ineffabili o di ingerenze transnazionali, di miraggi di semplificazione e modernità e di promesse fotoniche.

Potremo esclamare a gran voce: "Nunc est bibendum" e pensare a chi, nel migliore dei casi, ha richiamato alla memoria un famoso motivetto di Gigi Proietti dal titolo molto poco ortodosso o nel peggiore dei casi, è sprofondato in uno stato di anarchia apocalittica di pasoliniana memoria.

In mezzo a simili brodaglie, culturali e civiche, vi è da sperare che, in caso di effettiva vittoria del No, Matteo Renzi si dimetta sul serio. Non è una questione di voti pentastellati e giacobini dati contro il governo. E' una questione di credibilità, si tratta di salvare quel poco che resta della propria faccia politica e pubblica. Stiamo parlando di una legge non scritta, che affonda le sue origini agli albori della scienza politica, dunque non ha un carattere né valutativo né normativo, stiamo parlando della scienza che studia tutto ciò che è proprio della polis e lo fa con un approccio realistico.

Colui che diventa Principe con l’aiuto dei nobili resta al potere con maggiori difficoltà di colui che lo diventa con l’aiuto del popolo. Si tratta, infatti, di un Principe circondato da molti che si considerano suoi pari, così che a lui non riesce né di comandare né di gestire le cose a suo modo”.

Queste parole, uscite dalla lucida e lungimirante penna di Niccolò Machiavelli, oltre a rivelarsi attualissime paiono descrivere benissimo la situazione che l’attuale presidente del consiglio si trova ad affrontare. E’ diventato segretario del Partito Democratico grazie a primarie aperte, che lo hanno visto salire in trionfo grazie ad un consenso significativo, il quale proveniva anche da numerosi elettori di Forza Italia. Si è reso conto che, in una democrazia consensuale, il leader deve aspirare a farsi amici i nemici che vorrebbero limitare il suo potere in quanto il partito è solo una parte del tutto, deve avvalersi delle sue doti da mediatore perché i vari gruppi istituzionali e d’interesse gli concedano spazi d’autonomia sempre maggiori entro i quali esercitare il suo potere. Tutto questo pare essere riuscito a farlo, rivelando apprezzabili doti da negoziatore. Ha creato una coalizione di governo che, pur attraversando molte tempeste, pare essergli rimasta fedele. Ha plasmato una maggioranza parlamentare abbastanza composita, nel farlo ha contribuito a ridurre il centrodestra ad una sconclusionata armata brancaleone di personaggi in cerca d’autore. Il sistema mediale non gli è di certo ostile, non si è mai vista la televisione pubblica così devota ad un capo del governo. Ed i sindacati (la cui opposizione è solo formale) e le associazioni datoriali (l’endorsement di Confindustria per il Sì è stato uno dei più accesi) paiono essere compiacenti.

Il problema Renzi lo ha creato in casa sua, lasciamo perdere la bagnarola rosa shocking di Sinistra Italiana, l’opposizione più feroce deriva dallo stesso PD. Abbiamo detto che in una democrazia consensuale il partito è solo un attore in un palco più ampio e Renzi è di certo riuscito a personalizzare il proprio esecutivo, questo effetto è destinato a durare solo in un rapporto strettamente simbiotico con il consenso elettorale e dell’opinione pubblica, due bestie proteiformi.

Già di per sé qualsiasi leader che convocando un referendum, concernente una certa materia, porta avanti attivamente quella posizione che alle urne si trova sconfitta, si trova a percepire che la sua legittimazione è in corso di erosione e dunque è costretto a dimettersi sperando che l’elettorato possa apprezzare l’atto di responsabilità da lui compiuto e premiarlo nelle future elezioni. E’ il caso di Charles De Gaulle il quale nel 1969 si dimise dopo che la sua proposta di revisione costituzionale fu bocciata in seguito al referendum dello stesso anno o delle dimissioni di David Cameron, il quale durante la campagna referendaria circa il destino del Regno Unito all’interno dell’Unione europea, svoltasi quest’estate, è stato un acceso partigiano della permanenza per poi trovarsi di fronte ai sudditi di sua maestà che, con una maggioranza risicata, alle urne premiavano il Leave. Renzi, a maggior ragione, avendo deciso di mettersi in gioco personalizzando la consultazione, in caso di vittoria del No sarà tenuto a compiere questo atto di responsabilità nei confronti dei suoi elettori, onde salvare la faccia e preservare il consenso di cui gode. Dal momento che, appunto, l’opposizione più agguerrita proviene proprio dal Partito Democratico e dalla minoranza dei proscritti guidata dalla diarchia Bersani- D’Alema. Come se non bastasse l’Italicum muterà questa democrazia, ora consensuale, in maggioritaria. In essa il premier non dovrà far nulla per procacciarsi zone di autonomia entro le quali esercitare il proprio potere, ma si troverà di fronte ad unico grande punto di veto: il proprio partito. La situazione del presidente del consiglio, in tal caso, è già precaria. Deve guardarsi dai nemici, la significativa minoranza di qui sopra, ma anche dagli amici. E’ quasi sicuro che i suoi fedelissimi, in caso di sconfitta, si accapiglieranno per fargli le scarpe: la Boschi, Lotti, Giacchetti e De Luca ( il Trump della sinistra, l’Achille Lauro del ventunesimo secolo, il quale già si è rivelato un cane sciolto). In un contesto del genere qualora i risultati del referendum premiassero il No, l’erosione del suo consenso è deducibile dagli stessi elettori che innanzi tutto votano contro di lui, le dimissioni sarebbero il metodo più veloce ed indolore per cercare di preservare la legittimazione elettorale e fare in modo di poter avere qualche possibilità di riconfermarsi alle prossime politiche (anche se sappiamo che non grandinerà come alle europee ma una pioggerellina primaverile sarebbe già una benedizione per lui) e di non finire recluso nel loculo della politica italiana.







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