Quando il popolo si ribellò al comunismo

BUDAPEST 1956: eroismo e calvario di una nazione

Pubblichiamo una relazione del convegno tenutosi a Firenze il 21 ottobre a Palazzo Bastogi

di Domenico Del Nero

BUDAPEST 1956: eroismo e calvario di una nazione

Budapest: il sacrario dei caduti del 1956

“ Scontri nelle vie di Budapest provocati da un gruppo armato controrivoluzionario” Così titola l’Unita del 24 ottobre 1956, dando subito il “tono” che terrà per tutto il resto di quei drammatici giorni: “ una grandiosa manifestazione, cui partecipavano studenti, giovani operai, donne, soldati, si era svolta per le vie della capitale raccogliendo non meno di centomila persone. La manifestazione era  sorta in segno di solidarietà con il popolo polacco e con il partito operario unificato, che lo guida sulla via della democrazia socialista (….)  la manifestazione aveva avuto un chiaro ordinamento democratico e socialista. Le parle d’ordine della manifestazione erano state “lungo la via ungherese verso il socialismo”; seguiamo l’esempio dei comunisti polacchi.

Sembra di essere davanti a un film di Eisenstein, che se non altro era pur sempre notevole da un punto di vista cinematografico. Ma cosa aspettarsi dal quotidiano che  poco più di tre anni prima, in occasione della morte di uno dei tiranni più sanguinari della storia della umanità, aveva titolato: “ gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’Umanità” ? (Unità, venerdì 6 marzo 1953).

Comunque sia, l’idilliaco quadretto tracciato dalla cronista dell’Unità  (Adriana Castellani) viene turbato, è proprio il caso di dirlo, da una … macchia nera: “Alle ore 21 improvvisamente e simultaneamente da varie parti della capitale gruppi montati su camion si dirigevano verso il centro della città.  Si aveva  immediata la sensazione che ci si trovasse davanti a un fatto nuovo e preoccupante e che gli improvvisi e simultanei cortei avessero un carattere ben diverso  dalle manifestazioni popolari in corso. Sparite tutte le parole d’ordine socialista i dimostranti gridavano dai camion parole d’ordine a carattere reazionario, antisovietico, contro il socialismo e il regime popolare.

Alcuni dimostranti, muniti di fiamma ossidrica, hanno attaccato la statua di Stalin, alta 8 metri che sorge sulla piazza omonima, riuscendo a demolirne la base e a metterne in pericolo la stabilità. Si trattava perlopiù di giovani.”

L’articolo prosegue raccontando la presa della sede della radio da parte degli insorti … salvo poi concludersi che “tutte queste manifestazioni, ripetiamo, si svolgevano pacificamente.”

Sicuramente, la disinformazione da allora ha fatto passi da gigante e del resto il pubblico dell’Unità – Guareschi ce lo ha insegnato con la geniale trovata dei trinariciuti – non era rinomato proprio per il suo senso critico. Eppure, non si può rimanere sorpresi dalle evidenti contraddizioni del pezzo, che del resto lascia trasparire un certo senso di imbarazzo: come se l’articolista stessa non credesse del tutto a quel che dice o le fanno dire.

La realtà infatti è molto più semplice e più lineare. Non ci sono “due rivolte” e neppure due anime della rivoluzione ungherese. C’è se mai una evoluzione, rapidissima, che porta alla  presa di coscienza di un qualcosa che in fondo si sapeva da tempo: la totale, assoluta inconciliabilità tra comunismo e libertà. Solo che l’Europa dell’epoca, stretta da un lato nella morsa del  “socialismo reale”, dall’altro da un sottile gioco di equilibri, egoismi, rigurgiti coloniali e sudditanza statunitense, sembrava non avere la possibilità, ma forse neppure la voglia, di reagire.  E’ un caso ad esempio, si chiedeva un osservatore del calibro di Indro Montanelli,  che proprio a fine ottobre si sia verificato l’attacco israeliano all’Egitto, immediatamente appoggiato da Francia e Inghilterra?  “A Budapest, dove ero fortunosamente arrivato – racconta Montanelli  - andai al palazzo del Parlamento e trovai Losonczy, intimo collaboratore di Nagy, immerso nella lettura dei giornali.  Alzò la testa e mi disse spalancando le braccia: ‘allora siamo perduti’ ”.

Montanelli  - e certo non solo lui – si è sempre chiesto se la coincidenza tra i due avvenimenti fosse casuale:  “ Certamente l’accordo fra Israele e gli Anglo- Francesi doveva risalire a parecchio tempo prima, quando nessuno prevedeva l’insurrezione di Budapest, nemmeno a Budapest. Ma ne era stata fissata anche la data?Oppure la si precipitò alle notizie in arrivo dall’Ungheria nella speranza di cogliere i russi troppo impegnati per potersi occupare dell’Egitto? In questo secondo caso non fu soltanto un calcolo sbagliato. Fu un delitto bell’e buono ai danni degli Ungheresi e la più grande occasione mancata di aprire una crisi nella coscienza comunista. Perché l’insensata  guerra di Suez non offrì soltanto un diversivo alla propaganda sovietica e un’arma al governo di Mosca, che poté trasformarsi da accusato in accusatore, ma ebbe un peso determinante nella decisione di schiacciare la rivolta ungherese sotto i cingoli dei carri armati: decisione che, come è dimostrato, non era ancora stata presa il 29 dicembre.”  

L’aggressione delle due potenze europee contro Nasser , potenze segnate dal passato colonialista, è l’occasione che i “falchi” del presidium sovietico non vogliono farsi sfuggire. L’irritazione degli Usa verso francesi e inglesi  li tranquillizza e li eccita contemporaneamente.  Finché  dura la crisi di Suez, che lega le mani alla Nato, il ricorso alla forza in Ungheria appare molto più facile. “L’Ungheria insanguinata, isolata, ignorata, diventa da quel momento insignificante sulla scena internazionale. Nessuno pensa più a soccorrerla,  non interessa più a nessuno.

Certo, si potrebbe obiettare che  difficilmente l’Ungheria avrebbe potuto consolidare e rendere definitive e loro conquiste, ottenute in quelli che Enzo Bettiza ha chiamato, con amara ironia “tredici giorni che non sconvolsero il mondo”. Ma è probabile che se non altro i sovietici avrebbero avuto un compito più arduo, o quantomeno il mondo cosiddetto libero avrebbe avuto più difficoltà a far finta di ignorare il tutto. Invece, alla fine di tutti i giochi, Francia e Inghilterra subirono un duro colpo e entrarono in crisi persino i loro rapporti con gli Stati Uniti, l’Ungheria era caduta senza che nessuno facesse nemmeno finta di muovere un dito per aiutarla e Krusciov , mentre i suoi carri armati grondavano ancora sangue, poteva porsi l’aureola di salvatore della pace.

Ma per tornare allo scoppio di quegli eventi; la manifestazione del 23 non era nata dal nulla (Montanelli , nel celebre reportage inviato al Corriere da Budapest in fiamme, aveva osservato che la rivolta era nata “senza un piano, senza un programma, quasi per caso”; oggi però questa impressione, giustificata dall’immediatezza della cronaca, non è più sostenibile)  ma era stata messa in moto da tutta una serie di eventi le cui radici erano lontane, ma che avevano avuto una decisa accelerazione con il XX congresso del PCUS, quello della “destalinizzazione”. Qualcosa sembrava muoversi anche nel mummificato impero sovietico e nei suoi satelliti: soprattutto in Polonia e nella stessa Ungheria, ci fu un ricambio al vertice tra elementi “stalinisti”.  E’ proprio questo evento che ispirerà speranze di grandi riforme e maggiore autonomia in tutta l'Europa Orientale. Il 22 ottobre 1956 si svolgono assemblee studentesche nelle principali città universitarie ungheresi. Tutti votano per l'uscita dalla Gioventù comunista e per la ricostituzione di organi studenteschi autonomi. Il circolo Petőfi, associazione d’avanguardia di intellettuali e studenti,  si associa al movimento e viene elaborato un documento in 16 punti, che costituisce la piattaforma per la manifestazione convocata per il 23 a Budapest, in solidarietà con la Polonia. Ecco i punti principali: uguaglianza nei rapporti con l'Unione Sovietica, processo pubblico all’ex segretario generale del partito comunista Mátyás Rákosi, reintegrazione dell’ex primo ministro Imre Nagy (che era stato espulso dal partito)  elezioni pluripartitiche, ritiro delle truppe sovietiche che erano presenti in Ungheria sulla base del trattato di pace a conclusione della seconda guerra mondiale.

Si arriva così alla famosa manifestazione del 23, quella di cui parla, per l’appunto, l’articolo de L’Unità.  Una grande manifestazione popolare nasce sotto il monumento al poeta Sandor Petofi a Budapest.  Vi partecipano gli intellettuali dell’omonimo circolo, sorta di nucleo generatore e avanguardia della sommossa, seguiti da  studenti universitari e liceali, operai delle officine di Csepel, comunisti pentiti “redivivi socialdemocratici” (come li chiama Bettiza), risorti nazional contadini, persino soldati e ufficiali dell’esercito regolare.  Stracciano bandiere rosse e sventolano il tricolore con un buco al posto di falce e martello. Declamano strofe del canto Nazionale di Petofi: “ Su di te, Dio d’Ungheria, giuriamo che schiavi non saremo mai.

Francois Feito,  grande storico, cronista e narratore di quella tragedia, scriverà: “Al punto in cui sono giunte le cose è difficile trattare una netta linea di separazione tra comunisti stalinisti e non stalinisti. Ci vanno di mezzo gli uni e gli altri e si verifica così un paradosso incredibile. Nell’Ungheria che almeno all’apparenza è dominata ancora da un potere comunista, il comunismo in quanto partito, organizzazione, ideologia è sul punto di essere liquidato e rigettato come un corpo estraneo. Persino l’organo del partito “Szabad  Nép” si è unito al clamore generale esigendo la partenza delle truppe sovietiche.

Poi, nella seconda metà di questa fatale giornata la situazione precipita. I dimostranti verso le sei di sera si dirigono verso il Parlamento, chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche, reclamando le dimissioni del governo e scandendo il nome Imre Nagy.   Si tratta di  circa duecentomila persone. Mentre in Piazza Stalin viene abbattuta la statua del tiranno sovietivo , in via Bródy, dove si trova la sede della radio, tra la folla dei manifestanti e gli uomini dell'AVH (la feroce polizia segreta ungherese)  ha luogo una vera e propria battaglia che si conclude con un massacro. Alcuni ufficiali dell'esercito distribuiscono armi alla folla: l’atteggiamento delle forze armate, favorevole in larga parte alla rivolta,  segna una svolta decisiva nell'insurrezione.
Il giorno seguente, unità militari sovietiche arrivano a Budapest su richiesta del governo ungherese. Si verificano i primi scontri tra i reparti sovietici e la popolazione. La radio annuncia cambiamenti nel Comitato Centrale e nel governo: Imre Nagy  prende il posto di  András Hegedüs nella carica di primo ministro, ma Ernö Gerö rimane primo segretario del Partito. Imre Nagy così  si rivolge al popolo : "Comunico che tutti quanti deporranno le armi e cesseranno la lotta entro le 13 di oggi, nell'intento di evitare ulteriori spargimenti di sangue, saranno esenti da ogni misura punitiva. Al tempo stesso, dichiaro che, con tutti i mezzi a nostra disposizione, attueremo la democratizzazione sistematica del nostro Paese, in ogni settore della vita economica e politica del Partito e dello Stato. Ascoltate il nostro appello, cessate il fuoco e assicurate il ristabilimento dell'ordine e della calma nell'interesse dell'avvenire del nostro popolo e del nostro Paese". Anziché deporre le armi, gli insorti conquistano le fabbriche di Budapest, tranne il quartiere industriale di Csepel, che cadrà nelle loro mani solo il 26. Frattanto vengono segnalati scontri anche a Debrecen, a Szolnok, a Szeged.
Il 25 ottobre, mentre gli scontri proseguono e il governo Nagy afferma che l'ordine è stato riportato nella Capitale, il segretario del partito comunista Ernö Gerö viene sostituito da János Kádár.  Nagy e Kádár dichiarano che, una volta ristabilito l'ordine nel Paese, cominceranno le trattative per l'evacuazione delle truppe sovietiche. Inoltre Nagy promette che il Parlamento esaminerà un programma di riforme. Tuttavia i combattimenti non si placano; anzi, gli insorti estendono il loro controllo ad altre zone dell'Ungheria. Il 26, il Comitato Centrale si impegna a indire nuove elezioni, a negoziare con l'URSS il ritiro delle truppe, a riconoscere i consigli operai e ad amnistiare tutti coloro che deporranno le armi prima delle ore 21. Il giorno dopo, viene annunciata la formazione di un nuovo governo presieduto da Nagy, che comprende ministri non comunisti quali  Zoltán Tildy ( già capo dello Stato tra il '46 e il '48) e Béla Kovács, mentre György Lukács diventa ministro della cultura.  Domenica 28, Nagy dichiara che le truppe sovietiche lasceranno subito Budapest e che la destata  AVH sarà sciolta. Un comitato d'emergenza, tra i cui membri sono Kádár e lo stesso Nagy, assume temporaneamente la guida del Partito. I consigli operai rivoluzionari e i comitati locali di unione nazionale avanzano una serie di richieste, le più importanti delle quali sono la denuncia del Patto di Varsavia, la revisione della politica economica, la democratizzazione della vita politica. Il capo della polizia di Budapest annuncia la costituzione di unità della Guardia Nazionale Ungherese. Lunedì 29, mentre a Budapest continuano i combattimenti, il ministro della Difesa annuncia il ritiro delle unità sovietiche dalla Capitale e la loro sostituzione con reparti dell'esercito ungherese. Martedì 30: Imre Nagy procede a un nuovo rimpasto governativo, annuncia l'abolizione del partito unico e il ritorno alle condizioni politiche del 1945. Il ministro Tildy vuole che sia ricostituito il Partito dei Piccoli Proprietari; Ferenc Erdei, vice primo ministro del nuovo governo, formula una richiesta del genere  per il Partito Contadino. Persino  Kádár approva. L'aviazione ungherese minaccia di bombardare i carri armati sovietici se non se ne andranno da Budapest. Intanto gli insorti espugnano il comando della AVH a Pest e incendiano la sede del Partito Comunista a Buda. Viene liberato il cardinale Mindszenty,primate d’Ungheria incarcerato nel 1948 e sottoposto e ben otto anni di umiliazioni e tormenti di vario genere, tra cui il divieto assoluto di pregare.  Un funzionario della legazione USA  si reca in veste ufficiale alla caserma Kilián e assicura i rivoltosi che possono contare sull'appoggio statunitense.  Mercoledì 31: mentre il governo manifesta l'intenzione di far uscire l'Ungheria dal Patto di Varsavia e intraprende trattative in questo senso col governo sovietico, il capo militare della rivolta, Pál Maléter, è nominato sottosegretario alla Difesa. Appaiono nuove testate giornalistiche, è riammessa la ricostituzione del partito socialdemocratico, escono dalle prigioni i detenuti politici. Le truppe sovietiche lasciano Budapest.
Giovedì 1 novembre: il governo Nagy denuncia il Patto di Varsavia, proclama la neutralità dell'Ungheria e si rivolge alle grandi potenze e all'ONU affinché se ne facciano garanti. János Kádár annuncia lo scioglimento del partito comunista e la fondazione di un nuovo partito, "operaio e socialista". Venerdì 2: il governo Nagy protesta per il rientro di truppe sovietiche in territorio ungherese e dà mandato a una delegazione militare di trattare coi Sovietici il ritiro delle truppe. Ma il tradimento è ormai consumato:  i  Sovietici si sono impadroniti della linea ferroviaria Záhony-Nyíregyháza e mantengono il controllo dell'aeroporto internazionale di Budapest. Il consiglio dei rabbini e il "comitato rivoluzionario" della comunità ebraica della Capitale salutano "con entusiasmo il compimento della rivoluzione" ed esortano gli organismi ebraici internazionali ad aiutare la rivolta. Sabato 3: la delegazione guidata da Pál Maléter viene arrestata dai Sovietici. In un appello alla nazione, il Cardinale Mindszenty annuncia un programma di "conquiste democratiche"  e pone "i grandi Stati Uniti d'America" in testa alla classifica delle nazioni con le quali l'Ungheria vuole avere rapporti di amicizia. Qualche giorno più tardi si rifugerà proprio nell'ambasciata statunitense, dove resterà per quindici anni.
Il 4 novembre, alle 4,20, Imre Nagy parla da Radio Kossuth e annuncia che ha avuto inizio l'attacco sovietico contro Budapest, "con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d'Ungheria". Le truppe sovietiche, appoggiate da paracadutisti, si impadroniscono di tutti i centri nevralgici dell'Ungheria, nonostante la resistenza opposta da truppe ungheresi e da gruppi armati di civili. 

Intanto János Kádár e altri  annunciano di aver dato vita a un nuovo governo e di aver chiesto l'intervento dell'Armata Rossa per soffocare la controrivoluzione. Molte stazioni radio piombano sotto  controllo sovietico e per tutta la giornata successiva ripetono appelli per la cessazione del fuoco e la ripresa del lavoro. Nella giornata di lunedì continuano i combattimenti nell'ottavo distretto di Budapest, a Csepel, nella regione del Balaton e a Kecskemét. Gli scontri si protraggono per una settimana, a Budapest e in altre località  dell’Ungheria
Seguì un mese di resistenza passiva, diretta dal Consiglio Operaio Centrale di Budapest, finché il 9 dicembre il Consiglio fu sciolto e i suoi membri furono arrestati. Imre Nagy e i suoi compagni saranno condannati a morte nel 1958, dopo un processo a porte chiuse.
Per la perestrojka e per la liquidazione del “socialismo reale”, era ancora troppo presto.

Molte le testimonianza, drammatiche di quei giorni, ma ancora più drammatica e sconvolgente è l’atteggiamento del PCI nella vicenda.   “ E ancora conturbante lo spettacolo che Budapest dava di sé la sera del tre novembre. Su tutti i davanzali delle case lungo le quali si sfilò per uscire dalla capitale, dal centro alla periferia, ardevano lumini. Semplici lumini da morto, da cimitero, a decine di migliaia. La città sentiva di trovarsi in agonia, lo diceva con quelle fiammelle che oscillavano tristi al vento “ ricorda il giornalista Egisto Corradi, altro testimone diretto di quei giorni drammatici.

L’ultima fase del dramma è sicuramente la più sconvolgente. C’è la doppiezza sovietica: mentre il 31 ottobre gli ultimi cingolati rossi lasciamo la capitale ungherese, il presidium del soviet supremo (rafforzato anche dai fatti mediorientali)  riunito in seduta straordinaria a Mosca decide il secondo intervento armato.

Se  il 1 novembre rappresenta l’inizio della fine, rappresenta anche l’evolversi in senso diametralmente opposto di due personalità: Nagy e Kadar. Il primo, quando apprende che i sovietici stanno nuovamente per aggredire il paese, passa definitivamente il Rubicone e a nome del governo proclama la neutralità e l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia, nonché l’iscrizione urgente della questione ungherese all’ordine del giorno dell’Onu. E’ una posizione decisa e arrischiata che pagherà con la vita. Kadar invece si “sdoppia , mettendosi contemporaneamente al seguito di Nagy  verso la soluzione nazionale e la sovranità garantita dall’Onu; e contemporaneamente, al seguito dell’ambasciatore sovietico Yuri  Andropov, lavora per la sovranità azzerata e la restaurazione della … pax sovietica.

E’ davvero sorprendente: la mattina accetta senza riserve tutte le posizioni di Nagy, persino il pluralismo dei partiti; registra alla radio un discorso inneggiante al “glorioso sollevamento del nostro popolo.  Poi accoglie l’invito di Andropov, si reca all’ambasciata russa  nel pomeriggio e … quella stessa notte lo ritroviamo a Mosca a negoziare i termini politici della sua collaborazione con i gerarchi del PCUS che preparano l’invasione.  Un personaggio sicuramente camaleontico e misterioso, che si trasformerà poi da complice degli oppressori russi a tollerante benefattore degli oppressi ungheresi, dando vita alla macabra battuta che l’Ungheria era la migliore baracca del lager sovietico.  Basti pensare che il 2 novembre, davanti ai gerontocrati sovietici, dirà con franchezza : “Un intervento armato ridurrebbe a zero l’autorità morale dei comunisti”; ma il 4 novembre, a repressione in corso, scriverà  sulla Pravda: “ Non avevamo più che due scelte davanti alla gravità della situazione. La prima era di restare passivi al cospetto del terrore bianco che stava massacrando Budapest. Ecco perché l’interesse dello stato e del popolo non poteva che obbligarci alla seconda scelta: la mobilitazione di tutte le forze disponibili e in primo luogo l’appello alla unità sovietiche per arginare l’espandersi della guerra controrivoluzionaria.   Nel 1972, in occasione del suo sessantesimo compleanno, parlerà di Terribile tragedia nazionale”.

Andropov intanto dà una ulteriore prova di correttezza sovietica: il 3 novembre invita una delegazione capeggiata del neoministro della difesa Maleter per trattare un finto ritiro delle truppe e lo fa arrestare. Finirà condannato a morte, con Nagy.  Kruscev scaglia contro Budapest 5000 carri armati, più di quanti Hitler ne lanciò contro la Russia nel 1941. I  comabattimenti divampano spontanei, disperati, con migliaia di morti e feriti. Alla fine del dramma, i morti di parte ungherese furono circa 25000, gli esuli circa 250000: il 3% della popolazione.

Per quanto riguarda Nagy, i suoi  ultimi due anni di vita saranno anni di sofferenza fisica em orale che lui e i suoi più vicini collaboratori, che ne seguiranno la sortew dalla deportazione in Romania sino al patibolo, sopporteranno con una forza interiore e una dignità davvero rare. I sovietici cercarono di indurlo al “pentimento” offrendogli persino un posto   nel governo fantoccio di Kadar, d’impaurirlo con minacce di morte e ritorsione verso i familiari, spezzandolo con la tortura del sonno e interminabili interrogatori notturni.   Il 16 giugno 1958 verrà impiccato in quello che è un vero e proprio assassinio politico.

Dell’ odissea che condurrà Imre Nagy  al patibolo, l’ «Unità» dipingerà un quadretto idilliaco: il deposto capo del governo e i suoi collaboratori erano «partiti in autobus per concedersi un periodo di riposo in Romania»; poi Nagy si era trovato in compagnia di amici «in un’ amena località in Transilvania», e una persona di fiducia avrebbe telefonato per tranquillizzare i suoi familiari circa la sua «ottima sistemazione», il suo «buon umore», il «tempo magnifico dei Carpazi» e persino «la sua soddisfazione di essere lontano dagli avvenimenti ungheresi». E quando Nagy verrà ucciso, Luigi Pintor rimprovererà al socialdemocratico Paolo Rossi di aver manifestato il proprio cordoglio senza «dire una parola sui torturatori algerini”.

Già, i compagni italiani. Ignazio Silone ebbe a scrivere: “Nei confronti degli insorti ungheresi, Togliatti è stato di una volgarità e di una insolenza che la lingua italiana non aveva conosciute dalla caduta del fascismo.”

“Terrore bianco” “banditismo” “teppismo Horthista”,  “controrivoluzione”; così il “Migliore” si esprimeva nei confronti. degli insorti. Togliatti era considerato quasi un pari grado dai dirigenti sovietici, consigliere degno d’ascolto e di riguardo. Come ha dimostrato il biografo di Nagy Romano Pietrosanti  (Imre Nagy, un ungherese comunista. Vita e martirio di un leader dell’ottobre 1956) Palmiro Togliatti ebbe non soltanto responsabilità nell’intervento sovietico per reprimere la rivolta libertaria, ma anche nella condanna a morte, un paio di anni dopo, del legittimo capo del governo di Budapest. Centrale in questo capitolo non è tanto e solo la posizione dei 101 intellettuali comunisti che si distaccarono dalla linea del più grande Partito comunista dell’Occidente, quanto una lettera inviata da Togliatti al Comitato centrale del Pcus il 30 ottobre 1956, quando i sovietici avevano provvisoriamente deciso il ritiro delle loro truppe da Budapest. Nella missiva il leader italiano metteva in guardia i Cremlino sul doppio pericolo di quella che lui definiva «la rivolta controrivoluzionaria». Da una parte la possibile spaccatura del Pci, in cui una consistente minoranza voleva affidare la segreteria al segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio, che aveva condannato l’invasione. Dall’altra la possibilità che la «direzione reazionaria» presa dai fatti di Ungheria potesse «lesionare l’unità» dello stesso Pcus. Secondo Pietrosanti, quella lettera, che viene citata in sole tre parole nella importante biografia di Togliatti di Aldo Agosti, fu determinante nel far prevalere la fazione staliniana che faceva capo a Molotov, favorevole al nuovo e definitivo intervento. Togliatti ebbe anche una responsabilità nella condanna a morte di Nagy, come dimostra il resoconto che János Kádár, capo del nuovo governo filosovietico, fece dell’incontro con Togliatti avvenuto a Mosca il 10 novembre 1957, in preparazione di un vertice dei partiti comunisti. Togliatti avrebbe chiesto a Kádár una sola cortesia, di rinviare l’esecuzione a dopo le elezioni italiane del 25 maggio 1958. L’unico leader a pronunciarsi contro la condanna, eseguita il 16 giugno, fu il polacco Gomulka.

Del resto, se già il 4 novembre il “Migliore” poteva brindare “con un bicchiere di vino in più “ alla seconda e definitiva repressione, qualche giorno dopo così si esprimerà in un articolo: “E’ mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo.

All’indomani dell’invasione,  mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti comunisti di primo piano lasciavano il Partito Comunista Italiano, mentre l’Unità definiva “teppisti”  gli operai e gli studenti insorti, un altro personaggio  eccellente, Giorgio Napolitano si profondeva in elogi ai sovietici. L’Unione Sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la “pace nel mondo”, diffondendosi in sperticati elogi della repressione.

Ho reso questo omaggio sulla tomba di Imre Nagy a nome dell’Italia, di tutta l’Italia, e nel ricordo di quanti governavano l’Italia nel 1956 e assunsero una posizione risoluta, a sostegno dell’insurrezione ungherese e contro l’intervento militare sovietico, dirà durante la visita in Ungheria

Niente male come  faccia tosta, per non dire di peggio.

Non una dichiarazione sulle responsabilità sue e dei suoi  “compagni” di partito, non una richiesta di perdono alle vittime (oltre 20.000), non un’affermazione che inchiodasse il comunismo “male assoluto”. Non solo, ma si permette, ancora oggi, di dare lezioni di democrazia.

 

Piccola bibliografia di riferimento

 

Egisto CORRADI, La Rivolta Ungherese,  in I grandi Fatti, il Secondo dopoguerra, pp. 89-96, Milano, Editoriale nova, 1990, vol. 7.

Enzo BETTIZA, 1956. Budapest, I giorni della Rivoluzione,  Milano, Mondadori, 2006

Federigo ARGENTIERI Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata,Venezia, Marsilio, 2006.

ANONIMI D’UNGHERIA, Memorie d’Europa. La Rivoluzione Ungherese (23  ottobre – 9 novembre 1956), Rimini, Il Cerchio, 2016.

 

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