Editoriale

La "letteratura televisiva" sta uccidendo il gusto del narrare e il piacere di leggere per comprendere

Cantanti, attori, calciatori, scrivono autobiografie o romanzi, gli editori li pubblicano perché hanno il successo dovuto al nome e non alla qualità, e intanto la letteratura muore

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

osa hanno in comune Tiziano Ferro e Zlatan Ibrahimovic, Arisa ed Enzo Ghinazzi (in arte Pupo), Simone Annicchiarico e Vasco Rossi, don Andrea Gallo e Veronica Pivetti? Non vi viene in mente qualcosa che possa accomunare personalità – e storie – così diverse? Ebbene, tutti hanno scritto un libro: un autobiografia, un romanzo, una raccolta di racconti, comunque un libro che per di più figura nelle classifiche dei più venduti. Ma c’è un'altra caratteristica comune: tutti sono personaggi la cui popolarità viene alimentata dalla televisione. A questo punto, viene da porsi alcuni interrogativi. Intanto, è un bene? È un male? Certo, sotto il profilo dei profitti – di Autori, Editori e protagonisti della “filiera letteraria” – i benefici sono evidenti: il nome del “famoso” si fa spazio da sé nelle librerie e non c’è gran bisogno di spese promozionali, per vendere.

Qui però interessa qualche riflessione sullo stato della letteratura e dell’editoria, con particolare riguardo al comparto della narrativa. Parafrasando un personaggio picaresco di Verdone – a proposito, altro autore di best seller, con il suo autobiografico La casa sotto i portici – il romanzo “ci serve o non ci serve?”. 

Io dico che “ci serve”: raccontare, fin dagli albori della nostra civiltà, ha fatto sognare, ha aggregato, ha plasmato identità collettive, ha formato e salvaguardato la lingua nelle sue trasformazioni quotidiane, ha fornito strumenti di conoscenza che la forma del saggio non riusciva e non riesce a fornire. Chi volesse approfondire i mutamenti del costume – non solo politico – nella Spagna del dopo-Franco, troverebbe più spunti e argomentazioni fra le pagine dei romanzi di Vazquez Montalban e di Javier Cercas che non nei saggi degli specialisti; analogamente, la Milano “da bere” che prelude all’esplosione di Tangentopoli viene tratteggiata da Renato Olivieri nei suoi “gialli”, meglio che in tanti approfondimenti politico-sociologici.

Dunque, il romanzo “ci serve”; ma quale apporto alla causa della narrativa possono dare gli scrittori-non- scrittori famosi? Secondo voi, quanti compratori dei loro fortunati volumi passeranno poi alla lettura dei Roth  e dei Piperno, dei Saramago e dei La Capria, o addirittura dei Flaubert, dei Mann, dei Dostoevskji? E ancora: quanti di quegli scrittori-non-scrittori proseguiranno in questa nuova carriera, magari affiancandola a quella che li ha resi famosi? Certo, non mancano i casi di una vera e propria folgorazione: Margaret Mazzantini e Giorgio Faletti sono diventati scrittori veri, e così dicono di Gene Hackman; ma la regola generale sembra essere – per fortuna? – quella dello scrittore-non-scrittore di un solo libro.

A questo punto, qualche domanda bisognerebbe porla sul ruolo dell’Editore, una figura dove da sempre devono convivere e interagire  le qualità dell’industriale e del mecenate, del commerciante  e dello scopritore di talenti, del manager e del metapolitico.  Oggi, nel nostro paese, si dice che, mentre continua a non crescere la platea dei lettori, sembra invece montare la marea degli scrittori; il che – crisi a parte -  rende più difficile, ad ogni livello, il mestiere di Editore.

A dire il vero, le uscite di sicurezza non mancano: chi ha più risorse – leggi: capacità promozionali, anche sotto forma di accesso agli audiovisivi, e distributive – si lancia, come abbiamo visto, sui “famosi”, che si tratti di “avventizi” celebrati da cinema, stadi e TV, o di “professionisti” collaudati, viventi o meno, da Seneca a Hesse, da Crichton a Saint-Exupéry, da Borges a Ruiz Zafon, da Schopenhauer a Grisham, saltando dai best seller ai long seller. Meglio se “fuori diritti” e pagando il meno possibile i traduttori.

Un discorso a parte meriterebbero gli Editori che pescano nel mare magnum degli scrittori “a pagamento”, ma per questo rimandiamo alle pagine di Umberto Eco nel Pendolo di Foucault. In più, oggi ci sono le sconfinate possibilità della Rete, che agevola la circolazione di testi di varia natura, lunghezza, qualità; ma anche questa è decisamente un’altra storia.

Il fatto è che gli Editori – specialmente quelli “grandi” - facendo leva sul variegato mondo televisivo, hanno messo ai margini della propria attività le ragioni della letteratura, privilegiando oltre misura il business. Ancora poco tempo fa abbiamo registrato la moda lucrosa dei comici anti-berlusconiani in veste di Autori di best sellers: qualcuno ne ricorda oggi un solo titolo? Sullo sfondo, resiste la tendenza a sfruttare i casi di cronaca in chiave narrativa, ma ad opera non già di scrittori professionisti, bensì, soprattutto, degli sventurati protagonisti: mentre aspettiamo i capolavori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, limitiamoci a ricordare il caso della povera ragazza austriaca segregata per anni dal padre incestuoso o quello dell’adolescente rapita dal criminale belga, serial killer e stupratore.

Di fronte a un simile cinismo, appaiono investimenti sensati e perfino edificanti quelli effettuati sulla vena narrativa di politici di nome, quali Veltroni e Franceschini, anche essi perennemente sulla cresta dell’onda televisiva. Certo, non si può non provare un po’ di nostalgia per Editori di altri tempi, “grandi” e “piccoli”, schierati o meno.

Alludo, per limitarmi ad alcuni, al Giovanni Volpe editore di Maurras e di riviste come «La Torre» e «Intervento», alla Rusconi di Cattabiani, alla Settecolori di Pino Grillo e al suo C’eravamo tanto a®mati, ma anche alla “vecchia” Einaudi di Pavese e  Calvino o a un “poeta” dell’editoria come Vanni Scheiwiller; imprenditori, sì, ma capaci di aggregare nobili intelligenze, ancor prima che scrittori di vaglia, fondatori di comunità dello spirito, cenacoli non già di cultori dell’Arcadia, bensì di militanti del pensiero.

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