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Prospettive aperte I

Sirmione

di Piccolo da Chioggia

Sirmione

Scorcio del paese di Sirmione

Sirmione paese. Prima di avviarmi alla stazioncina e prender il treno che mi porta a Verona voglio farmi un’ultima breve passeggiata. Voglio fissare i panorami per quanto possibile. Dalla piazzetta delle Terme mi avvio verso la villa catulliana. Viali sotto gli ulivi fiancheggiati da muretti e cancellate di hotels. La stradina procede a serpentina e d’un tratto arrivo allo slargo un po’ in alto dal quale posso vedere sui tre lati della penisola. La magia si rinnova pure se i vapori di foschia mi permettono a malapena d’intravedere lo strano triangolo che è il monte che sovrasta la lontana Riva, posta a capo del Benaco. Da i tre lati acque celesti appena increspate da qualche lieve moto d’aria e a corona di esse ammiro l’anfiteatro spettacolare delle montagne che fanno loro da orlo come d’un calice tagliato nella pietra rude. Alto il massiccio del Baldo sulla destra nel veronese. Vele stanche di piccole navi si dondolano e formano una costellazione di piccoli panni stesi e rarefatta sul celeste misto a verde delle acque. Di là a sinistra intravedo la costa bresciana. Mi par di riconoscere l’agglomerato di Salò. Non chiedo alla mia vista di sforzarsi e misurare nei volumi che emergono dalla macchia verde di alberi lontanissimi quale sia Gardone e se si veda il Vittoriale. Nessuno è nello slargo e non posso domandare a chi del luogo notizia. Prima di voltarmi e riprendere il passo di ritorno guardo verso Riva un’ultima volta: è il punto di fuga composito di questa magnifica prospettiva. Procede sulle acque ma svetta infine alle creste dei monti per perdersi in cielo.

Ripassando per il viale a serpentina che tende alla parte orientale della stretta penisola rammento la casetta d’una signora mantovana alla quale tempo addietro chiesi per conto d’una vicina di casa il prezzo dell’ospitalità per un breve soggiorno in vista del lago. L’albergatrice aveva una grazia delicata e semplice nello svolgere il suo modesto ufficio di affittacamere e nemmeno a dirlo aveva un cognome davvero ideale per la mia vicina che si dilettava di poesia: sul biglietto da visita leggevo: Carla Sordelli.

Passo dopo passo all’ombra degli ulivi intravedo la casetta e camminando mi vien una delle mie solite allegrie classificatorie: ora son i poeti che qui d’intorno nel breve raggio di decine di chilometri hanno posato il loro passo alato. D’Annunzio lì a Gardone compose le sue meravigliose prose notturne. Sordello nato a Goito che lamenta in provenzale la scomparsa del suo signore, Pound che a Sirmione si riscaldò con bagni prolungati nell’acque della fonte “bojola” –la bollitirice- e ha scritto una lirica impareggiabile sul panorama che volge a Riva. Il Carducci. Vincenzo Errante che tradusse il Faust e Rilke e Hȍlderlin in versi dannunziani e finì i suoi giorni in quel di Riva.

Costeggio la pieve di San Pietro in Mavino. Piccola pieve, quasi minuscola ma munita di campanile e affogata in una selva indescrivibile di olivi. Sotto le mura della pieve, con la gronda del tetto così vicina che pare di poterla toccare allungando un braccio nulla si vede d’intorno, altro che olivi dalle fronde foltissime. E i tronchi e i rami contorti. Solo il cielo si vede e rammento che quando qui arrivai, dopo il colloquio fruttuoso con la signora Sordelli, mi persi entro la viuzza che qui mi porta. D’un tratto, era verso sera e di primavera sento un fittissimo stridere. Alzati gli occhi al cielo vidi esattamente sopra la pieve, levati in alto d’una sessantina o settanta metri oltre il tetto, mille e mille lari che volavano in una specie di giostra aerea urlando festosi. Stentavo a comprendere il motivo di quel concilio aeronautico. Forse le candide creature volevano cullarsi su di una corrente ascendente come alianti e roteare mirando pure loro, ma da ben altra prospettiva che la mia, il tramonto sul lago?     

Il ricordo è nettissimo. Potevo distinguere le belle sagome o siluette dei volatori fin nei particolari del bel disegno che essi hanno: proporzioni aggraziate fra apertura d’ali e lunghezza di capo e coda, belle inserzioni di linee dove le ali si uniscono al corpo affusolato. I lari, per il giuoco delle luci non mi apparivano più candidi ma brillavano grigi - altra espressione non trovo - perché io ero immerso nell’ombra verde-bluastra della selva di olivi mentre loro roteavano nell’ultimo cielo chiaro ai raggi d’un sole che prestissimo sarebbe tramontato oltre le colline di Brescia.  

Ancora mi stupisco di quello strano concilio aeronautico e della persistenza del ricordo. Qual era qui la voce delle cose e dei fatti? Il mantello verde-blu d’una piccola e fitta selva non troppo oscura ma delicatamente in ombra e la pieve bianca che se ne stava immersa nella quiete? Di vedetta come il periscopio d’un sommergibile il campanile e oltre, sopra l’ultimo chiarore della giornata e la festa aerea dei lari giubilanti. Contenti per la buona pesca? Felici perché presto sarebbero migrati altrove a nuove acque e di queste serbavano nella loro piccola memoria ottimo ricordo?   

Mi affretto sulla via che porta al castello scaligero. Lo immagino nelle notti dell’inverno che qui sul Benaco sono bellissime, lo sguardo è rapito dalla massa oscura delle acque, i monti d’intorno splendenti per le nevi e tutto sembra cristallino e trasparente. Dalla piazza oltre il castello verso l’imboccatura della penisola parte la corriera che va verso la stazione.

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