Case come templi

Sigfrido Bartolini: la poetica della 'semplicità'

Casolari simili a templi arcaici e tuttavia reali, giocati sul filo di un’ambiguità dove il limite fra fenomeno e noumeno tra sensibile e metafisico si stempera e si dissolve

di Leyla  da Brest

Sigfrido Bartolini: la poetica della 'semplicità'

Sigfrido Bartolini, La cartiera, Olio, 1961

La poetica di Sigfrido Bartolini appare di primo acchito molto decifrabile: niente di astruso o di incomprensibile nel suo discorso pittorico svolto sul piano della più genuina semplicità e permeato da un incanto quasi sottilmente irreale, ottenuto mediante l’esasperazione di certe atmosfere, trasognate e dolci, proprie del paesaggio toscano. E’ importante nella comprensione di Bartolini sottolineare lo strettissimo rapporto che lo lega alla sua terra (è nato infatti a Pistoia nel 1932).  L’annotazione biografica, infatti, ci sembra abbastanza determinante poiché è all’humus spirituale e culturale della tradizione toscana che va ricondotta l’anamnesi estetico-esistenziale del pittore.

Tralasciando di ricostruire dettagliatamente il suo ordito biografico, pochi dati essenziali ci sembrano sufficienti: il luogo e la data di nascita, la sua attività seria e costante, sia nel campo dell’arte figurativa sia in quello letterario, che lo vede, grazie alla sua versatilità, ora in veste di critico e saggista, ora in quello di sottile e arguto moralista (Vedi: Ed,Volpe – “Lettere di San Bernardino da Siena ad un quotidiano”). E’ preferibile infatti ricostruirne la personalità d’uomo e di artista, l’ottica particolare e l’anticonformista Weltanschauung, attraverso gli olii dai colori smaltati e teneri, i disegni, le tempere e gli acquerelli dalle tonalità pure e cantate, le xilografie dove il legno si piega duttile sotto le sue mani, dando luogo a un segno fastoso e morbido e tuttavia netto.

La tematica preferita dì Sigfrido Bartolini, dove appare più evidente il suo legame spirituale e artistico con Soffici, è il paesaggio: un paesaggio trasognato dove le annotazioni del più ortodosso realismo quasi magicamente si aprono a piani di emblematica trascendenza. E nel contesto di questo stesso paesaggio la tematica più frequentemente ricercata ed indagata con un sempre rinnovato interesse è quella delle case: case di campagna, solitarie o a gruppi, nel folto di macchioni o scabre sulla riva di marine deserte, sono i soggetti preferiti di un inquisire minuzioso, quasi un voler scendere al perché delle cose. Niente è più reale di questi casolari i cui modelli sono reperibili ad ogni passo nella campagna toscana, occhieggianti coi colori rosati o morbidamente ocra oppure grigi su declivi e su dossi delle distese collinari di cui si compiace la morfologia della regione, e tuttavia nulla è più magico, misterioso e sacrale.

Da queste “tranches” di realtà la figura è assente: case isolate, agglomerati di due o tre casolari, scorci di paesaggio resi con un taglio ricco dì maestria prospettica – in omaggio alla più aulica tradizione toscana – sono deserti, senza neppure una microscopica figura o umana o di qualche animale. 

L’esclusione dell’elemento umano dal contesto del paesaggio naturale ci sembra però non significhi in Bartolini porre in primo piano la natura quasi in una direttiva romantica: la natura, nel discorso bartoliniano, è sempre in funzione dell’uomo: non certo dell’uomo moderno consumista e sciocco distruttore del proprio habitat naturale, ma un uomo diverso ed essenziale – forse l’ultimo o magari il primo di una nuova specie – amante del silenzio interiore, della calma, nemico della confusione demonica, assorto in una visione superiore.

Così questi casolari simili a templi arcaici e tuttavia reali, giocati sul filo di un’ambiguità dove il limite fra fenomeno e noumeno tra sensibile e metafisico si stempera e si dissolve, sembrano sospesi nell’attesa, quasi fossero uno scenario deserto che aspetti una più autentica e vera umanità. Né è cosa nuova nella migliore tradizione artistica toscana l’attingere ad un humus arcaico e mitico dove le categorie del passato e del futuro si risolvono in una cristallizzazione atemporale: di questa essenza sempre rinnovantesi e tuttavia stabile è ricostruibile il tracciato nelle “Pomone” di Marini, ad esempio,  o nei paesaggi vibranti e trascendenti di Fattori (specialmente in certe incisioni dell’ultimo periodo, quando il dato strettamente naturalistico si alza ad una visione più scarna e laconicamente espressiva) o nella atmosfera del miglior Rosai e nel discorso paesaggistico di Soffici con le ravvisabili allusioni cezanniane. Linguaggi singolarmente diversi ma in cui sono leggibili comuni stilemi riconducibili appunto, all’unica sintassi del terreno tradizionale di cui la Toscana è ricca. Motivi forse eterogenei al discorso artistico stesso, rintracciabili piuttosto in risvolti etnico storici anche lontanissimi – l’eredità etrusca non mai completamente rinnegata, l’indipendenza e l’autonomia avute per secoli – concorrono certamente a fondare questo peculiare aspetto. La ricognizione di affinità e di fonti, anamnesi non inutile per la comprensione di un artista, non è dunque sterile erudizione ma necessità filologica per la ricostruzione di tutto quanto il patrimonio culturale che sta a monte di una personalità.

In Bartolini questa eredità è sensibile ma non ne fa un passatista. Al limite, è proprio nel suo attenersi ad un discorso pittorico tradizionale che si radicano modernità, freschezza, attualità del suo discorso.

Il porsi ai di fuori delle mode e degli “ismi”, delle avanguardie destinate inevitabilmente a invecchiare è ciò lo preserva dall’usura dei tempo, dall’isterilirsi in modi pittorici condizionati da voghe e scuole.

E’, in fondo, la dimensione assoluta delle sue case e dei suoi paesaggi: fermati nell’attimo essenziale, reali in se stessi e nello stesso tempo portatori di simboliche valenze, quasi tramiti per attingere a piani superiori e metafisici, “parole di passo” per aperture verso l’alto.

Dimensione valida sul piano artistico ma soprattutto su quello esistenziale. E’ presente in questo discorso un’ottica sciolta dai luoghi comuni, anticonformista e coraggiosa.

Sul piano strettamente pittorico le opere di Bartolini sono ineccepibili: un disegno ben costruito e solido, dal segno esatto e perspicuo in un’euritmia di composizione dove tra la salda impalcatura grafica ed il colore si instaurano perfette rispondenze, leggibili nell’equilibrata armonia dei volumi, nell’interazione grafico che poggia su una tavolozza serena e doviziosa, variata non per contrasti ma per trapassi graduali giocati su sfumature inavvertibili.

Le tonalità fredde degli ampi cieli e le prospettive non aliene talvolta da soluzioni spaziali quasi illusionistiche, si accordano alle calde e morbide tonalità delle case, svolte  di preferenza sulle sfumature fastose e tenere delle terre di Siena, dei rossi, dei gialli sino ad uno sfarsi tremulo in diafani rosa dove spesso si agglutina il pathos cromatico dell’intera composizione. Ma l’abilità tecnica, la severa prassi grafica, presentì quali testimonianza di validità professionale non gravano sull’economia del dipinto; la resa finale è quella di estrema leggerezza e di naturale semplicità: la semplicità più tersa e cristallina che nasce solo dal superamento di una grandissima abilità nativa affinata mediante una disciplina tecnica, da una “bravura” e da una intelligenza che sa ormai sceverare l’essenziale dal superfluo, l’assoluto dal relativo. Severità con se stesso, umiltà ed amore nei confronti del proprio mestiere ci sembrano gli ingredienti base di cui si permea questa pittura così “diversa”. Nessuna impressione di accademismo dunque né di facili o epidermici collegamenti con la tradizione pittorica precedente per quanto si conservino ordine misura equilibrio di composizione e sobrietà di toni che sono qualità caratteristiche della buona pittura toscana. Ma tutto è stato assorbito ed assimilato, rielaborato in forma personale: dipingere per Sigfrido Bartolini è fondamentale e semplice come respirare, fatto essenziale ma naturale e tuttavia basilare ed unico.

Naturalezza e semplicità che non divengono mai, è superfluo sottolinearlo, sciatteria o ingenuità: si configurano invece nettamente quale superamento del mezzo tecnico, la cui perfetta padronanza è stata raggiunta attraverso un iter accurato e costante. Lezione esemplare per i frettolosi pittori contemporanei i quali spesso cercano di dissimulare lacune di preparazione e scarsezza d’ispirazione originaria, con futili e ciarlatanesche “invenzioni” e “trovate”.

Il linguaggio di Sigfrido Bartolini, divenuto essenziale proprio anche attraverso il paziente perfezionamento del “mestiere artistico”, si fa mezzo di una “conversio ad deum” nel senso di ampliamento metafisico che prende l’avvio proprio dallo scavo affettuosamente solerte delle cose più terrene e semplici, in una determinante induttiva che dal particolare risale all’universale. Attraverso i silenzi rarefatti di queste case così reali e tuttavia così emblematiche, si ha un avvicinamento a “quell’invisibile che altre approssimazioni presuntuose non riescono a ricevere”.

L’aprirsi ad una dimensione metafisica sembra essere a portata di mano, quasi dietro l’angolo di ognuno di questi casolari, ed è porto poi nel modo più semplice, mediante una netta rappresentazione fenomenica quanto mai aderente ai canoni del reale e che tuttavia consente un’apertura verso un aspetto essenziale ed assoluto da cui si intuisce, cane in un satori zenico, la presenza di una Realtà fondamentale ed eterna.

Attraverso la decantazione del dato sensibile, queste case assumono così la dimensione di “tòpoi” ideali, quasi “centri” di magica stabilità, isole di rifugio in alternativa al divenire caotico e incerto dell’esistenza contingente.

Ed è la duplice gratificazione sul piano artistico ed esistenziale che dà la misura dell’opera bartoliniana e testimonia dello stile superiore e inconfondibile dell’uomo e dell’artista.


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